SESSO COMPULSIVO E DISTURBI PSICHIATRICI

Post n°74 pubblicato il 05 Ottobre 2010 da iltuopsicologo1964

Dietro ai rapporti sessuali non protetti, promiscui, più frequenti della norma o comunque disturbati potrebbe celarsi non una presunta eccessiva libido, ma un problema psichiatrico.

A sostenerlo sono i ricercatori del Bradley Hasbro Children's Research Center, i quali ritengono che i giovani con problemi mentali sono più portati a
buttarsi in rapporti sessuali a rischio.
Sono situazioni come la fase maniacale del disturbo bipolare, che fa alternare stati di depressione a euforia, esaltazione o irritabilità, a provocare negli adolescenti una spinta verso una sessualità più attiva. Questo si traduce in maggiori rapporti sessuali, spesso non protetti, che possono portare a
contrarre malattie a trasmissione sessuale.

Secondo i ricercatori, anche i giovani che soffrono di sindrome da iperattività e deficit dell’attenzione a essere più sessualmente attivi dei coetanei che non presentano questo tipo di disturbo. Allo stesso modo lo sono quelli che soffrono di stress post-traumatico o altri disturbi legati a un eccesso di stress. Tutti questi sono a rischio Aids o altre infezioni sessualmente trasmissibili.

I ragazzi coinvolti nella ricerca sono stati 840 e tutti sono stati analizzati per comprendere se e quali malattie mentali fossero presenti. Più della metà dei partecipanti era di sesso femminile e di età compresa tra i 15 e i 18 anni.
Nel complesso, lo studio ha incluso 153 ragazzi con una diagnosi di mania, 48 con disturbi di internalizzazione, 282 con disturbi esternalizzazione, 252 con più di una diagnosi e 105 in trattamento della salute mentale che non soddisfacevano i criteri di una delle diagnosi psichiatriche valutate.

Più della metà di tutti i partecipanti ha riferito di avere avuto una storia che comprendeva rapporti vaginali o anali.
Quello che ha stupito i ricercatori è che, sebbene già sapessero che i comportamenti sessuali compulsivi e a rischio sono diffusi gli adulti, scoprire che lo sono anche tra gli adolescenti è un segnale preoccupante.
(lm&sdp)

ARTICOLO COMPLETO AL SEGUENTE INDIRIZZO: http://www3.lastampa.it/benessere/sezioni/lifestyle/articolo/lstp/343732/

PER APPROFONDIMENTI: http://www.iltuopsicologo.it/disturbi_sessuali.asp

 
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IL SESSO DURA AL MASSIMO 15 MINUTI

Post n°73 pubblicato il 30 Giugno 2010 da iltuopsicologo1964
 

ROMA - Altro che maratone tantriche: il sesso migliore è quello che dura al massimo 13 minuti. A stabilire la durata perfetta del rapporto ci ha pensato un team di 50 specialisti della Society for Sex Therapy and Reserch, composto da psicologi, terapisti di coppia, medici e assistenti sociali. Per anni gli studiosi hanno analizzato centinaia di coppie con problemi sessuali, concludendo che la durata ideale di un amplesso è di 10 minuti. Oltre diventa noioso. E vediamo perché. Secondo lo studio pubblicato su Journal of Sexual Medicine, sta tutto nel cervello: per i primi 10 minuti l'attenzione è altissima ed è possibile concentrarsi al meglio sul rapporto. Superata questa soglia temporale la mente comincia a vagare altrove e diminuiscono sensibilmente sia il livello di eccitazione che la soddisfazione psicologica.

Secondo gli studiosi 2 minuti sono troppo pochi per un rapporto, la situazione migliora fra i 3 e i 7, ma l'equilibrio perfetto si raggiunge solo fra i 7 e i 13. Paradossalmente, fare l'amore oltre questo limite di tempo è controproducente e l'amplesso ha un alto rischio di fallimento causa noia. Dilungarsi in più o meno fantasiose pratiche amatorie predispone a distogliere la mente dall'atto sessuale e a occuparla con tutte le preoccupazioni della vita quotidiana o, peggio ancora, con fantasie erotiche pericolose e potenzialmente fedifraghe.


Tuttavia, se è vero che i tempi troppo lunghi possono trasformarsi in una forzatura e ridurre la carica erotica del rapporto, è altrettanto vero che porre dei limiti al convegno amoroso è una stonatura che avvilisce gli sforzi di fantasia degli amanti più entusiasti.

(29 giugno 2010)

articolo completo al seguente indirizzo:

http://www.repubblica.it/scienze/2010/06/29/news/il_sesso_bello_quando_dura_poco_per_il_rapporto_perfetto_bastano_10_minuti-5258644/

per approfondimenti

http://www.iltuopsicologo.it/disturbi_sessuali.asp

 
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IL DOLORE ALTRUI E' CONTAGIOSO ?

Post n°72 pubblicato il 30 Giugno 2010 da iltuopsicologo1964
 

Il dolore ha una natura duplice: è al tempo stesso un'esperienza sensoriale e affettiva. A livello sensoriale si può sentire l'intensità del dolore e quale parte del corpo sia colpita. A livello affettivo ci si rende conto di quanto sia sgradevole. Dal punto di vista neurologico, poi, quella che si definisce la «matrice del dolore» comprende due reti cerebrali specializzate: la componente sensoriale e la componente affettiva. A volte sono dissociate, come nella sindrome dell'asimbolia del dolore: i pazienti percepiscono il male, ma non manifestano le reazioni emotive appropriate.

Che cosa accade, allora, quando si vede un amico contorcersi dal dolore o quando si sente un bambino piangere dopo una caduta? Non solo ci rendiamo conto della loro sofferenza, in un certo senso la sperimentiamo anche noi. Ma che cosa significa condividere il dolore altrui? E’ solo una metafora? O il dolore indiretto coinvolge le stesse componenti sensoriali e affettive di chi lo prova sulla propria pelle? Oggi, grazie alle neuroscienze, siamo in grado di rispondere.


I risultati confermano ciò che intuiamo: si può letteralmente percepire il dolore, quando si vede qualcuno soffrire. Ma le ricerche suscitano anche nuovi interrogativi. Osservare qualcuno contorcersi può indurre, in modo selettivo, sia l'attività senso-motoria sia quella affettiva. Che cosa significa, allora, questa dissociazione? E’ una manifestazione apparente o una distinzione fondamentale tra tipi di dolore?

Gli studi psicologici hanno evidenziato diversi modi di rapportarsi al dolore altrui, compresi la simpatia, l'empatia e il contagio. Ci sono, però, distinzioni importanti. Se provo simpatia per qualcuno, so che cosa sente quella persona e posso dispiacermi per lei, ma non ne condivido le emozioni. Quando invece stabilisco un rapporto di empatia, so esattamente che cosa sente, perché ne percepisco le emozioni. Sia la simpatia sia l’empatia, quindi, sono dirette verso l'altro e implicano la comprensione dello stato affettivo altrui.
Il contagio, al contrario, è centrato su se stessi. Sbadiglio perché ti vedo sbadigliare, ma non mi preoccupo se sei stanco. Mi limito a «catturare» l'emozione. Non conosco ciò che provi e non mi rendo conto di reagire alla tua emozione. Ma, come succede nell'empatia, condivido il tuo dolore. Volendo ridurre il tutto a semplici equazioni, ecco che cosa si ottiene: simpatia = comprensione affettiva; contagio = condivisione affettiva; empatia = condivisione affettiva + comprensione affettiva.

La distinzione è significativa. Tommy è un bambino e piange, quando gli fanno un'iniezione sulla spalla. L'infermiera simpatizza con lui, ma non condivide il suo dolore, altrimenti non sarebbe una professionista. Accanto a Tommy c'è la sorella di 6 anni, Alma, che si stringe in sé, come se sentisse l'ago. Prova un'esperienza del dolore di tipo contagioso, auto-centrata. Può anche non essere consapevole del fatto che Tommy provi dolore, ma è ancora meno consapevole del fatto che la sua reazione è causata dalle urla di Tommy. La madre, Laura, condivide il dolore di Tommy, ma la sua esperienza è centrata su Tommy stesso e su ciò che prova. Sa che il figlio ha male ed è consapevole che il proprio dolore indiretto nasce da quello del bambino: conosce bene il dolore empatico.

Le neuroscienze rivelano che sia Alma sia Laura condividono in parte il dolore di Tommy. Ma Alma ne percepisce solo la componente sensitivo-motoria: immagina di subire lei stessa l'iniezione. Laura, al contrario, sperimenta solo la componente affettiva del dolore del figlio: sa che cosa significa per lui sentire male.

Ecco la mia conclusione: non c'è un divario vertiginoso tra il sé e l'altro. Attraverso il contagio e l'empatia tu puoi sentire ciò che io stessa provo. Ma non è mai esattamente lo stesso: condividere le emozioni non sempre è sinonimo di comprensione reciproca. Per capire ciò che sento, è necessario andare oltre il dolore indiretto e inseguirne l’origine, vale a dire il mio personale dolore.

articolo completo al seguente indirizzo:

http://www3.lastampa.it/scienza/sezioni/news/articolo/lstp/258122/

per approfondimenti: http://www.iltuopsicologo.it/Test_psicologici.asp

 
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LE VACANZE SONO PIU' BELLE PRIMA DI PARTIRE

Post n°71 pubblicato il 22 Febbraio 2010 da iltuopsicologo1964
 

Il bello di un viaggio o di una vacanza comincia... prima di partire. Anzi, per molti si tratta proprio della parte migliore. La fase dell'attesa, del progetto, di una pianificazione meticolosa e attenta è quella che ci rende più felici e, come ha scoperto un recente studio, quella che segna davvero la differenza tra chi si concede una pausa vacanziera e chi invece non ha questa possibilità. Insomma, chi è in attesa di partire è davvero più felice di chi sa che non si muoverà da casa sua, ma la differenza tra la soddisfazione dei due si limita a questo particolare momento.

 

Lo sostengono i ricercatori dell'Erasmus University di Rotterdam (Paesi Bassi) e della Nhtv Breda University of Applied Sciences (Paesi Bassi) su 'Applied Research in Quality of Life', i vacanzieri, insomma, tendono a essere più felici degli altri solo subito prima della partenza. Poi, una volta tornati, nonostante l'abbronzatura e l'aria rilassata, c'è poca differenza quanto a felicità rispetto a chi è rimasto.

Gli studi di psicologia che hanno indagato sulle sensazioni positive legate alle vacanze sono numerosi, ma il team di Jeroen Nawijn si proponeva di rispondere a una serie di quesiti precisi: è sufficiente concedersi un viaggio per far salire l'indice di felicità nella vita di una persona? In altre parole, chi viaggia è effettivamente più felice di chi non parte mai? E ancora, se questo accade, che succede poi quanto si ritorna a casa e quanto dura nel tempo l'effetto-vacanza? Per rispondere a queste domande, gli studiosi hanno misurato l'impatto delle ferie sulla felicità di 1.530 olandesi, 974 dei quali ha fatto una vacanza nel corso del periodo preso in esame dallo studio. Il risultato mostra che, mentre ci si dedica alla pianificazione del viaggio, i fortunati turisti sono più felici di chi al contrario non ha in programma di partire. E questo, con buona probabilità, dipende dal fatto che pregustano l'effetto del break.

A conclusione del viaggio, però, a sorpresa, non c'è differenza nei livelli di felicità fra chi è appena tornato e chi non si è mosso per nulla. L'unica eccezione è stata rilevata nel caso in cui il periodo di ferie sia stato particolarmente rilassante: in questo caso, spiegano i ricercatori, l'effetto-vacanza c'è e dura per due settimane dopo il rientro. Quando poi sono trascorse otto settimane è come se non ci si fosse mossi di casa. Insomma, il viaggio e l'agognata vacanza hanno un effetto di breve durata sulla felicità, anche perché una volta rientrati si ritorna rapidamente alla routine quotidiana. E spesso c'è anche da recuperare sulle attività interrotte per andare in villeggiatura. 

Insomma, il massimo di felicità si raggiunge prima e durante il viaggio. Per questo, conclude Nawijn, potrebbe essere meglio fare due o più brevi vacanze durante l'anno, piuttosto che concedersene solo una più lunga: i benefici saranno ripetuti. Sarebbe anche opportuno, sostiene lo studioso, che l'organizzazione scolastica fosse più flessibile, in modo da consentire alle famiglie di organizzare brevi vacanze durante l'anno.

articolo completo al seguente indirizzo: http://www.tgcom.mediaset.it/perlei/articoli/articolo474611.shtml

per approfondimenti: http://www.maldamore.it/un_viaggio_rigenerante.htm

 
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VISNORESSIA: L'ANORESSIA AL MASCHILE

Post n°70 pubblicato il 22 Febbraio 2010 da iltuopsicologo1964
 

Si guardano allo specchio e si vedono grassi. Anche quando hanno i muscoli ben scolpiti si sentono comunque inadeguati e non sono come vorrebbero essere. Anche gli uomini si ammalano di anoressia. E gli esperti del settore la chiamano visnoressia. A ricordare la diffusione di questa malattia il congresso della Societá italiana di psicopatologia. "Se per le donne la stima di sé è proporzionata alla magrezza - spiega il professor Gianfranco Placidi, direttore dell'unitá psichiatrica all'Universitá di Firenze – in questi casi è messa in stretta relazione con il muscolo, che diventa il fattore chiave per la propria accettazione".

Sebbene l’anoressia sia una patologia che continui a prediligere le donne si sta diffondendo anche tra i ragazzi: per ogni dieci malate c’è un uomo che si sente troppo grasso. Per la bulimia invece il rapporto è di uno a venti. E gli effetti sono diversi. “Per 'lei' – spiega il professore Giovanni Spera, ordinario di medicina interna dell’Università la Sapienza e membro del consiglio direttivo della società italiana per i disturbi alimentari – l’anoressia tende a comparire tra i 14,5 e 18, mentre negli uomini tutto si sposta di due anni. Per cui la malattia tende a comparire tra i 16 e 27 anni, con un picco tra 16 e 20”. Le più giovani sono ossessionate dall’idea di avere un corpo magro, rifiutano il cibo e sono terrorizzate dal pensiero di ingrassare. Tendono a evitare i pasti o a consumarli con un’eccessiva lentezza. Nel caso della bulimia invece la ragazza dopo aver mangiato in modo eccessivo si sente in colpa e tende a punirsi vomitando, ingerendo pillole diuretiche e lassativi per dimagrire.

“Nel ragazzo invece – continua il professor Spera – tutto è diverso. Sono rarissimi i casi in cui si sviluppa la bulimia. E in questi casi il corpo non vuole essere magro, ma un involucro muscoloso e perfetto dentro il quale nascondere e proteggere le proprie insicurezze”. Molti proprio questo pensano che gli anoressici siano prima di tutto gay, ma non è così. Sono soltanto persone più fragili, con problemi, che devono completare un percorso di crescita. Veri e propri narcisi che inseguono il sogno di un corpo perfetto.


Diagnosticare l’anoressia non è semplice, nei ragazzi spesso infatti si confonde con i cambiamenti fisici che accompagnano l’adolescenza. “Per i bambini invece – continua l’esperto – è più comune che si manifesti attraverso altri sintomi, come la nausea e il sentimento di non fame. Nelle ragazze la spia invece può essere l’interruzione del ciclo mestruale per almeno tre mesi successivi”. Ad ogni modo la cura è ugualmente lunga e complicata per tutti. Dura in media due o tre anni e il malato va messo in contatto con il proprio stato emotivo. “Per aiutarlo a fare tutto ciò però è necessario che ci sia un’equipe di medici, come un endocrinologo, uno psicologo e un nutrizionista, che segua il paziente”. Infine un ruolo fondamentale, conclude Spera, è quello della famiglia. Soltanto attraverso l’interazione con il malato si possono affrontare le difficoltà, capire quali siano i limiti e individuare i cambiamenti da introdurre tra le pareti domestiche..

articolo completo al seguente indirizzo:

http://canali.kataweb.it/salute/2010/02/19/quei-narcisi-troppo-magri-quando-e-lui-a-perdere-peso/?h=1

per approfondimenti: http://www.iltuopsicologo.it/anoressia_e_bulimia_maschile.htm

 

 
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GENERAZIONE SOCIAL NETWORK

Post n°69 pubblicato il 13 Novembre 2009 da iltuopsicologo1964
 

Hanno più amici, sono più tolleranti e aperti alle diversità, continuano a preferire i rapporti faccia a faccia con familiari e persone care ma scrivono pochissime lettere. Ecco il quadro della generazione che utilizza telefoni cellulari e social network.

Pensavate che dietro allo schermo del computer si nascondessero persone asociali e timorate dal mondo? Vi stavate sbagliando. A dirlo è una ricerca americana condotta dalla
Pew Internet & American Life Project, una società non profit e apartitica che fornisce informazioni sulle attitudini e i trend negli Stati Uniti e nel resto del mondo.

Questa volta ad essere analizzato è il rapporto tra isolamento e tecnologia, con particolare interesse a quei mezzi che negli ultimi venti anni hanno sostituito le vecchie modalità di interazione. E il risultato è sorprendente. Tra gli oltre 3mila cittadini americani adulti intervistati telefonicamente, chi frequenta social network, blog o usa il cellulare ha più opportunità di stringere relazioni. Il volume dei rapporti sociali è in media più alto del 12 % tra chi usa il cellulare e del 9 tra chi frequenta siti di condivisione o invia email. Rispetto all'ultimo rapporto sull'argomento, risalente al 1985, il numero di persone alle quali confidare i propri segreti però è sceso da tre a due. Ma l'uso della tecnologia non è legato a questa decrescita.

Anzi, per chi usa le nuove reti sociali i contatti risultano più numerosi e diversificati rispetto agli altri: solo il 45% degli intervistati afferma di parlare di questioni importanti con persone fuori dalla propria famiglia mentre lo fa il 55% degli utenti internet. Quelli che scambiano foto online hanno il 61% di chance in più rispetto alla media d'avere discussioni con interlocutori con interessi politici differenti. I blogger hanno il 95 % di opportunità d'avere relazioni con gente di etnia diversa dalla propria. In altre parole, le tecnologie di comunicazione sono un fattore d'integrazione sociale.


Secondo la ricerca Pew i nuovi network aiutano ad ampliare i propri orizzonti e ad abbattere barriere geografiche e razziali. Si scopre per esempio che chi usa il telefono cellulare ha un bacino di contatti più vasto del 25%, chi è un internauta base del 15% e la percentuale sale ancora di più per chi è un navigatore abituale o un utilizzatore di servizi di chat o di condivisione di immagini. Inoltre le persone con le quali discutere di argomenti importanti sono per chi usa il cellulare numericamente maggiori del 12%, per chi condivide immagini o usa chat del 9%. Gli internauti sono più inclini del 45% a frequentare bar, del 69% a mangiare in un ristorante e del 42% a fare una passeggiata in un parco pubblico. Chi usa le nuove tecnologie è anche chi pratica maggiormente il volontariato su base locale, così come i gruppi giovanili e le organizzazioni benefiche.

Un dato che consolerà i tanti detrattori della nuove forme di socialità è sicuramente quello relativo all'isolamento. Oggi, come nel 1985, la percentuale di cittadini americani che possono considerarsi socialmente isolati continua ad essere pari al 6%. Non aumentano dunque le persone sole, ovvero che non hanno conoscenti con i quali discutere o che considerano persone significative nella loro vita, ma si diversifica, a favore di chi utilizza tecnologie digitali, la qualità delle relazioni. Un dato rimane inalterato: quello relativo al rapporto con le persone care. Gli intervistati continuano a preferire la comunicazione faccia a faccia per quanto riguarda familiari e amici, persone che amano frequentare con una media di 210 giorni all'anno, contattare con telefoni cellulari circa 195 giorni all'anno, con telefoni fissi 125 giorni, tramite e-mail quasi 72 giorni, in chat 55 giorni e via social network 39 giorni. E la lettera? Se vogliamo la vera sconfitta dalle nuove tecnologie è proprio lei che gli intervistati dichiarano di utilizzare con una media di solo 8 giorni all'anno.

Altro dato inatteso è quello relativo ai rapporti con le realtà locali: secondo la ricerca Pew infatti chi si serve di internet lo fa indifferentemente sia per incoraggiare relazioni con persone che vivono a grande distanza che per mantenere i contatti locali. Fanno eccezione però gli iscritti a Facebook: sono loro quelli ad essere meno interessati a conoscere i propri vicini. Quando hanno bisogno di supporto, compagnia o aiuto per vicende familiari preferiscono parlarne con i loro contatti Facebook piuttosto che con le persone vicine, ma quando sono i vicini ad avere bisogno d'aiuto non esitano ad intervenire.
ARTICOLO COMPLETO AL SEGUENTE INDIRIZZO:
http://www.repubblica.it/2009/01/sezioni/tecnologia/social-network/social-network-isolamento/social-network-isolamento.html

PER APPROFONDIMENTI : www.maldamore.it

 
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TROPPI PSICOLOGI IN ITALIA

Post n°68 pubblicato il 13 Novembre 2009 da iltuopsicologo1964
 

ROMA (9 novembre) - Una manciata di numeri per capire la dimensione di un problema che non è certamente peculiare solo della psicologia e che non può comunque spiegare il suicidio di un giovane. Ma può aiutare a cogliere il senso di un problema generazionale, perché i giovani non corrono solo per le strade guidando ubriachi, non spaccano solo vetrine o teste di extracomunitari per noia. Per una volta non parliamo di gioventù per parlare di droga, di sballo e di noia.

Parliamo di quella generazione che studia, che si presenta puntuale agli esami, che si iscrive a scuole di specializzazione, che ancora ci crede in somma. Crede che sia possibile costruirsi un futuro senza passare per l’occhio indiscreto del Grande Fratello, con o senza mutande. E si impegna, studiando. Fino a qualificarsi, fino all’abilitazione di Stato, fino all’iscrizione all’ Ordine dei Professionisti di turno.

Quello degli psicologi del Lazio, per esempio: più di 15.000 iscritti, tra cui più del 95% è un libero professionista. Il Lazio è anche la Regione che ospita il maggior numero – 74 - di Scuole di Specializzazione post-laurea in Psicoterapia, che hanno una durata minima di 4 anni e un costo medio annuo di circa 3000-3500 €. In Italia sono 70.000 gli psicologi, considerando che solo il 50% degli iscritti all’Ordine Nazionale risulta iscritto all’Ente Nazionale di Previdenza se ne deduce che gli altri fanno un altro mestiere o non lavorano.

In Europa si stima un totale di 210.000 psicologi, ovvero un terzo degli psicologi europei è italiano ed è un numero destinato ad aumentare visto che più o meno altri 50.000 studenti si stanno preparando per ottenere il titolo accademico nelle Facoltà di Psicologia sparse per il paese.

Il Presidente dell’Ordine Nazionale degli psicologi, Giuseppe Luigi Palma, ha scritto a tal proposito al Ministro Gelmini alla fine di settembre di quest’anno sottolineando l’urgenza di un intervento: chiudere le lauree triennali in Psicologia perché rappresentano un’esperienza fallita. «Uno spreco di risorse e una fabbrica di disoccupati», visto che «il tasso di disoccupazione dei giovani formati sfiora il 100%».

ARTICOLO COMPLETO AL SEGUENTE INDIRIZZO:
http://www.ilmessaggero.it/articolo.php?id=79642&sez=HOME_INITALIA

PER APPROFONDIMENTI : http://www.iltuopsicologo.it/

 
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SUICIDA UNO PSICOLOGO

Post n°67 pubblicato il 13 Novembre 2009 da iltuopsicologo1964
 

PADOVA (8 novembre) - È disoccupato, si uccide. In poche righe l’addio al mondo: «Non trovo lavoro e sono disperato». Uno psicologo di origini toscane, D.P., 31 anni, si è tolto la vita impiccandosi, nel suo appartamento del popoloso quartiere San Bellino di Padova. Laureato in psicologia, aveva scelto da oltre dieci anni di abbandonare il mare di Portoferraio dell’Isola d’Elba e trasferirsi a Padova. In Toscana vivono ancora i suoi genitori e la sorella maggiore.

Il presentimento che qualcosa di grave potesse essere accaduto, l’ha avuto venerdì pomeriggio proprio la sorella. Da un paio di giorni provava a chiamarlo al telefono. Nessuna risposta. Temendo il peggio, ha telefonato ad un amico del fratello, chiedendogli di correre subito nell’appartamento di Padova. Inutile suonare del campanello. L’amico allora ha sfondato la porta. In bagno, con una corda stretta al collo, il giovane psicologo, ormai senza vita. A nulla sono valsi i tentativi di soccorrerlo da parte del personale medico del 118. E’ intervenuta anche una volante della questura.

A pochi metri dal ragazzo, che secondo i medici era morto da almeno 24 ore, il suo telefonino, che continuava a squillare. Moltissime le telefonate dei genitori, della sorella e degli amici. E poi quelle poche righe, scritte in un foglio, per dire addio a tutti. Non sarà facile capire quale sia stato il perchè della sua tragica fine.

Su internet è apparso un messaggio risalente ad inizio ottobre, nel quale il trentunenne metteva in vendita il suo appartamento padovano. Voleva venderlo per tornare a casa, o dietro a quel gesto c’era già il pensiero di togliersi la vita? Non era solito tornare a casa, dai suoi genitori, in Toscana.

L’ultimo viaggio a Portoferraio è stato l’estate scorsa. Poi la depressione e la solitudine hanno divorato la sua esistenza fino a portarlo via per sempre.

articolo completo al seguente indirizzo:

http://www.ilmessaggero.it/articolo.php?id=79560&sez=HOME_INITALIA

per approfondimenti : http://www.iltuopsicologo.it/suicidio.asp

 
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L'ANSIA DELL'ADOLESCENZA

Post n°66 pubblicato il 12 Agosto 2009 da iltuopsicologo1964
 

MILANO - Che le ragazze siano più sensibili rispetto ai maschi nei confronti dei giudizi dei coetanei, soprattutto nel periodo della pubertà, è risaputo. Ora arriva una ricerca che supporta questa ipotesi, attribuendo per la prima volta dignità scientifica a una semplice opinione comune.

LO STUDIO - I ricercatori del National Institute of Mental Health hanno effettuato un esperimento su 34 ragazzi e ragazze tra i 9 e i 17 anni, monitorandone l'attività cerebrale con una tecnica di risonanza magnetica. Dai risultati è emerso che nelle ragazze le aree del cervello deputate alle emozioni e alle relazioni interpersonali tendono a essere sempre più pronunciate rispetto ai coetanei maschi, soprattutto con l'avanzare dell'adolescenza. Il che, secondo gli scienziati, sarebbe direttamente correlato a una maggiore ansia da giudizio altrui.

VITA DA FEMMINE – Faticoso insomma essere giovani e femmine, alla perenne ricerca dell’approvazione altrui, accompagnate dall’apprensione di non piacere o di non essere all’altezza nei rapporti sociali. I ragazzi se la cavano un po’ meglio a giudicare da come si muovono le aree del loro cervello e se è vero che l’adolescenza è per definizione l’età delle insicurezze, è vero anche che le priorità dei maschi sono altre e i giovani uomini riescono a distrarsi meglio dall’ossessione del parere degli altri. Dormendo sonni più tranquilli e vivendo con meno tensione l’affettività.

DIVERSE REAZIONI CEREBRALI – Nell’esperimento i ricercatori, guidati da Amanda E. Guyer, hanno osservato in particolare l’attività di alcune zone del cervello deputate alle emozioni (come l’amigdala, l’ipotalamo e l’ippocampo) durante una chat, monitorando le reazioni dei giovani nel corso dell’attività di comunicazione. Successivamente sono state mostrate ai ragazzi quaranta foto di teenager, chiedendo di attribuire a ciascuna un punteggio da 0 a 100 e specificando che anche i loro volti sarebbero stati sottoposti a una votazione. Il dato emerso è stata una crescita sensibile dell’attività delle zone osservate per le rappresentanti del gentil sesso, con un ulteriore incremento del lavoro cerebrale nel caso delle ragazze più grandi.

UOMINI E DONNE - Le differenze di genere esistono dunque e secondo gli studiosi spiegherebbero anche una maggior propensione alla depressione tra le ragazze, che vivono con inquietudine e angoscia i rapporti interpersonali. Il riconoscimento e l’appartenenza sociale sono al centro dei pensieri femminili e a una maggior aspettativa in questa direzione corrisponde inevitabilmente anche una maggior delusione quando la tanto desiderata approvazione non si verifica. Gli uomini vengono da Marte, le donne da Venere: è il titolo di un bestseller che parla proprio delle differenze di genere nel vivere le emozioni e non solo. Talvolta i vecchi luoghi comuni, pur con il rischio di banalizzare, colgono nel segno.

Emanuela Di Pasqua
16 luglio 2009(ultima modifica: 23 luglio 2009)

http://www.corriere.it/salute/09_luglio_16/ansia_ragazze_adolescenti_b45b145c-720a-11de-87a4-00144f02aabc.shtml

approfondimenti: http://www.iltuopsicologo.it/il_dramma_del_gambero_il_passaggio_dell_adolescenza.htm

 
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SEMPRE PIU' DIFFUSA LA DEPRESSIONE POST-PARTUM

Post n°65 pubblicato il 12 Agosto 2009 da iltuopsicologo1964
 

Si stima che nelle prime due settimane dopo il parto otto neomamme su dieci vivano alcuni disturbi fisici e psichici legati anche al brusco calo dei livelli di estrogeni e progesterone.

I sintomi: tendenza al pianto, tristezza immotivata, irritabilità. ■ La via d’uscita. I disturbi durano qualche giorno e poi spariscono da soli, senza bisogno di supporto psicologico o di farmaci.

DEPRESSIONE POST-PARTUM - Se i problemi si protraggono nel tempo o ricompaiono dopo alcune settimane (fi no a un anno dal parto), si parla di depressione post partum. Colpisce circa il 20% di coloro che hanno avuto manifestazioni di maternity blues.
■ I segnali: pensieri negativi sulla capacità di essere madre, tendenza all’isolamento, mancanza di energia, alterazione dell’appetito, disturbi del sonno, ansia, tachicardia, debolezza muscolare.
■ Le cause: sono molteplici. Si ritiene che vi sia una base biologica determinata da squilibri ormonali e scompensi di alcuni neurotrasmettitori. Altri fattori possono favorirne l’insorgenza: una relazione di coppia confl ittuale, una storia personale di depressione, episodi di ansia durante la gravidanza, eventi traumatici, una personalità caratterizzata da bassa autostima o tendente al perfezionismo.
■ La terapia. Se i sintomi non retrocedono nel giro di due settimane, è importante che i familiari coinvolgano il medico di base o il ginecologo. Se si sospetta una depressione post partum è opportuno l’intervento di uno psichiatra, che potrà suggerire una terapia con antidepressivi (anche durante l’allattamento), unita a un ciclo di psicoterapia cognitivocomportamentale e a tecniche di rilassamento muscolare e di recupero del sonno.

 

Roberta.Anniverno
22 luglio 2009(ultima modifica: 28 luglio 2009)

articolo completo al seguente indirizzo: http://www.corriere.it/salute/09_luglio_28/dopo_parto_crisi_donne_9a24ba82-7b4e-11de-9006-00144f02aabc.shtml

approfondimenti: http://www.iltuopsicologo.it/depressione_post_partum.htm

 
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NIENTE BOTTE AI BAMBINI

Post n°64 pubblicato il 12 Agosto 2009 da iltuopsicologo1964
 

ROMA (11 agosto) - Niente ceffoni e sculacciate, nemmeno quando i figli sembrano proprio tirartela via dalle mani. A mettere il suggello contro le punizioni corporali verso i bambini sono arrivati un gruppo di psicologi dopo aver analizzato 5 anni di letteratura scientifica sull'argomento. Ansia, depressione, problemi comportamentali come l'aggressività, deficit dello sviluppo cognitivo: questi i problemi a cui il piccolo può andare incontro quando per la sua educazione si ricorre all'uso delle mani.

Psicologi ed esperti di sviluppo infantile affiliati alla
American Psychological Association hanno presentato i loro risultati nel convegno annuale dell'associazione in corso in Canada, a Toronto. La decisione è stata presa dopo un'attenta disamina di cinque anni di letteratura scientifica sull'argomento, ha spiegato la coordinatrice del gruppo, Sandra Graham-Bermann dell'università del Michigan-Ann Arbor. Uno studio a 360 gradi sugli effetti di sculacciata e ceffone mancava e il risultato è che le punizioni corporali sono legate ad ansia, depressione, problemi comportamentali come l'aggressività, deficit dello sviluppo cognitivo. Non è stata però una decisione unanime perchè una minoranza di psicologi ha votato contro la messa al bando dello sculaccione osservando che spesso mettere in castigo non basta e può mettere in pericolo l'autorevolezza dei genitori.

 
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CONTRO L'INSONNIA ALIMENTAZIONE, BUON MATRIMONIO E DIETA

Post n°63 pubblicato il 12 Agosto 2009 da iltuopsicologo1964
 

Alla ricerca del sonno perduto? Alla ricerca del sonno perduto? Chi soffre d`insonnia leggera e vorrebbe riuscire a dormire, potrebbe provare a seguire i consigli di alcune delle più recenti ricerche internazionali sull`argomento. Da un matrimonio solido e rassicurante, passando per un`alimentazione equilibrata, fino ad arrivare a un diario del sonno online e personalizzato, l`obiettivo è portare l`organismo a ritrovare il corretto ritmo sonno-veglia.

Le vie sono diverse, a partire dall`alimentazione: alcuni cibi svolgono infatti una funzione rilassante e si rivelano ideali per favorire il sonno. Dalla dieta anti-insonnia stilata da Coldiretti risulta che verdura, frutta, carboidrati, uova e latticini favorirebbero il riposo, mentre gli alimenti ricchi di sodio e di sostanze eccitanti come spezie, caffè, cacao e superalcolici andrebbero evitati, soprattutto in tarda serata. Gli esperti consigliano di consumare pasta, riso, orzo e pane perché contengono il triptofano, un aminoacido che stimola la sintesi della serotonina, il neurotrasmettitore cerebrale che favorisce il rilassamento. Sono ottimi rimedi anti-insonnia soprattutto la lattuga, la zucca, le rape, i cavoli, il radicchio rosso e l`aglio, noti per le loro proprietà sedative.

Dalla tavola alla psicologia. Un rimedio contro l`insonnia sembra essere un matrimonio solido: secondo i ricercatori dell`University of Pittsburgh School of Medicine (Usa) le donne sposate da tempo riposano meglio delle single. “Un matrimonio felice serve a prevenire e combattere i disturbi del sonno - spiega Wendy Troxel, che ha coordinato la ricerca - mentre i problemi di coppia sono alleati dell`insonnia. Questi test, che convalidano i risultati dei nostri studi precedenti, suggeriscono che la qualità della vita relazionale è un importante fattore di controllo della qualità del sonno”.

Dalla psicologia alla rete. Un altro metodo contro l`insonnia potrebbe presto essere disponibile online: si tratta dello Sleep Healthy Using the Internet, un programma personalizzato di "educazione al sonno" messo a punto dai ricercatori dell`University of Virginia Health System di Charlottesville (Usa). Il software sarebbe in grado di fornire informazioni e consigli specifici per ogni utente sulla base di un "diario del sonno" personalizzato volto a correggere le abitudini scorrette attraverso racconti, quiz e giochi.

Data: 17-07-2009
Autore: n.c.

articolo completo al seguente indirizzo: http://salute24.ilsole24ore.com/salute/mentecorpo/2420

approfondimenti: http://www.iltuopsicologo.it/narcolessia.htm

 
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L'INFARTO PUO' PROVOCARE ANCHE ANSIA E DEPRESSIONE

Post n°62 pubblicato il 12 Agosto 2009 da iltuopsicologo1964
 

Dopo aver subito un infarto è facile che si sviluppino problemi caratteristici dello stress post-traumatico, suggerisce un nuovo studio dell'Università del Sussex (Uk).
Il team di ricercatori guidati dalla dr.ssa Dr. Susan Ayers, ricordano come sia molto comune che dopo un infarto si verifichino situazioni come queste, dove il 16-18% dei pazienti mostra spesso agitazione, incubi, flashback e cambiamenti d'umore.
Sono in molti poi a sviluppare altri sintomi come ansia, depressione fino ad arrivare a isolarsi dagli altri.

I sintomi collegati allo stress post-traumatico, poi, possono scatenare
ulteriori e più gravi attacchi di cuore, risvegliare precedenti traumi e causare problemi di salute mentale.
Tutto ciò, sottolineano i ricercatori, può influire di molto sulla qualità della vita degli infartuati e pregiudicare il recupero dopo aver subito l'attacco di cuore. Allo stesso modo,
può compromettere la salute nel futuro.
Per la loro ricerca, gli esperti hanno esaminato 74 persone che avevano avuto un attacco di cuore negli ultimi tre mesi. Dai dati ricavati è emerso che una buona percentuale aveva sviluppato i sintomi da DPTS. È quindi molto importante che queste persone possano godere anche di un sufficiente supporto psicologico durante questo periodo e che siano monitorati costantemente per scongiurare seri problemi dopo l'infarto e nella fase di recupero.
Lo studio è stato pubblicato sul "British Journal of Health Psychology".
(lm&sdp)

articolo completo al seguente indirizzo: http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/Benessere/grubrica.asp?ID_blog=26&ID_articolo=1062&ID_sezione=33&sezione=Salute

approfondimento: http://www.iltuopsicologo.it/test_depressione.php

 
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LO STRESS PUO' CAUSARE ANORESSIA ED OBESITA'

Post n°61 pubblicato il 12 Agosto 2009 da iltuopsicologo1964
 

Del fatto che lo stress potesse in qualche modo incidere sulle abitudini alimentari delle persone se n'è già parlato molte volte. Oggi, un ricercatore dell'Università di Hertfordshire in Inghilterra suggerisce che lo stress potrebbe avere un ruolo determinante nello sviluppo di anoressia e obesità.

Il dr. Nick Troop è coordinatore di una squadra di ricerca creata per studiare come le abitudini, le emozioni e lo stress influiscano su una possibile difficoltà nel controllare il proprio peso. Lo studio avrà una durata di quattro anni e si avvarrà della collaborazione della Facoltà di Psicologia dell'Università di Hertfordshire e della sezione dedicata ai disordini alimentari dell'Istituto di Psichiatria del Kings College di Londra.

I ricercatori fanno notare come questo studio possa offrire un'opportunità per integrare la ricerca in psicologia e psichiatria analizzando i sistemi che le persone adottano per gestire le proprie emozioni e come queste possano interagire con le abitudini di vita causando problemi nella gestione del proprio peso.
Riferendosi a questa nuova ricerca, il dr. Troop sottolinea che già un precedente studio aveva messo l'accento sul fatto che questo tipo di problematiche influisce su entrambi gli aspetti che, di per sé, possono avere manifestazioni diametralmente opposte come lo sono l'anoressia e l'obesità. La possibilità di analizzare i due tipi di disturbi e problematiche in contemporanea offrirà maggiori chance per comprendere come le emozioni, le abitudini e lo stress possono influenzare due condizioni apparentemente incompatibili.
(lm&sdp)

articolo completo al seguente indirizzo: http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/Benessere/grubrica.asp?ID_blog=26&ID_articolo=1005&ID_sezione=33&sezione=Salute

per approfondimenti http://www.iltuopsicologo.it/Anoressia.htm

 
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LIBRO: LE VOCI DEL MAL D'AMORE

 

E' IN VENDITA ONLINE ED IN TUTTE LE LIBRERIE

'
LE VOCI DEL MAL D'AMORE'

SCHEDA COMPLETA AL SEGUENTE INDIRIZZO:

 

http://www.maldamore.it/le_voci_del_maldamore.pdf


Le testimonianze di donne e uomini che soffrono per amore sono al centro di
questo libro, che le affronta proprio a partire dal racconto che ognuno fa
di una personale esperienza dolorosa.
Selezionate tra le migliaia pervenute al sito
www.maldamore.it., si tratta
di storie di vita vera che risentono della particolare condizione di
anonimato protettivo offerta da internet, in cui anche persone che sarebbero
poco disposte a un confronto possono lasciarsi andare alla condivisione del
proprio disagio affettivo.
Questa eterogeneità di esperienze apre una possibilità di analisi di fattori
che normalmente non sarebbero presi in considerazione ed esprime una
ricchezza di situazioni e sentimenti che stimola alla riflessione su di sé,
per imparare a riconoscere i propri errori, superare il dolore e concepire
nuovi modi di amare e di vivere.

 

 
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RITORNA LA PAURA DI VOLARE ?

Post n°59 pubblicato il 03 Luglio 2009 da iltuopsicologo1964
 

Prima la tragedia del volo Air France precipitato nelle acque dell'Atlantico. Poi, a meno di un mese di distanza, il dramma al largo delle isole Comore. Sono sicuri i nostri aerei? I freddi numeri della statistica dicono di sì. «Parlando di aviazione civile, la probabilità di essere coinvolti in un incidente aereo, anche non mortale, è di circa una su un milione» spiega Luca Chittaro, docente di interazione uomo-macchina all'università di Udine. «In un anno ci sono circa 35 incidenti per 35 milioni di voli complessivi», continua Chittaro.


A guardare in numeri sembra che ci sia poco di cui preoccuparsi. Eppure la paura di volare è molto diffusa. Perchè?
Ci sono diversi motivi. Il primo è la familiarità. L'aereo non è assolutamente familiare, a differenza, per esempio, dell'automobile, che prendiamo migliaia di volte all'anno. Ci sono una serie di eventi normali e legati al mezzo che spaventano i passeggeri meno esperti. Il campanello che chiama le hostess, per esempio, spesso genera disagio e paura. Vale lo stesso per le turbolenze. Eppure quando siamo su un autobus, in una strada piena di buche, siamo soggetti a sollecitazioni a volte maggiori. Chi vola di frequente, queste cose le sa. Acquisisce confidenza con il mezzo e ridimensiona la paura. Poi c'è la questione del controllo.

Cioè?

Una volta saliti su un aereo si deve rinunciare alla possibilità di avere il controllo del mezzo su cui ci si trova. L'automobile dà invece una sensazione di maggiore controllo. Parlo di sensazione perchè spesso è illusoria: se un tir invade la corsia contromano c'è poco da fare per chi guida. Sull'aereo ci si deve affidare ai piloti professionisti, ai controlli, alle migliaia di ingegneri che ci hanno lavorato. Il problema è che la percezione del rischio entra nella sfera dell'emozione piu' che della razionalità.

I numeri fanno poco presa su chi ha paura di volare...
Esattamente. Le emozioni hanno un ruolo fortissimo. Soprattutto quando i media parlano approfonditamente di un incidente aereo, come nel caso del volo Air France precipitato nell'Atlantico all'inizio di giugno. Più le descrizioni sono drammatiche più sale la paura. Gioca un ruolo anche l'immaginazione. Le persone pensano a situazioni terribili, magari impossibili nella realtà.

Oltre alla familiarità, di cui abbiamo parlato, va detto che il volo non è nella natura dell'uomo. Questo influenza la paura?
Se non fossimo mai saliti su un'automobile e un amico ci proponesse un giro a 140 chilometri orari saremmo terrorizzati. L'abitudine gioca un ruolo notevole. Certo, il volo introduce l'elemento dell'altezza, che fa riferimento alle radici primordiali della paura dell'uomo. Il che complica le cose.

Cosa si può fare per contrastare la paura di volare?
Esistono tecniche di rilassamento che sfruttano la respirazione e la visualizzazione di immagini tranquillizzanti. Nei casi più seri, però, da soli è difficile farcela.
Le compagnie aeree più note organizzano dei corsi. Nella prima parte, i partecipanti familiarizzano con il mezzo, parlando con piloti e visitando gli hangar, apprendono le motivazioni tecniche per cui l'aereo è sicuro, discutono le proprie paure con uno psicologo, per poi concludere l'esperienza con un volo vero e proprio con tutte le spiegazioni e l'assistenza da parte del pilota e del personale di bordo.

1 luglio 2009

ARTICOLO COMPLETO AL SEGUENTE INDIRIZZO: http://www.ilsole24ore.com/art/SoleOnLine4/Mondo/2009/07/paura-volare-luca-chittaro.shtml?uuid=22c10992-6649-11de-ba89-a7e6967b40ec&DocRulesView=Libero

L'AEREO RIMANE IL MEZZO PIU' SICURO AL MONDO

Un incidente con almeno una vittima ogni due milioni di voli. Quattro vittime per milione di ore di volo, mentre il 24% dei passeggeri sopravvive in media agli incidenti aerei.

Le drammatiche notizie dell'ultimo incidente di Yemenia Airlines, che segue praticamente di un mese lo schianto nella tempesta del volo 447 di Air France, fanno pensare a un'impennata anomala degli incidenti aerei e al rischio sempre più concreto per chi deve volare. Non è vero. Invece, la media rimane quella degli ultimi cinque anni, cioè la più bassa di sempre, e comunque non superiore agli ultimi decenni. L'aeroplano resta infatti il mezzo di gran lunga più sicuro con il quale spostarsi. O addirittura stare fermi: è più probabile avere un incidente domestico grave o mortale in casa che non perdere la vita in volo su un aereo di linea.

Eppure, l'aeroplano è da sempre il mezzo di trasporto che evoca le peggiori ansie e paure. Alitalia ha da due decenni avviato ad esempio corsi per vincere la paura del volo, mentre a bordo di un qualsiasi velivolo i volti tesi di molti passeggeri magari alla loro prima esperienza di volo raccontano durante ogni decollo, atterraggio o turbolenza quanto sia ancora diffusa l'ansia nei confronti dello strumento che permette all'uomo di librarsi in aria. Gli psicoterapeuti reputano la paura del volo come uno degli elementi ansiogeni più forti nella vita di un soggetto.
Eppure, non solo il volo aereo di linea è l'attività forse più regolamentata e protetta fra quelle in cui può capitare di essere coinvolti, ma è anche la più sicura. Nonostante i rischi di eventi naturali imprevedibili (praticamente inesistenti), di cedimenti meccanici, di errori umani o anche di terrorismo, il volo infatti rimane sostanzialmente sicuro.

Nella statistica della pericolosità dei viaggi, in cui viene utilizzato il parametro delle "morti per miliardo di chilometri percorsi", secondo Detr Research a detenere la corona del mezzo di trasporto più pericoloso è la motocicletta con 108,9 decessi, seguita dai pedoni (cioè chi si sposta a piedi) con 54,2 morti, poi la bicicletta (44,6), l'auto (3,1), il trasporto su acqua (2,6), su camion (1,2), su treno (0,6), su autobus urbano (0,4) e infine con l'aereo (0,05).

Nel 2008 il numero complessivo di morti per incidenti aerei è stato di 876 vittime in 147 differenti incidenti. Il peggior anno per l'aviazione civile è stato il 1972 con 3.214 vittime e il più sicuro è stato il 2007, con 766 vittime. La metà degli incidenti aerei è stata causata da un errore determinante dei piloti, sia esso basato su un errore meccanico che su un giudizio erroneo per esempio in una situazione critica.

Soprattutto, come sosteneva anche Alexander Graham Bell, ci sono due punti relativamente critici di un volo: il suo inizio e il suo termine. La maggior parte degli incidenti avviene infatti durante la fase di decollo e di salita, (30%) oppure di discesa e atterraggio (61%). Il restante 9% è durante il volo in quota e i cambi di rotta (Fonte: Statistical Summary of Commercial Jet Airplane Accidents, Boeing). Ma è da notare che queste ultime fasi ricoprono circa il 60% del volo di un aereo, quindi la relativa sicurezza è ulteriormente rafforzata dal fatto che è protratta più a lungo rispetto al rapporto tra livello di rischio e tempo complessivo di volo.
Infine, la statistica analizza quante sono le possibilità per un passeggero di un volo di linea, a prescindere dalla sua durata, di incappare in un incidente aereo con almeno un morto (che non sia il passeggero stesso): 1 ogni 8,47 milioni di voli, cioè quanti ne bastano per novemila vite da pilota. Invece, il rischio di essere la vittima dell'incidente è di 1 su 13,57 milioni di voli.
Volare è ancora, nonostante tutto, il mezzo di trasporto più sicuro che l'uomo possa utilizzare.

1 luglio 2009

ARTICOLO COMPLETO AL SEGUENTE INDIRIZZO: http://www.ilsole24ore.com/art/SoleOnLine4/Mondo/2009/07/incidente-aereo-probabilita.shtml?uuid=e31e4faa-6654-11de-ba89-a7e6967b40ec&DocRulesView=Libero

PER APPROFONDIMENTI http://www.iltuopsicologo.it/Aerofobia.htm

 
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PRIMA CONDANNA PENALE AD UN COUNSELOR PER ESERCIZIO ABUSIVO DELLA PROFESSIONE DI PSICOLOGO

Post n°58 pubblicato il 15 Giugno 2009 da iltuopsicologo1964

La IX sezione penale del Tribunale di Milano ha condannato un counselor per esercizio abusivo della professione di psicologo. Ha altresì condannato per concorso lo psicologo con il quale il counselor aveva svolto una psicoterapia nei confronti di un minore. Lo psicologo aveva trattato i genitori e il counselor il figlio. Entrambi avevano condotto incontri congiunti con i genitori. Nella sentenza, tra l'altro, si legge: (http://www.opl.it/Allegati//OPL%20Informa/motivazione%20da%20allegare.pdf)


omissis...”L’istruttoria dibattimentale, però, ha dimostrato con evidenza che il lavoro di equipe svolto nei confronti di “figlio” e dei suoi genitori non è stato un intervento di counseling.”…omissis…. La ricostruzione della vicenda operata dal “padre” è, però, ben diversa. Il teste, difatti, ha dichiarato che sin dal primo incontro aveva chiesto al “counselor” una presa in carico terapeutica del “figlio” prospettandogli non solo i suoi numerosi e gravi disturbi comportamentali ma anche la necessità che aveva, in quanto genitore, di capire come affrontare il problema della transessualità del figlio volendo fornirgli il suo appoggio nel caso che avesse deciso di cambiare sesso ma temendo, nel contempo, di condurlo ad una scelta per la quale non era, probabilmente, ancora pronto. A fronte di tale richiesta gli era stato prospettato un lavoro di equipe nel quale il “counselor” avrebbe preso in carico “figlio” e il “collega” psicologo i genitori. Si erano, poi, concordati incontri congiunti tra il “counselor” , lo psicologo ed i genitori, incontri che, per il numero, la frequenza ed il contenuto come descritto dal denunciante, non possono ritenersi di mera restituzione ai genitori del lavoro di counseling asseritamente svolto con il minore.
Sul punto lo psicologo ha dichiarato che normalmente il lavoro di equipe prevede un colloquio dello psicologo con i genitori ed il minore, tre o quattro incontri del minore con il counselor ed un primo incontro di restituzione ai genitori cui, in casi particolari, seguono altri incontri. Nel corso di tali ultimi colloqui poi -  come si è visto - si discuteva proprio dell’andamento della terapia seguita da “figlio” e dei problemi in quella sede emersi.
Il numero, la frequenza delle sedute di “figlio” con counselor sono già indicativi del fatto che l’intervento dell’imputato non era un counseling. Ancora va ricordato, sempre a sostegno dell’ipotesi accusatoria, quanto si è detto in precedenza in ordine alla natura e contenuto dei colloqui avuti dagli imputati con i “genitori”, colloqui che da quanto emerso appaiono con evidenza di restituzione del contenuto delle sedute di “figlio” con il “counselor” ma anche di elaborazione di tale contenuto e progettazione del lavoro di presa in carico terapeutica. Si tratta, in sostanza, di colloqui tipici del lavoro di equipe psicoterapeutico.
La legge 18/2/1989 nr. 56 recante l’Ordinamento della professione di psicologo riserva agli iscritti al relativo albo “l’uso di strumenti conoscitivi e di intervento per la prevenzione, la diagnosi, le attività di abilitazione – riabilitazione e di sostegno in ambito psicologico rivolte alla persona, al gruppo, agli organismi sociali e alle comunità”.
Non vi è dubbio che, nella specie, il counselor abbia certamente svolto valutazioni, che non è azzardato definire vere e proprie diagnosi cliniche, utilizzando strumenti che, da quanto emerge dalla relazione in ordine al contenuto delle sedute, sono almeno assimilabili ai colloqui clinici.
Di ciò lo psicologo era a conoscenza, come emerge da quanto dichiarato dal denunciante in ordine agli incontri che aveva avuto con i due terapeuti, e dalle stesse ammissioni dell’imputato sul contenuto dei colloqui avuti con il counselor. L’imputato, però, aveva consentito che il counselor esercitasse di fatto attività riservata agli iscritti all’Ordine nello studio di cui era titolare partecipando, anzi, direttamente alla commissione del reato con la presa in carica congiunta, tramite il lavoro di equipe, di “figlio” che, lungi dal poter essere definito un cliente del counselor, era invece a tutti gli effetti un paziente.”


Crediamo che tutti i colleghi apprezzino e comprendano l’importanza di questa sentenza che, oltre a tutelare la nostra professione, si pone nella prospettiva di garantire ai cittadini, che necessitano di interventi psicologici, prestazioni di qualità e  “certificate” dalla appartenenza alla comunità professionale prevista dalla Legge n.56 del 1989 istitutiva dell’Ordine degli Psicologi.

L’Ufficio Stampa dell’OPL ha preparato un Comunicato e prevediamo una Conferenza stampa per far conoscere ai cittadini questa importante sentenza.

 

Il Presidente

Il Vicepresidente

Il Segretario

Il Tesoriere

E. Molinari

G. Gambardella

C. Martello

F. Merlini

TRATTO DAL SITO DELL'ORDINE DEI PSICOLOGI DELLA LOMBARDIA

 
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TUTTO DIVENTA PATOLOGIA IN MEDICINA

Post n°57 pubblicato il 07 Aprile 2009 da iltuopsicologo1964
 

MILANO - «La vita è una malattia sessualmente trasmessa ad esito fatale». L’adagio scherzoso che circola fra alcuni medici potrebbe essere tacciato di cinismo. E in effetti, prendendolo alla lettera lo sarebbe. Ma va detto che anche «l’accanimento diagnostico» se non è mortale può produrre discreti effetti collaterali. A riaccendere la miccia sulle polemiche dell’eccesso di «malattie», è un articolo apparso in apertura del sito della BBC online nel quale Tim Kendall, Joint Director del National Collaboration Centre for Mental Health e uomo chiave per le decisioni sanitarie del governo britannico, esprime in un'intervista la sua preoccupazione circa la «esondante» medicalizzazione della società.

SIAMO TUTTI MALATI - Nel Regno Unito, notoriamente, si è molto attenti alle spese, comprese quelle che lo Stato deve sostenere per la sanità pubblica, ma - fa notare Kendall - che al 10 per cento dei bambini britannici sia stato diagnosticata una malattia mentale, che, sempre per i sudditi di Elisabetta II, siano state fatte 34 milioni di prescrizioni di antidepressivi nel 2007 e che il 10 per cento dei ragazzini americani prenda una medicina contro la sindrome da iperattività , alimenta il sospetto che qualche esagerazione ci sia. «Se si consulta il manuale di riferimento degli psichiatri americani» fa notare Kendall nell’intervista alla Bbc, «si ha l’impressione che qualunque tipo di comportamento umano sia virtualmente patologico». L'esperto inglese vuole quindi denunciare una tendenza a «cercare di creare nuove categorie di malattia, non di rado laddove c’è, o ci sarà, un farmaco che potrebbe essere utilizzato al bisogno». Esempi? L’articolo della Bbc ne cita alcuni, come la «sindrome delle gambe senza riposo», piuttosto che la «fobia sociale», o alcuni disturbi della sfera sessuale femminile.

DISTINGUERE CASO PER CASO - Su queste, ma anche su diverse altre condizioni, il dibattito sull’opportunità di cure è acceso da tempo, e sono disponibili montagne di studi pronti a dimostrare l’esistenza, la gravità e la diffusione di ciascuna di esse. Nondimeno, però, esistono spesso dubbi sul fatto che tali studi siano sempre uno specchio fedele della realtà e non invece una forzatura interpretativa per medicalizzare condizioni che invece, se non proprio del tutto fisiologiche, nemmeno sono sempre acclaratamente patologiche. Ovviamente bisogna sempre distinguere caso per caso, perché quando un farmaco ci vuole è sacrosanto prescriverlo(per il medico) e necessario prenderlo (per il paziente), ma quando non ci vuole è inutile. E questo sta alla sensibilità e alla capacità dei medici valutarl. Se qualcuno davvero non riesce a dormire la notte perché le sue gambe sono «senza riposo», cioè non riescono stare ferme, può trarre sicuro giovamento da un farmaco ad hoc, ma se è solo un po’ nervoso quel farmaco potrebbe, non servirgli , e produrre magari qualche effetto collaterale inutile, se non altro al suo portafoglio o a quello del sistema sanitario che lo rimborsa. E il problema non esiste solo per le medicine, ma anche per alcuni esami.

IL MECCANISMO - Il meccanismo che sta alla base del «disease mongering» di solito è ricorrente: si parte da una patologia esistente e curabile farmacologicamente e poi, con operazioni ad hoc la si promuove e descrive in termini abbastanza generici da coinvolgere quanti più soggetti possibili. In altre occasioni addirittura il punto di partenza non è una malattia quanto piuttosto un problema, o semplicemente un fenomeno, che viene ridefinito opportunamente in chiave patologica. Non è che le patologie siano il risultato della creatività dell’industria: le malattie esistono, come pure sono normate e regolamentate le indicazioni per usare i farmaci, ma c’è un potente sforzo collaterale per spingere verso la medicina situazioni in cui un suo intervento è superfluo. Un sistema simile, così per come è strutturato, inevitabilmente genera e produce tendenze crescenti di medicalizzazione non sempre giustificate. Queste, se portate all’eccesso, non fanno bene né allo Stato né al cittadino: il contenimento della spesa sanitaria e la riduzione degli sprechi sono un problema importantissimo oggi per i responsabili della cosa pubblica di tutti i Paesi occidentali.

FRA DUE POLI - Pensare di essere malati perchè si perdono i capelli, oppure perchè si ha un po' di mal di testa prima del ciclo mestruale, oppure perchè....si invecchia, può essere fuorviante. La paura di rischi irrilevanti o inesistenti per la salute è profondamente malsana. Il richiamo di Kendall è in realtà motivato soprattutto dalla sua preoccupazione che anche in Europa possa essere ammessa la pubblicità diretta di farmaci soggetti a prescrizione al pubblico, come già avviene negli Usa. Pensiamo di poter però sintetizzare che il suo invito è che si sappia mantenere un ragionevole equilibrio tra i rischi sopportabili e quelli che non lo sono. Senza cadere nell'eccesso opposto: per un vero malato di depressione una terapia adeguata può fare la differenza fra la vita a la morte (non solo in senso fisco), così come per un malato di tumore o di una malattia del cuore. E allo stesso modo la prevenzione, quando attuata secondo criteri opportuni non solo può risparmiare una malattia o la vita stessa, ma fa anche risparmiare soldi alle casse dello Stato.

articolo completo al seguente indirizzo:

http://www.corriere.it/salute/09_marzo_30/vita_malattia_mortale_6a8f1684-1d0a-11de-aa2e-00144f02aabc.shtml

per approfondimenti:

http://www.iltuopsicologo.it/disturbo_di_somatizzazione.htm

 
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TRAUMI NELL'INFANZIA E DOLORE DA ADULTI

Post n°56 pubblicato il 07 Aprile 2009 da iltuopsicologo1964
 

Da piccoli si sono vissuti traumi come incidenti gravi o la morte della mamma? È assai probabile che una volta cresciuti ci si trovi a dover fare i conti con il dolore cronico diffuso. Lo rivela una ricerca inglese in uscita sulla rivista Pain, secondo cui le esperienze dell’infanzia sono un importante fattore predittivo dei problemi in età adulta.

STUDIO LUNGO – Si tratta di una ricerca che utilizza dati del 1958 British Cohort Study, che ha seguito per quasi 50 anni poco meno di diecimila persone: ovvero, tutti i sudditi della Regina nati in una specifica settimana del 1958. Quando i partecipanti avevano 7 anni sono stati registrati, attraverso interviste ai genitori, dati su tutte le esperienze negative con cui i bimbi avevano dovuto fare i conti: ricoveri dopo incidenti o per un intervento chirurgico, morte o alcolismo della madre o del padre, divorzio dei genitori, difficoltà economiche familiari o periodi trascorsi in strutture istituzionali (dai riformatori a cliniche di vario tipo). A 45 anni gli stessi partecipanti hanno risposto a questionari per capire se soffrissero di dolore cronico generalizzato (non legato cioè a uno specifico problema o intervento). Si è così verificato che aver subito un incidente che ha comportato un ricovero, ad esempio, aumenta di una volta e mezzo il rischio di ritrovarsi con dolore cronico da adulti; simile la probabilità in caso di «ex-bimbi» che hanno sperimentato difficoltà economiche familiari o hanno vissuto più o meno a lungo in strutture istituzionali. L’evento che più predice problemi in età adulta è la morte della madre, che fa raddoppiare il pericolo di soffrire di dolore cronico in seguito.

CONFERME – I risultati non possono essere spiegati dallo stress dei soggetti da adulti, né dalla loro classe sociale di appartenenza: la radice del problema, insomma, è proprio un’infanzia travagliata. Tutti da capire i meccanismi biologici alla base di questa pericolosa correlazione, che però non è del tutto una novità: già molti studi hanno dimostrato che esiste un’associazione fra il vissuto infantile e il dolore cronico diffuso. Qualche tempo fa, ad esempio, uno studio rivelò che fra i pazienti con fibromialgia la prevalenza di violenze e abusi verbali, fisici o sessuali subiti nell’infanzia è quasi del 50 per cento superiore rispetto a quella registrata in persone sane; un’altra ricerca ha dimostrato che essere stati testimoni di violenze da piccoli aumenta il rischio di soffrire di dolore cronico una volta cresciuti. «In generale come e ciò che si vive durante l’infanzia ha più ripercussioni sulla salute da adulti di quanto si sarebbe disposti a credere – scrivono gli autori dello studio inglese –. Tutto ciò che può aiutare i bimbi a vivere in pieno benessere mentale e fisico, perciò, è molto importante per evitare problemi in età adulta». Non solo: secondo gli autori c’è un’altra implicazione pratica da non sottovalutare. Quando un adulto arriva dal medico perché soffre di dolori cronici, vale la pena indagare un po’ nel suo passato: è probabile che lì «covino» traumi non ancora digeriti. Se è così, intervenire con un supporto psicologico per cercare di superarli può servire a risolvere prima e meglio anche il disturbo presente.

articolo completo al seguente indirizzo:

http://www.corriere.it/salute/reumatologia/09_aprile_03/dolore_cronico_infanzia_1dcd8476-2033-11de-9058-00144f02aabc.shtml

per approfondimenti

http://www.iltuopsicologo.it/Psicologia_scolastica_e_dell_et%C3%A0_evolutiva.asp

 
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HIKIKOMORI, BARRICATI IN CAMERETTA

Post n°55 pubblicato il 07 Aprile 2009 da iltuopsicologo1964
 

Si chiama hikikomori, ed è un fenomeno giapponese. In Italia non esiste ma in compenso aumentano i casi di fobia sociale, una patologia che gli somiglia molto. Ne parliamo con lo psicologo Roberto Cavaliere

 

Ci sono ragazzi che a un certo punto della loro vita decidono che non vogliono più avere contatti col mondo. Che tutti e tutto ciò che sta fuori dalla loro cameretta non li interessa, e si barricano tra le quattro mura. È un fenomeno che si chiama hikikomori e viene dal Giappone. Riguarda più di un milione di giovani, adolescenti e post-adolescenti. Hikikomori significa letteralmente stare in disparte. Vuol dire abbandonare la scuola, gli amici, tagliare i ponti con tutto e tutti. «Non è una patologia riconosciuta dalle associazioni nazionali degli psichiatri, come un po' tutte le nuove patologie -  ci spiega il dottor Roberto Cavaliere, psicologo -  La patologia più simile potrebbe essere la fobia sociale, una sorta di timidezza eccessiva. È un fenomeno culturalmente e socialmente giapponese. Nel mondo Occidentale c’è però qualcosa che gli assomiglia molto. Parliamo di quei ragazzi che si chiudono in camera e trascorrono la stragrande maggioranza del tempo lì, incollati a un computer, una chat, un videogioco. Nel Sol Levante il fenomeno è portato all’estremo, fino a diventare una sorte di prigione. È una delle tante forme di disagio adolescenziale». «Qualcuno l’ha definita anche una sorta di anoressia mentale nei maschi - prosegue - mi spiego: nell'anoressia manca il contatto con il proprio corpo. Chi soffre di hikikomori è come se attraverso relazioni solo virtuali si rifiutino di interagire fisicamente con gli altri».

Com'è che a un certo punto questi soggetti si barricano in camera?
Dei germi nel ragazzo già ci sono. Parliamo di soggetti già di per sé introversi e molto timidi. In Giappone poi solitamente questi ragazzi hanno dei genitori che privilegiano molto l'aspetto competitivo, i risultati. Poi primi insuccessi scolastici, insieme a episodi più o meno velati di
bullismo, accentuano quelli che sono i tratti caratteriali esistenti e si arriva alla vera e propria forma del ritiro sociale. In sostanza possiamo dire ci sono sì episodi scatenanti, ma che trovano un terreno fertile anche in caratteristiche personali.

Sono ragazzi in qualche modo incapaci di affrontare la realtà?
Parlerei più che altro di incapacità nell'affrontare le frustrazioni, non la realtà in generale. Davanti a una realtà di tipo competitivo, questi ragazzi non avendo le caratteristiche personali per affrontare un tale tipo di competizione preferiscono ritirarsi. Non vanno però stigmatizzati come persone incapaci di affrontare la realtà: sono persone che non hanno gli strumenti adatti per confrontarsi con un certo tipo di realtà.

articolo completo al seguente indirizzo:

http://donna.libero.it/lifestyle/hikikimori-fobia-sociale-adolescenza-solitudine-isolamento-ne1675.phtml

per approfondimenti

http://www.iltuopsicologo.it/hikikomori.htm

 
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