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Un blog creato da nottelunas il 12/09/2006

amareilcinema

Parole di cinema scritte ( e trascritte ) di notte e tant'altro per chi ha cuore e occhi per vedere.Per chi ama il cinema.Per chi ha ancora un sogno

 
 

Chi cammina si intorbida,

l'acqua corrente non vede le stelle,

chi cammina dimentica,

e chi si ferma sogna.

             F. Garcia Lorca

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AREA PERSONALE

 


Il sogno

Se il sonno fosse (c'è chi dice) una
tregua, un puro riposo della mente,
perché, se ti si desta bruscamente,
senti che t'han rubato una fortuna?
Perché è triste levarsi presto? L'ora
ci deruba d'un dono inconcepibile,
intimo al punto da esser traducibile
solo in sopore, che la veglia dora
di sogni, forse pallidi riflessi
interrotti dei tesori dell'ombra,
d'un mondo intemporale, senza nome,
che il giorno deforma nei suoi specchi.
Chi sarai questa notte nell'oscuro
sonno, dall'altra parte del tuo muro?


JORGE LUIS BORGES


 

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AMORE DOPO AMORE

Tempo verrà
in cui, con esultanza,

saluterai te stesso arrivato
alla tua porta, nel tuo proprio specchio,
e ognuno sorriderà al benvenuto dell'altro,

e dirà: Siedi qui, Mangia.
Amerai di nuovo lo straniero che era il tuo Io:
Offri vino. Offri pane. Rendi il cuore
a se stesso, allo straniero che ti ha amato

per tutta la vita, che hai ignorato
per un altro e che ti sa a memoria.
Dallo scaffale tira giù le lettere d'amore,

le fotografie, le note disperate,
sbuccia via dallo specchio la tua immagine.
Siediti: E' festa: la tua vita è in tavola.


Di  Derek Walcott                                                                                                                          Citato nel Film "La Febbre"

 

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Devo vederlo presto.
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Occorrerebbe registrare i dialoghi.... potrebbero...
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Hai ragione! E' una perla, una bellissima...
Inviato da: nottelunas
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corpo celeste : magnifico esordio

Post n°144 pubblicato il 20 Novembre 2012 da nottelunas
 

 

Corpo Celeste

di Curzio Maltese

Se una regista nemmeno trentenne è capace di creare con pochi mezzi e tante idee un film come Corpo Celeste, si può essere ottimisti sul futuro del cinema italiano. A Cannes il film di Alice Rohrwacher è parso a molti il film più interessante della Quinzaine, laboratorio del futuro dove hanno esordito fra i molti Fassbinder e Herzog, Carmelo Bene e George Lucas, Oshima e Jarmusch e i fratelli Dardenne. È presto per dire se Rohrwacher si aggiungerà alla lista, ma certo il suo è un esordio folgorante. Corpo celeste, molto liberamente tratto dal romanzo della Ortese, è la storia del ritorno a casa di una giovane famiglia calabrese tutta al femminile, madre e due figlie, dopo dieci anni in Svizzera. Ma soprattutto è il romanzo di crescita della piccola Marta, 13 anni, del suo sguardo straniero e smarrito sui riti di una comunità adulta che ha perso ogni ragione di stare insieme, ogni identità e ne cerca il surrogato in un vuoto conformismo ammantato di parvenza religiosa. La circostanza narrativa che la scoperta della ragazzina avvenga attraverso un corso di catechismo improntato ai più sconci luoghi comuni televisivi non deve ingannare. Corpo celeste è già diventato un piccolo culto per le associazioni anti clericali, per quanto la regista si affanni a ripetere a ragione che non si tratta di un film contro la Chiesa e tanto meno contro la religione. Semmai è un film contro la vera religione dell'Italia contemporanea, il conformismo televisivo e l'opportunismo politico, che sono la negazione stessa di ogni spiritualità. Non per caso uno dei pochi personaggi positivi della storia è un prete di villaggio, il bravissimo Renato Carpentieri, che rivela a Marta la follia di Gesù, il genio più anticonformista della storia dell'umanità. La questione è che ormai si scambiano, si possono scambiare i fatti per satira e il racconto nudo per intenzione caricaturale. In questo la Rohrwacher è favorita dall'esperienza di documentarista. Le scene e i personaggi più surreali del film sono in realtà i più vicini alla realtà. Il prete di parrocchia che fa il galoppino politico per ottenere una promozione, la catechista che s'ispira ai quiz televisivi (Chi vuol esser cresimato?) per "vendere" ai ragazzi il cattolicesimo, sono figure che s'incontrano a ogni angolo di periferia italiana. Come s'incontrano i ponti che collegano il nulla al nulla, le tangenziali inutili, gli scheletri di case mai terminate, i fiumi trasformati in discariche tossiche. Questa è l'Italia che appare allo sguardo di un'adolescente cresciuta in Svizzera e questa sarebbe agli occhi di noi italiani adulti, se non volessimo dimenticarla. Un paese che ha perso il suo dio, la propria identità e va a cercarsi una ragione di stare insieme davanti a uno schermo televisivo, intonando canzoncine e slogan dementi ma alla moda («Mi sintonizzo con Dio, è la frequenza giusta»). Tanti anni fa, nel dopoguerra, un grande antropologo, Ernesto De Martino, descrisse la «crisi della presenza» delle società rurali del Mezzogiorno come profezia di un mondo che avrebbe smarrito ogni senso d'identità e appartenenza. Corpo celeste è in parte il racconto di questa profezia avverata, qui e ora. Un bellissimo film civile, quindi, e forse il primo effetto della rivoluzione cinematografica scatenata dal più importante film del decennio passato, Gomorra di Matteo Garrone. Con il quale non condivide i temi, visto che la criminalità organizzata è volutamente tenuta fuori dal ritratto, per quanto sia più dominante a Reggio Calabria rispetto a qualsiasi altra città d'Italia, Napoli e Palermo comprese. Ma ne ricorda i climi, la corruzione dei costumi quotidiani, i paesaggi e ne condivide l'attore protagonista, il sempre straordinario Salvatore Cantalupo. Un'altra prova del talento della regista è la capacità, come per Garrone, di far recitare allo stesso livello professionisti eccelsi come Cantalupo, Carpentieri e Anita Caprioli, con dilettanti dalla resa sbalorditiva. Per esempio la piccola protagonista, Yile Vianello, una delle migliori attrici adolescenti fra le molte vista a Cannes. Per non parlare della catechista Santa, Pasqualina Scuncia, un talento naturale di attrice che misteriosamente fin qui ha sempre fatto nella vita la tabaccaia. Un'Italia che non vedremo altrove, un piccolo film da non perdere, una giovanissima regista già avviata verso una splendida avventura nel cinema italiano e mondiale.

 

Paolo Mereghetti - Il corriere della sera

(...) Corpo celeste è, a memoria non solo mia, il più bell’esordio cinematografico di una regista italiana. (...) la Rohrwacher filma con un pudore pari alla maturità dello stile, con una macchina da presa molto mobile ma mai gratuitamente ondivaga e che scegliendo con istinto sicuro quello che è veramente importante da inquadrare obbliga lo spettatore a prendere una posizione di fronte alle cose. Come fanno gli occhi di Marta e come dovrebbe fare sempre il cinema.

 

Fabio Ferzetti, 'Il Messaggero', 18 maggio 2011

"Diretto da una documentarista che guarda allo stile dei Dardenne e prima di girare ha esplorato a lungo quel mondo. Per raccontarlo con gli occhi innocenti quanto acuti della piccola Marta (Yle Vianello), 'emigrata di ritorno' con la sua famiglia in Calabria. (...) Crisi spirituale, mercificazione, corruzione, resa generalizzata al consumismo, anche in materia di fede. In quella parrocchia di provincia c'è tutto il peggio del nostro paese, dai bambini che fanno catechismo (anzi 'Katekismo') a colpi di quiz, alla canzoncina 'Mi sintonizzo con Dio', al parroco maneggione (Salvatore Cantalupo) che vuole sistemare in chiesa un 'crocifisso figurativo' all'antica al posto dell'attuale mostruosità fluorescente. E magari ingraziarsi il vescovo per farsi trasferire in una sede più prestigiosa. Ma 'Corpo celeste' (il titolo viene da Anna Maria Ortese) non è un j'accuse o un banale referto sociologico; la prima dote della neoregista è lo sguardo partecipe che posa sui suoi personaggi, dalla spaesata Marta a sua madre (Anita Caprioli), l'unica che sa amarla e capirla, all'ingenua Santa (l'efficacissima non attrice Pasqualina Scuncia), la catechista che prepara i ragazzi con lo zelo e la goffa innocenza di chi è troppo parte di un mondo per coglierne l'assurdo. Ma del film restano negli occhi soprattutto gli spazi: gli osceni cavalcavia della città moderna; la fiumara-terra di nessuno, unico luogo in cui sembra pulsare un po' di vita vera, paradossalmente; i tornanti che portano al paesino fantasma dove il parroco va a prelevare il famoso crocifisso e Marta capirà di colpo molte cose, del mondo e di sé (fulminante apparizione di Renato Carpentieri, prete semicieco, che parla a Marta del vero Gesù). Con atmosfere e sentimenti che a tratti evocano i film dell'argentina Lucrecia Martel ('La cienaga', 'La niña santa'), ma scoprono un pezzo di Italia ancora mai visto al cinema."

«Grande soggetto, grande esordio, anzi, grande film. Ci voleva una neoregista di nemmeno trent’anni per farci vedere ciò che è sotto gli occhi di tutti, ma che non abbiamo più tempo o voglia di guardare. Ci voleva una protagonista sospesa tra infanzia e adolescenza, il volto angelico e il passo sghembo di chi non si sente mai a posto, una piccola “aliena” di ritorno dalla Svizzera con madre e sorella, per dare del Sud, della Chiesa, del nostro Paese, un’immagine così netta e tagliente

Fabio Ferzetti, Il Messaggero, 27 maggio 2011.

CORPO CELESTE                                                                                                       

recensione di Rossella Valdrè

 

"....Tra tutte le regioni italiane, la Calabria è forse la più povera; povera di ogni cosa: anche, in fondo, di bellezze naturali. Per duemila anni è stata sottogovernata ancora peggio che la Sicilia o il Napoletano, o le Puglie che, in molti periodi storici sono state delle vere piccole nazioni, dei centri di civiltà, in cui i dominatori risiedavano, almeno, ed avevano rapporti diretti con la popolazione: gli Arabi in Sicilia, i Normanni in Puglia, ecc.. La Calabria è stata sempre periferica, e quindi, oltre che bestialmente sfruttata, anche abbandonata. Da questa storia millenaria non può che risultare una popolazione molto complessa, o per dir meglio, con linguaggio tecnico, 'complessata'. Un millenario complesso di inferiorità, una millenaria angoscia pesa nelle anime dei calabresi, ossessionate dalla necessità, dall'abbandono, dalla miseria. Nel popolo questi 'complessi' psicologici di carattere storico possono dare, nei casi estremi, i risultati più opposti: la più grande bontà - una bontà quasi angelica - e una furia disperata e sanguinaria (...). Una popolazione esteriormente umile, depressa, internamente drammatica". (corsivi miei)
(P.P.Pasolimi, 1960)

 

Ho riportato, quasi per intero, l'accorata e dolente descrizione che poco più di cinquat'anni fa Pasolini fece della Calabria, terra priva di bellezze, bestialmente sfruttata e abbandonata, perchè la bella opera prima di Alice Rohrwacher, Corpo Celeste, ce la riporta in primo piano, in tutta la sua tragica fissità, o in una drammaticità che si è persino aggravata nel tempo.
Come abbiamo potuto creare tanta devastazione? Se è vero che i luoghi, o i non-luoghi, parlano, che il territorio abitato dall'uomo è portatore di un suo proprio linguaggio e che l'uomo che lo abita non può appunto prescindere anche da questo linguaggio, è un grido di dolore sommesso e antico quello che viene fuori da questo paesaggio. E' l'oscena periferia di Reggio Calabria, infatti, la protagonista di questo film; la macchina da presa tenuta a mano, i piani stretti, rincorrono gli scempi ripetuti su un territorio martoriato negli anni, nei decenni, dall'abbandono e dalla corruzione, dai clientelismi e dal degrado, dallo sfruttamento bestiale e dal progressivo sventramento, dall'ignoranza e dalla povertà. La bretella autostradale dove non si può camminare, l'orrenda fiumara che raccoglie cadaveri di animali, resti di vita buttati lì, come i corpi dei clandestini che appestano il Mediterraneo, per cui "è meglio il pesce dell'Atlantico", paesi diroccati e abbandonati come dopo una guerra, e ovunque quelle faccie sì umili, internamente drammatiche che descrive Pasolini, ma involgarite e segnate da cinquant'anni di finto benessere, di resa consumistica, di desolante ed irrecuperabile, credo, passaggio antropologico da un mondo arcaico perso per sempre, al non-luogo consumistico dell'oggi, e nel Sud in particolare.

Ad attraversare questo territorio è lo sguardo silenzioso e attento di Marta, ragazzina di tredici anni che fa rientro in Calabria con la mamma e la sorella, dopo dieci anni trascorsi in Svizzera da emigrante; iscritta al corso di catechismo in preparazione della cresima, i miseri e freddi locali della parrocchia diventano il luogo del film, il punto d'incontro tra i pochi personaggi e il baricentro aggregativo su cui si poggia questa esile trama che, come abbiamo detto, ha nel paesaggio, a mio parere, il suo primo attore.

Non siamo qui in presenza della Chiesa di
Habemus Papam (é stato detto trattarsi di due film laici, quello della Rohrwacher persino anticlericale), e nel don Mario di Corpo Celeste non vi può essere niente del fragile personaggio morettiano, non ci desta alcuna teneezza, alcuna simpatia; questa pare una Chiesa minima che esiste soltanto per la sua fisicità, per il suo esserci concretamente come luogo fisico, appunto, fatto di muri, e stanze e sedie dove la gente si deve incontrare, fare le prove in vista del misero e obsoleto rito della cresima, che in questa mistura tra arcaismo e berlusconismo ha perso ogni traccia di sacro, e diventa quasi una prova di karaoke (Mi sintonizzo con Dio è la canzone-canto), un passerella di povere e appensatite veline... Marta ne fa parte e non ne fa parte, soggettività sempre un pò estranea, di confine, percepita come straniera, diversa, ma ormai irriducibilmente tornata al suo paese, un Paese che lei osserva senza giudizio, senza pena e senza gioia, occupata piuttosto dal travaglio fisico della pubertà, forse unico sfondo vitale alla miseria del territorio sventrato.
Don Mario, parrocco cinico e indaffarato al cellulare, che raccoglie consensi elettorali per cercare di essere trasferito ad altra sede; preti ottusi dallo sguardo vuoto (tranne il rapido guizzo di verità del vecchio prete semicieco); la catechista Santa (bravissima attrice non professionista Pasqualina Scuncia) che mette tutti i suoi sforzi a organizzare l'evento cresimale, terrorizzata all'idea che don Mario venga trasferito, perdendo così lei il suo ruolo (una 'complessata' del ritratto pasoliniano, dove il senso di inferiortà atavico può repentinamente volgere in durezza). Questi i pochi personaggi di una vicenda, come detto, dove l'elemento umano, in una prospettiva ribaltata, fa quasi da sfondo al paesaggio. E' il territorio che parla. Quelle strade, quelle case che hanno sventrato la collina, quella spazzatura abbandonata, quel fiumiciattolo che raccoglie resti: tutto questo parla. E' la poetica di Gomorra, è la scuola dei Dardennes elaborata e filtrata dallo sguardo personale e già maturo di questa giovane documentarista, è il neo-neorealismo, è stato scritto, della postmodernità.

Il non semplice riferimento al libro di Anna Maria Ortese, da cui è tratto il titolo, rimanda alla raccolta di scritti un pò immaginifici che la scrittrice pubblicò nel '97, e non pare casuale.
Vi si legge, ad esempio:
"....un paese, come non deve mancare di corsi d'acqua, di sorgenti, di nuvole, deve avere cura o consentire la crescita di anime, coscienze, grazia, linguaggi puri, ombre azzurre, altissime: o perirà. Si asciugherà al suolo, se mancano acque e foreste, se mancano anime e coscienze". (corsivo mio)

E' un testo che parla di luoghi. Solo se contengono certe caratteristiche, certi linguaggi puri, i luoghi si umanizzano e vi possono crescere e maturare anime e coscienze. Anime e coscienze. In un linguaggio narrativamente del tutto diverso da quello della regista, la Ortese invoca la stessa esigenza: che il territorio consenta all'uomo di vivere, di crescere, di maturare un'anima e una coscienza.

Quali anime e coscienze possono sopravvivere nella devastazione che il peggior consumismo, il lato più torvo del progresso hanno provocato una volta innestati su un terrirorio arcaico, che mancava di un tessuto sociale connettivo, di una solida borghesia, persino di un dominatore vicino al popolo come scrive Pasolini? Sembra di vedere quelle tetre parabole sui tetti di case distrutte a Kabul, o nei vari luoghi di guerra che i telegiornali ci riportano: niente è più tragico dell'innesto del consumismo su popolazioni impreparate, incolte, in qualche misura arcaiche, su società corrotte e corruttibili, su povertà economiche e antiche miserie culturali. Un nuovo medioevo. Il mostro antropologico che ne viene fuori, metafora anche dell'Italia del berlusconismo, è tutto in questo film, intelligente debutto che esce dalla prestigiosa Quinzaine di Cannes, e che tuttavia non si esautisce in un film neorealistico e tantomeno documentaristico. Corpo celeste, pur sostenuto da una trama esile, presenta volti e umanità densi, significanti: sono frutto di quell'ambiente ma, a modo loro, almeno qualcuno, ne cerca la fuga. Don Mario con i suoi traffici, Santa con la dedizione al catechismo (i momenti più riusciti del film), Marta, soprattutto, che non si rassegna, e mentre il suo corpo cambia, lei cerca la verità: cosa vogliono dire quelle parole del Vangelo che non capisce? perchè nessuno gliele traduce? Santa è troppo ignorante, don Mario troppo distratto e incattivito per darle ascolto, la mamma troppo stanca dal lavoro, ma il fortuito incontro col vecchio prete malato della chiesa abbandonata, le apre un velo sulla verità: quelle parole dicono, anzi gridano Padre, perchè mi hai abbandonato? e le rivelano la verità di un Gesù arrabbiato, lontano dall'iconografia stereotipata che lo vede angelicato e sereno....
La Verità. Questo accesso consentirà a Marta uno sviluppo diverso, un'anima e una coscienza?
Nel suo linguaggio quasi fiabesco, scrive ancora la Ortese nel libro, che la giustizia è
"...pietà del più giovane e del più antico, dell'assolutamente innocente e dell'incomparabilmente puro".

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