Creato da ania_goledzinowska il 10/01/2011

CON OCCHI DI BAMBINA

Ania Goledzinowska

 

 

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CONTINUA...... IL CASTELLO INCANTATO

Post n°46 pubblicato il 12 Maggio 2011 da ania_goledzinowska
Foto di ania_goledzinowska

 

Solo che la piccola ruota della mia famiglia stava per smettere di girare.

ogni tanto papà riappariva. Riemergeva dal nulla che l’aveva misteriosamente inghiottito, e ci veniva a trovare. ma sempre più sembrava lo spettro di se stesso.

«sei stato dalla nonna?» gli domandavo, timidamente, terrorizzata che potesse rispondermi no, facendo crollare la mia illusione.

lui sorrideva, mi faceva una carezza sulla testa, e non diceva nulla.

Una volta chiese a me e a natalka: «Perché non siete venute a trovarmi in ospedale?».

io mi sentii gelare il sangue. Una fuga di pensieri volava nella mia mente: “ma di quale volta sta parlando? ospe- dale? Quale ospedale...?”.

era già successo, tempo prima, che lui venisse ricoverato. la mamma ci aveva portate a fargli visita per vedere come stava. era un ospedale strano. Per entrare bisogna- va superare dei controlli. in giro non si vedeva nessuno. non era come negli altri ospedali, dove i malati – almeno quelli che stanno meglio – vanno su e giù per i corridoi e chiacchierano con i parenti.

ci dissero che era un ospedale dove si curavano le malattie infettive. in realtà mio padre aveva semplice- mente la psoriasi, una tipica malattia psicosomatica, e il suo vero problema era un altro: l’avevano rinchiuso in manicomio, il mio papà. a quel tempo, in Polonia, non esistevano strutture di assistenza per chi fosse finito nel tunnel dell’alcolismo, così per disintossicarti ti mettevano in una specie di galera.

io e mia sorella eravamo terrorizzate. ci avevano ac- compagnate insieme alla mamma in un giardino recintato da un muro altissimo. le finestre delle camere dei degenti avevano le grate, e la facciata dell’ospedale pareva proprio quella di un carcere.

Quando papà è sceso a salutarci, non sapevo se ridere o piangere. e così ho fatto finta di niente. natalka era ancora troppo piccola, non si rendeva conto di niente, lei. Papà era in pantofole, con un pigiama a righe. era dimagrito. Faceva un gran caldo quel giorno. aveva il corpo ricoperto di crosti- cine rosse. era uno spettacolo terribile, ma era il mio papà, e ridotto in quello stato io lo amavo anche più di prima.

la visita fu breve.

«Tornerò presto» promise. Poi accennò il solito sorriso. Quel sorriso dolce che aveva lui, da uomo buono. il sor- riso di un uomo vinto, di un uomo che si era battuto con tutte le sue forze, ma che si sentiva sconfitto. e lo era. sì, era la maschera della solitudine. la vita gli era sfuggita di mano, e a volte – proprio quando sorrideva – lui sembrava contemplarla tutta in un sospiro, e increspava un po’ le sopracciglia, incredulo e inerme davanti alla realtà. A volte, quando incrociavo i suoi sguardi, mi sembrava che mi chiedesse perdono.

“Perdono di che?” avrei voluto chiedergli. “io ti voglio bene, papà, anche se tu pensi di avermi delusa! e te ne vorrò sempre!” avrei voluto dirgli questo, avrei voluto correre ad abbracciarlo. ma non ci riuscivo. e quel suo sorriso mi sfiorava come una carezza mentre lo salutavo, col cuore così stretto dal dolore che mi mancava il fiato.

ci lasciammo con la promessa di rivederci presto, ma le cose non andarono così. cominciammo a vederlo sempre meno.

evidentemente venne ricoverato altre volte. Peggiorava. e mia madre – nonostante i ricordini che ci lasciava sulla faccia e sulle gambe con le sue “carezze” – ebbe il buon senso di risparmiarci un incontro così doloroso.

Forse mi illudo anche nel pensare questo. Forse, sempli- cemente, alla fine si era stufata. non ne poteva più di lui. non posso essere sicura di nulla, perché non potevo

capire davvero. ero solo una bambina. Tocca ai grandi proteggere i bambini dalle insidie della

vita. sono i genitori che dovrebbero stare con le antenne tese, pronti ad ascoltare i propri figli, pronti a cogliere ogni segnale importante nei mille momenti delicati della loro crescita, e ogni segnale preoccupante che proviene dal mondo intorno a loro.

a volte mio padre aveva in tasca i soldi per il biglietto del cinema, ma invece di portarmi a vedere un film, mi portava al laghetto dietro casa e con quei soldi si comprava una birra. Una birra che lo aiutasse a dimenticare tutto. Perché anche lui aveva le sue ombre, dalle quali cercava disperatamente di fuggire.

io me ne stavo seduta lì, accanto a lui, su una panchina uguale a tante altre, come ce ne sono nei parchi di tutte le città del mondo. me ne stavo in silenzio, con le mani in grembo, dondolando le gambe, e guardavo gli altri bam- bini pattinare felici insieme ai loro genitori, sul laghetto ghiacciato che sembrava un immenso specchio bianco. guardavo i ponpon colorati dei loro berretti ricamare arcobaleni nell’aria tersa di quelle giornate d’inverno, guar-davo le loro guanciotte arrossate dal freddo, e li guardavo cercare sicuri l’appoggio del braccio del loro padre, o della loro madre, quando perdevano l’equilibrio. allora anch’io mi appoggiavo a mio padre, cercando di scaldarmi le mani sotto il suo braccio. e cercando di scaldarmi il cuore strin- gedomi a lui. non m’importava che non eravamo andati al cinema. se quella birra gli serviva, per me andava bene. ma non era così, e io non potevo capirlo.

il bere è un gran problema nel mio paese. il mio papà era un alcolizzato, questa era la verità. al punto che era arrivato a bere l’alcol denaturato, allungandolo con un po’ d’acqua, o a tentare di fabbricare da solo in casa il liquore, servendosi di un detersivo per i piatti abbastanza diffuso allora in Polonia, che probabilmente conteneva una sostanza sgrassante a base di alcool puro.

era un alcolizzato, ma non era cattivo. era una persona che avrebbe avuto bisogno d’aiuto, e che per questo non era capace di aiutare noi. e poi, era il solo padre che avevo. ma purtroppo ho capito la verità solo molto dopo, e non ho fatto in tempo a dirgli chiaro e tondo: «Papà, lo so che tu ti senti solo, io lo so che ti senti sconfitto, ma sono tua figlia, e per me tu sarai sempre un vincitore». non feci in tempo, e arrivò... l’ultima volta.

non sarebbe bello se potessimo sapere in anticipo che quella che stiamo vivendo è un’ultima volta?

l’ultima volta che andiamo in un certo posto... l’ultima volta che prendiamo un certo tram, e scendiamo a quella solita fermata... l’ultima volta che una persona che amiamo ci ha stretto tra le braccia...

era inverno, il laghetto delle birre era ghiacciato.

«anusia...» mormorò mio padre. il mio nomignolo, per me, esiste solo in quella voce. mi chiamava, ed era l’ultima volta che lo faceva.

«anusia, tra due settimane quando torno a trovarti porta la tua sorellina.»

gli promisi che l’avrei fatto. ma non fui di parola. non so perché... andò così.

Tre giorni dopo quella che avrebbe dovuto essere la data del nostro incontro, qualcuno venne a bussare alla nostra porta. a volte bastano pochi istanti, un attimo, per far passare un treno che si porta via per sempre un pezzo della tua vita.

«chi è?» chiesi scocciata.

«sono io» fu la risposta, e mi sembrò la voce di mio padre.

mi affrettai ad aprire e... rimasi sbigottita: sulla soglia c’era mia nonna.

«e... papà?» domandai con un filo di voce, mentre sentivo un tuffo al cuore.

Quante cose pensai in un solo istante! Ricordi, voci, sguardi, attraversarono come lampi la mia mente confusa di bambina. Poi vidi la sua bicicletta legata al palo. e con- tinuavo a sentire l’eco della sua voce che mi rispondeva, ripetendomi “sono io...”. È sua la bicicletta che vedo, legata al palo, e nell’aria c’è persino il suo odore... l’odore del mio papà!

«lui non verrà, ania» disse mia nonna, sottovoce. Poi si fermò un attimo, socchiuse gli occhi per trovare il co- raggio di dare la sentenza che stava per dare alla piccola ragazzina bionda che aveva davanti, a quella bimba che solo poco tempo prima era stata la principessa di un ca- stello incantato fatto di sogni. Finché, spegnendo l’ultima speranza che resisteva nei miei occhi, ripeté: «Tuo padre non verrà, ania. non verrà mai più».

io la guardai inebetita. abbozzai una specie di sorriso, come per farle capire che sapevo che stava scherzando, perché non le credevo. Però sentivo già premermi nel petto i singhiozzi del pianto. inseguii l’illusione che tutto fosse un incubo, fino all’ultimo istante.

«ma no...» balbettai, con la voce che mi si strozzava in gola «no... guarda, nonna, su, non prendermi in giro! non vedi? là c’è la sua bicicletta, legata a quel maledetto palo!»

e mi voltai anche io in quella direzione e... non c’era nulla. non c’era nessuna bicicletta. solo un enorme, de- solante vuoto. e una neve sottile, gelida, che cadeva silen- ziosamente sulla strada.

non so spiegarmi come sia successo, ancora adesso non so spiegarmelo.

certe volte guardo i volti della gente per strada, e mi chiedo se anche a loro sia mai accaduta una cosa così.

Forse l’amore è più forte di ogni cosa e può sconfig- gere tutto. oltrepassa i confini dell’infinito, e attraversa le dimensioni della vita e della morte. Perché in realtà mio padre, quando credetti di sentire la sua voce, il suo odore, era già morto. Forse l’amore è così forte che può sconfiggere ogni cosa. o forse è la purezza e l’innocenza dei bambini che permette loro di vedere le cose con gli occhi dell’anima. cose che, da adulti, non sappiamo più vedere. Quello dei bimbi invece è uno sguardo che sfugge ai limiti dello spazio e del tempo.

in seguito mi spiegarono cosa era accaduto realmente.

mio padre era scivolato sugli scalini ghiacciati all’in- gresso di un negozio. era gennaio. Faceva un freddo cane. stava andando a comprare un’altra bottiglia di vodka. era il suo scaldacuore. era l’illusoria panacea di tutti i suoi mali. di una vita che non era andata come avrebbe dovuto. Qualcosa non aveva funzionato, tutto gli sfuggiva di mano, scivolava via, sempre più indietro, sempre più solo. e il suo unico passatempo era contemplare nel fondo delle bottiglie di vodka vuote il catalogo delle occasioni perdute... delle parole sbagliate, di quelle taciute... Purtroppo, nel vuoto infinito che sentiva dentro, c’ero anch’io. io, sua figlia,che gli avevo promesso d’incontrarlo e di portare con me la mia sorellina. invece non ci ero andata a quell’ultimo appuntamento. e il senso di colpa, certe notti, ancora mi tiene dolorosamente compagnia.

immagino la scena, la immagino a occhi chiusi, col fiato sospeso. lui che sale col passo un po’ incerto i gra- dini coperti di ghiaccio del negozio di liquori. barcolla. È confuso. cade. È mio padre che cade. ed era una scala che conduceva al paradiso, quella che lui credeva portasse semplicemente a una bottiglia di vodka.

Un piede in fallo, il ghiaccio traditore, e fu questione di un attimo. Rotolò giù, e batté la testa morendo sul colpo. Per ore rimase lì per terra, sdraiato, al gelo, con la gente che passava indifferente.

dov’è finito lo spirito di solidarnosc?

la grande Ruota non si ferma ad aspettare la piccola ruota.

«ecco un altro ubriacone...» avrà mormorato qualcuno passando. «guarda lì, è talmente pieno di vodka che si è addormentato sulla strada ghiacciata!»

Quando mi resi davvero conto che mio padre non c’era più, corsi da mia madre. mamma faceva la badante, e io piombai in casa di questa donna gridando e piangendo sconvolta: «Papà è morto!».

lei rimase impassibile. Un’impassibilità disumana. la odiai per questo, anche se quella freddezza era il suo modo di difendersi dal dolore, era per lei ciò che per mio padre era la vodka. Per un attimo, mi parve già morta anche lei.

Tornai da mia nonna. non riuscivo a piangere, non riuscivo a liberarmi, a lasciarmi attraversare da un dolore più grande di me. la morte è un pensiero ingovernabile per chi non ha ancora scoperto la grazia infinita di dio. così, del mistero dell’esistenza, non conoscevo altro che la disperazione. non avrei mai più potuto parlare con il mio papà. né toccarlo, abbracciarlo. l’addio per sempre è un vuoto che niente e nessuno può colmare. Una parte di te scompare, e non la rivedrai più. Una parte della tua radice, muore.

Quando rientrò mia sorella, capì tutto guardandoci in faccia. le mormorai cosa era successo. lei diventò di pietra.

Fui tremendamente dura con natalka. sfogai su di lei tutto l’odio che provavo per me stessa per non essere an- data a quell’appuntamento con mio padre, e che il destino aveva trasformato nell’ultimo appuntamento.

«È stata colpa tua!» gridai a mia sorella. «È per colpa tua che non sono andata da papà! Tu vuoi più bene agli zii che a lui!»

ma sfogavo anche il rancore che provavo per lei, per come si era comportata una volta. Quel giorno mio pa- dre era venuto a trovarci. in casa c’era uno dei nostri zii, e natalka, con quella sottile cattiveria con cui i figli dei genitori separati cercano forse di punirli per essere stati abbandonati, invece che andare a salutare nostro padre, si mise a sedere sulle ginocchia di questo zio e l’abbracciò come se niente fosse.

anche se noi li chiamavamo in quel modo, loro non erano affatto nostri zii. era solo il nome che usavamo per indicare il fidanzato di turno di mia madre, da quando mio padre era definitivamente uscito dalla sua vita.

mio padre la guardò, ma non disse nulla. Posò sul tavolo la cioccolata che ci aveva portato, e poco dopo andò via. «È tutta colpa tua! gli è scoppiato il cuore veden- do questa scena!» gridai a mia sorella. natalka mi fissò incredula e, dopo un attimo di silenzio in cui si irrigidìtalmente che sembrò sul punto di andare in pezzi come un cristallo percosso dalle vibrazioni di un suono troppo

acuto, scoppiò in lacrime.

Nel vederla finalmente soffrire provai un gran piacere. in quel momento, la odiavo davvero. era il parafulmine di tutti i miei dubbi, le mie domande senza risposta, la mia solitudine, la mia amarezza.

solo qualche settimana dopo i funerali sono riuscita a versare tutte le lacrime che avevo dentro. ho pianto a dirotto, e ancora piango ora, quelle stesse lacrime, mentre ricordo il dolore insopportabile che mi procurava guardare la targhetta sulla tomba di mio padre. leggere il suo nome, l’età. era morto a quarantaquattro anni. Piangendo abbassa- vo la testa, e ogni volta che rialzavo gli occhi e vedevo quelle parole incise, quel numero, ricominciavo a singhiozzare.

da quel momento, feci di nuovo la pace con mia sorella.

Un giorno natalka se ne venne a casa con un palloncino. «dove l’hai preso?» «me l’ha regalato papà!» rispose lei tutta contenta,

come se nulla fosse. la mamma e io trasalimmo. ci guardammo incredule,

quasi impaurite. mi vennero i brividi. «Papà...?» sussurrò mia madre. «sì, papà!» squillò natalka. «e mi ha anche detto di

salutarvi tutti. Perché lui vi pensa, e vi vuole bene!» il suo sorriso era innocente e sicuro, la sua voce era

piena di sincerità. ogni tanto ripenso a quei momenti, e ancora adesso non

so dire se fosse una sua invenzione, se fosse il suo modo di superare il tremendo dolore che la morte di nostro padre ci aveva procurato.

ma forse è l’amore che vince ogni cosa... quando ci tocca separarci da una persona che amiamo, e non siamo riusciti a dirci tutto, la forza dell’amore è così grande che ci fa tornare silenziosamente a quel momento in cui l’ombra del silenzio coprì la nostra voce, e compie il miracolo di far rinnovare un incontro.

Avevo dieci anni ed ero già senza un padre. mia madre andava sempre più fuori di testa. mi presentava continua- mente i suoi amici. Tutti maschi. Amici che ovviamente approfittavano di lei, del suo bisogno d’amore che forse, anche per lei, risaliva ad altre ombre, più lontane, quando fu il suo castello incantato a crollare.

mia madre non fumava né beveva, questi amici invece accendevano continuamente sigarette e si riempivano i bicchieri, sorridendole e approfittando di lei. era una donna ingenua, malgrado tutto, e cadeva con facilità tra le braccia di uomini che la seducevano, si servivano di lei, e l’abbandonavano. a volte il rapporto durava di più, e alcuni dei suoi amanti diventavano miei zii.

«Questo è tuo zio» mi diceva con garbo la mamma.

e così i miei zii cominciarono a un tratto a moltiplicarsi: Jòzef, krzysiek, artur... Tutti erano miei carissimi zii!

avevo solo dieci anni e un disperato bisogno di affetto. bisogno di vedere in qualcuno una figura paterna.

alcuni mi stavano simpatici, ma sotto sotto, fin da allora, sentivo una specie di odio per certi uomini. l’unico uomo, per me, era mio padre.

se volevano stare con mia madre, e se a lei stava bene, per me non c’era nessun problema. ma dovevano fare come dicevo io: comprarmi caramelle, accontentarmi se avevo voglia di fare i capricci, e insomma darsi un po’ da fare, affinché io li sopportassi!

ma poi, arrivò uno zio diverso da tutti gli altri. e solo evocare il ricordo di lui, mi fa venire voglia di vomitare.

Dov’era mia madre? era morta anche lei davvero come mi sembrava a volte, quando la vedevo seduta, con lo sguardo perduto nel vuoto? come poteva non capire, non vedere, che l’affetto di uno di questi zii era tale da spingerlo a infilare la mano tra le gambe di sua figlia? Una bimba che aveva soltanto dieci anni?

Quante cose impossibili accadono continuamente... 

eravamo a letto, la mamma dormiva. sento la mano del suo amante che inizia a toccarmi. mi sfiora, si insinua... io sono rimasta come paralizzata. non potevo capire, ma sentivo che quello che stava accadendo era mostruoso. nel buio, sentivo il suo respiro. il mio cuore cominciò a battere forte, non sapevo se dovevo svegliare mia madre, urlare, o difendermi da sola. Perché quando ti accade una cosa così spaventosa, è strano, ma prima di tutto provi una specie di vergogna. anche se sei tu la vittima, provi vergogna per quello che sta accadendo.

all’improvviso mi sono alzata, sono scappata in bagno e ho cominciato a vomitare. ero tutta sudata, sconvolta, mi mancava l’aria. non sapevo più cosa fare, e ancora adesso, dopo tanti anni, quando il ricordo di quella notte mi sor- prende, mi viene voglia di vomitare. come se vomitando potessi sputare fuori per sempre, materialmente, l’incubo che avevo vissuto.

i bambini dovrebbero avvicinarsi alla sessualità tra di loro, scoprirla come un gioco. insieme ai loro coetanei. sono loro che possono scambiarsi una carezza azzardata. e poi magari, presi dall’emozione, scoppiare in una risata liberatoria...

Perché è così che il sesso è bello, limpido e naturale, come vuole la natura. ora so la verità: non avrei dovuto essere costretta a far finta di niente per non ferire mia madre! non avrei dovuto essere costretta a portare sulle mie piccole spalle, il peso di una croce così grande.

non avrei dovuto essere io a far da madre a lei: io ero sua figlia.

ma un giorno decisi che ne avevo abbastanza delle mani appiccicose, dei sorrisi falsi, degli sguardi viscidi e lascivi di quel figlio di puttana: e lo presi a calci.

non c’è karma che tenga per giustificare le cose schi- fose che quel pedofilo cercava di impormi fingendo di essermi amico, e così gli ho mollato un bel calcio forte e teso, proprio in mezzo alle gambe. lo presi in pieno: avevo fatto gooool!

ora finalmente aveva imparato anche lui quanto si è gelosi di certe parti intime, e quanto è brutto vedere che qualcuno ce le viene a toccare...

si piegò in due dal dolore. l’avevo colpito proprio bene.

se la mia rabbia fosse esplosa del tutto credo che avrei potuto ucciderlo.

era un uomo sposato, che aveva tre figli. ma non so se sperare che sia tornato da loro, quando mia madre final- mente lo cacciò. era l’essere più spregevole che si possa immaginare.

storie come questa sono successe e succedono a tanti ragazzini in ogni parte del mondo. e continueranno a succedere, se a dominare i nostri cuori sarà l’indifferenza, l’assenza, e non quella parola magica con cui un solo uomo aveva risvegliato un intero popolo: Solidarnosc.

solidarietà.

 

 
 
 
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