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AMORE CHE VIENI, AMORE CHE VAI

Post n°179 pubblicato il 12 Novembre 2012 da JayVincent

Dicono che le parole se le porti via il vento.

La metafora è realistica, calzante; dipende però dove se le porta, il vento, queste benedette (o maledette) parole.

Dicono che ultimamente, in zona Lido, sia rimasta aperta qualche porta di troppo.

Dicono che il venticello novembrino che accompagna la bassa pressione di queste settimane abbia fatto scappare qualche parola di troppo.

Dicono che l’aria che tira sia piuttosto distante da quella che si vuole fare percepire. Non esattamente calma piatta, non esattamente “siamo tutti sulla stessa barca”. Non esattamente una struttura gerarchica in cui il buon padre di famiglia sgrida l'amato figliolo per ricondurlo sulla retta via.

Dicono che un terremoto - o forse più una frana? – stia montando, lenta ma inesorabile.

Tra i dire, fare e baciare, ci sono giocatori che sono ai ferri talmente corti da essere rimasti a mani nude.

Che il rapporto con il gestore del personale sia da separati in casa e che chi dovrebbe, è talmente esautorato da nascondersi dietro un dito.

Dicono che chi mette i soldi, tanti soldi, non sia più così convinto di volerlo fare. Non per i soldi stessi e il loro fugace valore, ma per l’inadempienza con ben altri valori.

Diciamo, noi, che forse il domani dell’Olimpia rischia di essere un po’ diverso da quello che tutti, ma proprio tutti, pontificavano: un dominio inevitabile, tra le macerie di un Campionato al ribasso e il passamano di una Siena ridotta a comprimaria.

Dicono che dalle porte, lasciate aperte ad arte, escano parole senza musica soffiate da un mantice di tempesta.

Il qui presente ambasciatore non porta pena, si limita a mettere in prosa racconti e voci.

E il qui presente ambasciatore odia gli spifferetti da cortile, detesta il vociare di comari. Ma teme, fortemente, che tutto questo dire sia talmente realistico da essere fotografia di verità.

 
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PIERO IL GUERRIERO

Post n°178 pubblicato il 21 Giugno 2010 da JayVincent

 

Tra i molti, aggrovigliatissimi, nodi che questo finale di stagione doveva sciogliere, almeno uno probabilmente ha trovato soluzione.

Su questi schermi e su molti altri, cartacei, ci si era domandati il perché della suicida mossa di mandare in prepensionamento Fiero.

Purtroppo si è trattato del più classico dei misunderstanding: quando al nostro presidentissimo è stato chiesto 'che fare di Fiero?', lui ha capito 'che fare di Piero?'. E ha sbottato: “basta non lo voglio più vedere quello lì”!

Quindi tutti a fermare la produzione di canotte da gioco e gadget: via Fiero, il presidente non lo vuole!

Contemporaneamente, il buon Livio, convinto di essersi liberato dello stratega di Bologna, si rifugia nel suo buen retiro a sfogliare la margherita del successore, dall’alto della sua profonda conoscenza cestistica: Faina? Casalini? Bianchini? Insomma, un simbolo, qualcuno che conosca la piazza e sappia esaltare il pubblico.

Tornato in sede, probabilmente con il nome del successore in tasca, si è trovato davanti all’ineluttabile: Piero lo stratega in pieno brainstorming, con tanto di elettrodi collegati alle meningi per stimolare idee sul nuovo playmaker razzente, e una pletora di impiegati enusiasti nel mostrargli il nuovo materiale tecnico senza quel rompicoglioni di Fiero.

Capendo la tragicità del momento, il presidentissimo ha glissato, si è complimentato con tutti per l’ottimo lavoro svolto e si è lasciato andare alle consuete trentotto interviste riparatrici.

Tanto un qualunque decreto salvaFiero sarebbe stato partorito comodamente in 7-8 mesi, senza fretta: e infatti, giusto in tempo per le spettacolari Finals, arriva quella specie di pistolotto argentato che ha scatenato la curiosità del pubblico storico (e non).

Ma chi è? Chi c’è dentro? Sembra Trell Horton vestito da Rockets.

Al diffondersi della vera identità, il colpo di grazia per gli ormai provati astanti.

 

Ecco svelato il retroscena di quella che possiamo definire una stagione cabarettistica, sempre al confine tra lo sketch e la parodia, in un susseguirsi di scelte strategiche incommentabili e persino difese da qualcuno.

Salvo poi renederci conto, al momento della prova del nove, che non solo il famigerato divario da Siena non si è ridotto, ma guardando i freddi numeri (e non solo) è pure aumentato.

Sarà colpa della pressione, come impeccabilmente sottolineato dall’illuminato Piero: Siena ce l’aveva tutta sulle sue spalle e ha quindi dovuto mettercela proprio tutta per raderci al suolo come e peggio di 12 mesi fa (ma lì la pressione era tutta nostra, giova ricordarlo).

Ora sotto con la costruzione dell'Olimpia contender version 3.0: il defender perderà pezzi importanti, vedremo se saremo buoni solo a comprarne qualcuno, pensando che la proprietà transitiva sia la soluzione di tutti i mali, oppure si scoprirà miracolosamente che serve un progetto, come per altro viene detto a ripetizione da due anni.

Qualcosa mi dice che affidare la costruzione di suddetto progetto a uno che ha allestito una squadra di corridori e li ha fatti giocare a badminton, non è un buon punto di partenza.

Ma si sa, io sono uno di quelli cui vanno tirate le orecchie. Anzi, morsicate.

 

 

 
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FISCHI E FIASCHI

Post n°177 pubblicato il 14 Giugno 2010 da JayVincent

 

Si sentirebbe veramente il bisogno di un moderno cavaliere senza macchia che, atterrando in questo Paese infame e pavido che è l'Italia, ci spiegasse come mai non se ne vuole proprio parlare di fare un favore al basket.

Che la compiacenza e il lecchinismo siano un tragico difetto perpetuo del Belpaese, lo dice la storia e lo dicono tre tempi verbali: passato, presente e futuro. Però a un terribile testardo come me continuano a sfuggire i motivi di tanto servilismo.

Si prenda l'arbitraggio di ieri sera: si prenda un palazzo dello sport che supera il grottesco urlando "Lega italiana figli di puttana" a causa di un fischio ritenuto non amico. Si prendano tre uomini in grigio che danno l'impressione di non essere i soliti guitti prostrati alla prima protesta di Pianigiani: li si osservi andare negli spogliatoi in una selva di insensate proteste e poi si proceda con l'analisi del terzo quarto. Siamo sempre qui a ricordarci che Siena non ha bisogno dell'aiuto di nessuno per battere Milano, Bologna, Roma, Treviso, Celtics e Lakers. E credete, è vero che più vero non si può: tra noi e loro ci sono 20 punti, ci sono per davvero e non smetteranno di esserci, per quest'anno. Ma siamo altrettanto sempre qui a raccontare un fischio come il terzo fallo di Maciulis, che è un simbolo, è il bugiardino del mestiere.

Finito? No. Perchè stamattina mi tocca leggere sul principale quotidiano sportivo nazionale l'articolo di Luca Chiabotti, che sta al giornalismo come gli arbitri al basket. Un articolo brutto, inutilmente vandalo, che non riconosce, reprime, sfotte, tesse lodi anche quando non sono richieste, sbava per compiacenza e non per richiesta.

Vietato infastidire il manovratore, anche se il manovratore non chiede niente, guida sereno senza traffico e, magari, nemmeno si accorge dello stuolo di tappeti.

 

 
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ALLA FACCIA NOSTRA

Post n°176 pubblicato il 11 Giugno 2010 da JayVincent

Lo dice Marco Mordente, lo dice tra le righe ma non troppo Piero Bucchi: è il messaggio in bottiglia che naviga chiaro dopo la gara-5 che ci porta per il secondo anno in finale, una gita premio che ci consacra ancora una volta ‘primi dei secondi’.

Si dice sempre che è molto difficile saper perdere: ieri sera abbiamo avuto un esempio di come, talvolta, sia complesso anche saper vincere.

Sarò conciso e cercherò di essere semplice: la pletora di dediche, più o meno esplicite, verso coloro i quali hanno espresso un giudizio negativo verso il basket espresso da questa Olimpia release 2009-2010, è una cosa piuttosto antipatica.

Trovo personalmente retorico il solito esercizio di bollare come uno che rema contro chi non accetta bovinamente quello che passa il convento.

Io a Marco, un ragazzo che stimo moltissimo, potrei solo ripetere all’infinito che questo gruppo ha secondo me espresso un basket qualitativamente mediocre, continuerei a ribadirgli che lui e i suoi compagni sono stati assemblati con l’intento di produrre un basket ben preciso e che non si è mai visto durante l’anno.

Al nostro coach, portatore di rivalse contro il mondo intero, proporrei di aprire il dizionario alla lettera A e cercare il significato della parola autocritica; mettersi davanti alle telecamere e tessere lodi sperticate verso tutto e tutti significa non avere rispetto, significa chiudersi nella propria fortezza e continuare a guardare come un appestato chiunque porti alla causa una critica.

A Marco, a Piero, a Livio, a tutti quanti, ricorderei che gli infimi criticatori, degni della lettera scarlatta, sono probabilmente in altissima percentuale gli stessi che hanno messo il loro sedere sui seggiolini di Lido, Forum o Palaqualcosa in anni tristanzuoli anzichenò, anni senza paillettes e lustrini.

Culi ineducati che, però, saranno probabilmente seduti anche domani e dopodomani: mi è oscuro il perché si insista a (far finta di) non rendersi conto che sono un valore grande, forte, del marchio Olimpia, in questi tempi in cui il marketing è punto cardine.

Io non ho nulla contro quel pubblico che applaude sempre e applaude tutto, anzi: semplicemente, ritengo non sia uno zoccolo duro sul quale fare affidamento quando si chiude il palcoscenico. E' più probabile che nell'emorragia di quasi 3000 persone tra gara-3 e gara-4 ci siano questi ultimi, piuttosto che i primi.

E quindi, senza stilare pietose liste di proscrizione o tagliare la lavagna in buoni e cattivi, cercherei di lasciare ad ognuno il proprio mestiere e i propri diritti, tenendo a mente che l’amore non si misura sempre e solo dagli elogi e dalle carezze.

Perché se questo benedetto amore si misura dalle pagine pubblicitarie e dalle collette per mostrare apprezzamento, allora sono io a sentirmi offeso.

E a ritenermi un amante tradito

 

 

 
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LA RETORICA

Post n°175 pubblicato il 07 Giugno 2010 da JayVincent

 

Orbene, se c'è una cosa non sopporto, che mi fa venire l'orticaria, è
l'odiosa retorica, lo sproloquio pomposo per spiegare cose ampiamente
sintetizzabili, razionalizzabili o, addirittura, relegabili a pochezze.

The shot.
Sia a palazzo iersera, che oggi sulla stampa, uno sproloquiare chili di
inutili parole sul tiro di colui che fino ad allora aveva sparato a salve,
l'elogio dell'eroe che mette il tiro vincente, gettando il proprio talento oltre

l'ostacolo dell'umana possibilità. Una roba disgustosa da filmetto americano sul basket collegiale, con il giovane bello, biondo, faccia pulita che ha ragione del cattivo. Basta con queste stronzate da dottor Costa: Jones ha sparato una tripla che per lui rientra nell'ordinaria amministrazione, difesa da cani e approciata con la lungimiranza di un
povero stolto. Non ci voleva certo il suinide a spiegarci che era un gioco
preparato: grazie al cazzo Mr Sacripanti, sappiamo pure da soli che con il
gioco "pugno basso" Caserta vive o muore nei finali così.

Last action hero.
Io ogni volta che quest'anno ho visto un finale punto a punto, ho sempre
avuto la tentazione di andarmene o, alternativamente, spegnere l'apparecchio televisivo.
Basta con la retorica della stagione vissuta nelle difficoltà, del destino cinico e baro che determina gloria o polvere nell'attimo di un tiro che entra o non entra.
Esiste una costruzione, esistono i giochi, esiste la lucidità di capire se
e come è possibile lucrare un fallo, esiste sapere cosa fare quando conta. Il basket non è un circo e allestire una merda indegna come l'ultimo possesso di iersera (9 secondi,
non 9 decimi...) è l'ennesima semplicissima dimostrazione che una testa
vuota non si può farcire con fosforo e acume durante la ruota.

I fischi raffinati.
Basta con la retorica dei fischi raffinati. Fabio Facchini, l'arbitro che
in trasferta tutti vorrebbero, l'arbitro dei fischi tecnicissimi, dovrebbe
raccontare l'immane insieme di puttanate messe insieme ieri sera.
No perchè bravo è bravo, senza ironia, ma almeno tre fischi e due non
fischi di ieri sera sono stati degni di un Giansanti (ahah) o del peggior
Lamonica.

Il miglior playmaker degli ultimi 10 anni (cit).
Ecco, oltre questa pietosa retorica giustificativa, il miglior play degli
ultimi due lustri non ha ancora capito una sillaba di questa serie, si è
fatto scorticare vivo da Di Bella (ripeto: Di Bella) e può
conseguentemente andarsene a quel famoso paese che inizia per F, lui e i suoi due mentori.

Io.
Basta con la retorica del tifoso che se la prende per amore: io me la prendo perchè odio gli incapaci e amo la meritocrazia, io questa squadra in finale non ce la voglio, voglio una
notte dei lunghi coltelli, voglio una resa dei conti, un'assalto all'OK Corral.
Qui c'è da smetterla con la retorica della "passionaccia" (cit), della
fiducia, del lavoro svolto in condizioni difficili.
C'è da smetterla di pensare che un incapace diventi bravo, c'è da
piantarla di colpevolizzare chi a palazzo fischia o non digerisce il
polpettone alla merda che viene propinato e cucinato da due anni.
Ora basta: io faccio il tifoso, io non gradisco e macino ingiurie a chi mi pare e piace. Tanto più quando ho tutte le ragioni che lo scibile umano può dare.
Io faccio il tifoso e ognuno faccia il suo.

 

 
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NON E' FRANCESCA

Post n°174 pubblicato il 15 Marzo 2010 da JayVincent


Il buon Lucio Battisti scrisse delle illusioni di un uomo, illusioni disegnate dall’amore e dalla paura di vedere.

Non è Francesca e se c’era un uomo poi proprio non poteva essere lei.

Il convincimento può essere peggio della realtà, così come chiudere gli occhi è un palliativo che incancrenisce il male.

E allora forse, oggi più che mai, dobbiamo guardare senza timori lo scempio che abbiamo davanti, questo misto di incapacità, superficialità e inadeguatezza.

Se quella forse non era Francesca, questa di sicuro non è una squadra.

E qualcuno deve rendere conto del proprio lavoro, qualcuno possibilmente nella persona di Piero Bucchi, perché dopo 20 mesi di lavoro forse è necessario spiegare per non cadere nel grottesco.

Spiegare i motivi per cui gli unici elementi invariabili della sua gestione sono la perniciosa assenza di gioco, l’approssimazione, lo scaricabarile furioso e selvaggio, una sorta di paraculismo liberalizzato.

Spiegare il perché delle conferenze stampa piene di luoghi comuni, rifuggendo ogni tipo di onesta presa di coscienza.

Spiegare, e molto dettagliatamente, perché una squadra costruita e voluta da lui non ha un minimo di identità.

Nessuno, e dico nessuno, ha idea di chi siamo, da dove veniamo, dove andiamo: in questa squadra, in queste facce, non c’è niente.

E forse davvero è meglio per tutti smetterla di pensare che le cose brutte capitano sempre al fidanzato di Francesca.

Questa squadra è uno spettacolo inguardabile, reiterato, orchestrato da un professionista sicuramente serio, che però ha perso completamente il polso della situazione.

Siamo cestisticamente alle aste, non c’è esecuzione e iltalento dei singoli, l’unico appiglio cui fare riferimento, è annacquato,affogato nelle sabbie mobili del nulla assoluto che ormai è questa presuntasquadra.

Ci sono sotto gli occhi di tutti le prove tangibili di un fallimento assoluto, che è prima di tutto nella regressione di elementi come Maciulis e Petravicius pre infortunio e nello scemare dell'impatto di Viggiano, delegittimato dal suo ruolo di rottura la cui esplosione aveva evidentemente giovato.

 

Presidente Proli, fa piacere a tutti ricevere attestati di stima, essere ringraziati con pagine pubblicitarie.

Ma le stesse persone non diventano mostri in corso d’opera e vanno rispettati anche quando le stanno suggerendo di prendere atto del malcontento generale.

Le chiedo di levarsi il paraocchi, ammesso che davvero lo abbia, e smettere di difendere l'indifendibile, compreso quel mero risultato sportivo che è clamorosamente sotto le aspettative.

Presidente Proli, accetti un consiglio: non acquisti Gordon, non tagli Acker, aspetti Petravicius, non cambi una virgola di questo roster. Si tenga le paturnie di Mike Hall. Non cambi nemmeno la guida tecnica.

Porti alla fine questa stagione e poi inizi un progetto vero.

Non spenda soldi inutilmente; non sono un indovino né un mago, ma sono pronto a garantirle che qualunque allontanamento o inserimento non cambierà nulla.

Questa squadra continuerà ad essere un tromp l’oeil, una finzione, una scommessa al ribasso che nemmeno la mediocrità altrui fa vincere.

A me non interessa nulla avvicinarmi a Siena perché Siena finisce il ciclo: mi interessa avvicinarmi perché ho un progetto tecnico vero,vivace, furbo, coraggioso.

Altrimenti si può che eccellere il tempo di un anno, il tempo diuna casuale stagione con un americano e un comunitario imbroccati.

Nascere in estate per morire a primavera.

Siena non ha dominato per anni solo grazie a magie estive, bensì con la programmazione, con delle idee, con delle scommesse.

E ha radicato il suo dominio nel deserto di cervelli che è questo nostro basket italico.

Presidente Proli, ci faccia un regalo, anche se non ce lo deve: ci spieghi qual è il nostro progetto, a parte quello di allontanare tifosi disgustati dalla qualità infima dello spettacolo.

Presidente, questa non è una contestazione: è il momento in cui bisogna mettere da parte orgoglio e finzione e prendere decisioni. E' il momento di ascoltare.

Tocca a voi farci vedere di essere fieri e guerrieri.

Perché, mettiamo i puntini sulle i, su di noi dubbi proprio non ce ne sono.



 
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CIAO PAOLONE

Post n°173 pubblicato il 18 Dicembre 2009 da JayVincent


La prima volta che ti ho visto, mi hai fatto paura.

E solo chi ti conosceva bene, e chi ti ha conosciuto poi attraverso le parole di altri, sa quanto può essere ridicolo.

Mal’impressione di un momento, l’espressione di un istante di rabbia odisappunto su un parquet, impaginata su quel corpo da gigante, puòtrarre in inganno.

La paura, Paolo Barlera,poteva e doveva incuterla sul campo. Con il futuro che gli siprospettava. Con il lavoro iniziato da due maestri come MarcoSanguettoli e Giordano Consolini. Con il suo fisico imponente e le manibuone.

Poi, quel calvario durato anni, conmomenti di gioia, i ritorni, nella grande speranza che fosserodefinitivi. Apparizioni da grande attore, silenzi pieni di dignità evoglia di spaccare tutto, di mandare affanculo quella malattia dimerda. La stessa che, a noi che amiamo perderci dietro quel pallonearancione, aveva già portato via Alfonsino Ford.

Lamalattia che, infine, ha avuto ragione di Paolo. Che prima di ognialtra cosa è un ragazzo di 27 anni; e quando quel filo che ci tieneappesi a questa terra si spezza, non ci resta che abbassare le bracciae smettere di difendere, per un istante.

 

Ciao Paolone, buon Natale ovunque tu sia.



 
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IL RIMEDIO DELLA NONNA

Post n°171 pubblicato il 16 Novembre 2009 da JayVincent

 

Ai bambini con il mal di gola, un bel cucchiaio di miele nel latte caldo.

Se hai un occhio infiammato, guarda dentro la bottiglia dell’olio.

Se la pancia fa le bizze, riso bianco in abbondanza con tanto di acqua in cui è stato cotto.

Se la tua squadra è in crisi, gioca un basket inguardabile e ha tesserati che variano dall’apatico all’insulso, mettigli davanti Cantù.

 

Non passi l’idea che Milano si ritrova e gioca una partita memorabile, anzi. Soprattutto nei primi 20 minuti ci sono stati momenti per cui era lecito accasciarsi sui seggiolini di un Forum discretamente abitato e non listato a lutto, anche se ammorbato dagli striscioni ospiti, intelligenti e taglienti come le battute del Bagaglino. Però la forza d’urto di un avversario inguardabile può regalare morale ed entusiasmo. È un discorso moralmente mediocre, ma ci sono persone che ritrovano colore e grinta al solo scoprire che qualcuno sta messo peggio.

Credo che la vittoria di ieri vada letta così: fino a quando Cantù è stata presente a sè stessa, Milano ha messo in fila una serie di scempiaggini e nefandezze degne delle peggiori prestazioni stagionali. Poi, complici una difesa di squadra più convinta – proporzionalmente all'asfissia dell’attacco canturino – e sulle ali di qualche giocata offensiva di pregio, l’Olimpia stacca lentamente gli avversari, fino all’accademia dell’ultimo periodo.

Nel quale si ritrova un Mike Hall comunque ispirato sin dall’inizio, forse finalmente convintosi che si può essere protagonisti anche non partendo in quintetto.

Certo, se nel fare il playmaker Bulleri funziona nettamente meglio di Finley, sai che continuerai ad avere un problema; però c’è anche il rovescio della medaglia, perché se i difetti della squadra sono ben chiari, mi pare non si sia ancora capito come esaltare i pregi. Che ci sono e non possono essere trattati alla stregua di jolly casuali.

Un esempio su tutti: Petravicius.

Contro una Cantù di fatto senza lunghi, il piano partita non prevedeva di cavalcare Marijonas, servito poco e male, mai messo in ritmo e mai una volta in condizione di giocare la sua pallacanestro.

Insomma, io penso che negli anni si sia capito a cosa serve sul parquet questo ragazzone lituano, penso che al giorno d’oggi, in cui il dvd è un supporto diffuso, non sia difficile documentarsi. Mi rendo conto che sia più semplice sperare nell'esecuzione del gioco diavolo a quattro del tuo playmaker, nel solco di quel "ah, come giocava la Napoli di Greer": però mi sarei anche rotto le balle di vedere gli altri impolverarsi come statuine cinesi nell'attesa del trentello treccioluto.

Di più non so dire, né voglio dire. Fischiare Petra significa guardare il dito e non la luna, fermo restando che non voglio eleggerlo a moderno San Sebastiano.

Resta quella di ieri una vittoria che conta: è vero che, come detto, i nostri meriti non sono così scintillanti da indurre al più sfrenato ottimismo, è anche vero che a volte basta poco per ottenere tanto.

E quindi voglio pensare che il ventello rifilato alla nostra migliore medicina (che irriconoscenza: questi ti resuscitano e tu li asfalti) porti con sé almeno due buone notizie: avere una reazione da Hall e dare un po’ di fiato ad un ambiente che è parso decisamente in apnea.

Non un trapianto di guida tecnica o una sterzata decisa, ma di questi tempi è bene mettere in tasca tutto quello che fa morale.

Nella speranza che la scimmia, dopo aver momentaneamente abbandonato il nostro pittoresco numero 7, non passi da una spalla all’altra: perché, come detto, ci sono almeno un paio di giocatori in difficoltà.

Sono lituani, sono alla prima esperienza fuori dal proprio paese e chi di dovere non ha ancora pensato come farli sentire parte di un progetto.

Sarà un identikit sufficientemente chiaro per scoprire di chi stiamo parlando?

 

 
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POLAROID

Post n°170 pubblicato il 05 Novembre 2009 da JayVincent

 

Scatto uno.

Domenica, Assago, interno pomeriggio.

Time out, Bucchi disegna un gioco sulla lavagna (no, non èquesto l’evento che lascia stupiti).

Si rivolge a Petravicius, cerca Finley per parlare del loro pickand roll.

Finley non è lì, sta puntando un dito contro Mordente che a muso duro gli grandina addosso qualcosa.

Il coach li cerca, loro vanno avanti per la loro strada.

 

Scatto due.

Ancora domenica, ancora Assago, ancora interno pomeriggio.

Il sempre presunto coach ha la squadra intorno a sé, Pianigiani ha chiamato time out con Milano rientrata a contatto. Mike Hall si mette da parte, mezzo metro alla sinistra del gruppo, guarda in giro, incontra lo sguardo di qualcuno del parterre e si mette a chiacchierare un alfabeto di gesti e smorfie.


Scatto tre.

Mercoledì, Gdynia, interno notte.

Finley dietro l’arco dei tre punti, gioca con Petra in pitturato. Il lituano, contro Sow, scarica ancora per Morris che, invece di giocare l’immediato repost per il nostro centro che aveva preso posizione, si domanda che fare. Tiro non tiro? Attacco non attacco? Sono un playmaker o non lo sono?

Quando decide di giocare il repost, arriva il fallo in attacco per Petravicius, che da almeno 2-3 secondi stava lottando per stare davanti.

 

Ce ne sarebbero ben altri, di scatti, ma mi fermo a questi recentissimi per arrivare a leggere problematiche semplici e ovvie, che galleggiano in superficie.

In questa squadra ognuno va per conto proprio, slegato da lconcetto di gruppo e, soprattutto, da quello di giocare insieme.

Del resto a Milano c’è un coach che ha sempre scelto la via più individualista possibile per andare a canestro, chiedendo poi a tutti di stare sulla stessa barca in difesa.

Ma in una squadra di potenziali solisti, come quella di quest’anno, è più difficile fare figli e figliastri, è più difficile chiedere gambe piegate senza coinvolgimento offensivo. È una squadra dove il nervosismo si avverte al solo sguardo, dove le lamentele mi dicono essere all’ordine del giorno, dove forse – e questa tengo a precisare è una mia valutazione – ci sono gelosie in stato larvale che vanno bonificate subito e con terapie d’urto.

E poi, quello che sarà il problema strutturale dell’anno, ovvero l’aver dato le chiavi della squadra in mano a un ragazzo che di quelle chiavi se ne fa niente; le mette in tasca e cerca di sfondare la porta a spallate.

La polaroid relativa al ritardato repost per Petra è, a mio avviso, un manifesto fedelissimo dei problemi tattici di questa squadra.

Se il giocatore che dovrebbe mettere in moto tutto il tuo attacco, fatto di individualità e di soluzioni offensive variegate, vive nell’eterno dilemma del tiro o non tiro, passo o non passo, si è destinati a essere una bomba disinnescata.

Anzi, una bomba che rischia di esplodere in mano a chi dovrebbe farne buon uso.

Al di là del carneade Jagla e di Pape Sow, del folletto Logan o dei cecchini senesi, oltre il pick and roll Childress-Slay, oltre le penetrazioni di Di Bella.

Il problema, prima che in campo, è al sorgere di ogni giorno in cui si lascia tutto com’è accampando sempre e solo scuse, oppure convinti di avere fatto un lavoro talmente perfetto da non essere discutibile.

È pensare che si perda, ma anche si vinca allora, solo per episodi, per sfortuna o per una tragica mancanza di centesimi per fare l’euro.

Non è così. Sia ben chiaro.

 

 

 
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TRA PALCO E REALTÀ

Post n°169 pubblicato il 26 Ottobre 2009 da JayVincent

 

Raccontiamocela piatta.

Il dato numerico, stringente, è che ci sono probabilità concrete che questa squadra si trovi tra due settimane, in campionato, con un record di 1-4.

Le abbordabili prime tre giornate erano il viatico migliore per mettere benzina verde e presentarsi al primo vero esame Siena-Virtus con entusiasmo.

Perché preoccuparsi di questo? Semplicemente perché le stagioni non sono tutte uguali e le partenze ad handicap non sempre si risolvono con pazienti risalite, grandissime aperture di credito, mercato frenetico e finali inattese a sanare tanti dubbi e perplessità.

Quello che trovo inaccettabile è che a fine ottobre questo gruppo sia ancora un cantiere aperto.

Quello che trovo tremendamente preoccupante è che il cantiere resterà aperto per un bel po’, almeno finchè si scoprirà che quel cantiere non riesce a costruire una casa per difetti che sono strutturali.

E che quindi ci si dovrà accontentare di risolvere le partite con il talento dei singoli, con le giocate di quello che avrebbe dovuto essere il tuo playmaker.

Che è un giocatore pregiato, anche eccellente, ma non è un playmaker e i momenti di bambola assoluta a Caserta, come a Varese, come nelle due gare interne contro Ferrara e Panathinaikos stanno lì a dimostrarlo.

Perché quando in questa squadra si blocca il singolo, si interrompe l’assolo, il coro stecca tremendamente e non sa più trovare la nota giusta da cui ripartire.

E il direttore d’orchestra? Il direttore è su un altro spartito, lo è dallo scorso anno, solo che tempo addietro fu condotto per mano dai propri orchestrali a trovare un punto d’incontro.

Che privilegiava quelli in grado di farlo sentire direttore, mentre quelli che si prendevano la responsabilità di guidare la banda su altre note, sono stati messi al bando.

Chi ha avuto ragione? Piero Bucchi, perché il criterio di oggettività vuole che alla fine il risultato sia prioritario.

Però non si può fondare un progetto nella speranza che il passato si ripeta, soprattutto se il passato affonda le sue radici più nei bizzarri ghirigori del caso e del fato piuttosto che nella piena meritocrazia.

 

È pericoloso navigare in acque che, anche se affrontate nel modo migliore, potranno farti attraccare sempre e comunque solo al secondo posto.

Perché la noia, l’impossibilità di arrivare davanti a tutti,sono sabbie mobili e possono fungere da bloster all’ambizione, alla voglia di crescere.

Chi parte da secondo, sulla carta può essere secondo e lavora per essere secondo, rischia di spegnersi se non c’è qualcosa, o qualcuno, che tiene viva la voglia di andare oltre.

Ed è molto più facile che nel guardare quanto è piccolo e lontano chi ti precede, ci si dimentichi di chi arriva da dietro e invece ha una voglia matta di superarsi e superarti.

Servono grande orgoglio e grandi palle per essere una squadra consapevole, soprattutto ci vuole qualcuno che non sia convinto di essere credibile solo grazie alla somma algebrica degli stipendi e del valore presunto dei propri solisti.

 

A Caserta e a Varese, Milano ha perso due partite con un denominatore comune più che preoccupante: per 40 minuti ha subito sempre la stessa situazione tattica, dal primo all’ultimo minuto, senza nessuna capacità di porre un argine.

Speriamo che chi ha provato a uscire dallo spartito e ad opporsi alla bacchetta dell’intensity non sia epurato ed etichettato in corrispondenza della commemorazione per i defunti.

 

 

 
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