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Quando Schifani parlò ai pm...

Post n°19 pubblicato il 14 Maggio 2008 da Max_opinionepubblica

Quando Schifani parlò ai pm...

Che conoscesse Nino Mandalà, il presidente del Senato Renato Schifani lo ha ammesso il 18 ottobre 2004 davanti ai giudici della Terza sezione penale del Tribunale di Palermo. In quella sede ha riconosciuto di aver avuto rapporti di affari con il suddetto Mandalà nella società «Sicula brokers». Nino Mandalà è ritenuto il capomafia del mandamento di Villabate, comune dove il presidente Schifani, all'epoca avvocato senza cariche parlamentari, ebbe anche un delicatissimo incarico di consulente per le questioni urbanistiche.
Nino Mandalà e suo figlio Nicola sono i personaggi che hanno favorito la latitanza di Bernardo Provenzano, organizzando il viaggio del boss in un clinica di Marsiglia per curarsi. Nel processo sulla mafia di Villabate un ruolo centrale è rivestito dalle dichiarazioni di Giuseppe Campanella, ex impiegato di banca, consulente dell'amministrazione comunale e galoppino politico ad ampio raggio. È stato nell'Udeur di Mastella, ha avuto rapporti con Forza Italia e con Totò Cuffaro, fino a stabilire solidi legami con i Mandalà. Ma veniamo alla deposizione del Presidente Schifani. Che ammette di aver avuto un ruolo nella società della quale Mandalà era amministratore delegato. «Io ebbi, facendo parte dello studio La Loggia (Giuseppe, avvocato, padre dell'onorevole di Fi Enrico, ndr)...il vecchio la Loggia mi chiese se volevo far parte simbolicamente di questa struttura, sottoscrissi il 3% e dopo un anno e mezzo lo dismisi. E quindi, se pur formalmente alla costituzione feci parte del consiglio di amministrazione, cedute le quote cessai perché non avevo nessun interesse alla società». Quando il pm domanda al senatore Schifani se conosceva Mandalà la risposta è affermativa. «Nella costituzione venne indicato questo Mandalà che io non conoscevo prima, come amministratore...Poi esco dallo studio, lo perdo di vista completamente...Mandalà poi l'ho rincontrato in occasione della politica». Conoscenza che il pm vuole approfondire, ed a questo punto si passa al discorso sulla consulenza che l'allora avvocato Schifani fornisce al comune di Villabate in materia di urbanistica. Circostanza che Schifani ammette, «Il rapporto è stato nel 1995. Nei primi mesi era una consulenza gratuita e finalmente poi vi è stata la copertura e sono stato retribuito secondo le tariffe previste dalla legge regionale». In quell'epoca, chiede il pm, «lei ebbe modo di rivedere Mandalà?». «Sì, ma l'ho incontrato credo una volta, ma non in Comune, a Villabate ma per caso...». Sui rapporti con Mandalà, successivi alla comune presenza nella «Sicula brokers», è l'avvocato Restivo a porre altre domande: «Le risulta se Mandalà aveva un ruolo all'interno del partito, del movimento Forza Italia?». Schifani, visibilmente contrariato, replica che lui ha «già risposto a domanda specifica del pm». L'avvocato insiste e il senatore, finalmente, offre la sua versione. «A livello istituzionale non vi era nessuna responsabilità, all'interno del partito sì, credo che facesse parte di un organismo provinciale, venuto fuori dalla celebrazione di un congresso. Credo che fosse il coordinamento provinciale, il consiglio provinciale, non ricordo bene l'espressione, comunque era l'organismo consultivo e non decisionale del partito». L'avvocato insiste: «Quindi faceva parte del movimento Forza Italia?». Schifani ammette, ma si spazientisce ancora quando il legale chiede se quella di Mandalà fosse una «partecipazione elettiva sia pure da parte degli iscritti di Forza Italia». «Ho chiarito - dice il senatore - che era stato eletto all'interno di un congresso che si era tenuto a livello provinciale nel nostro partito».
La deposizione finisce qui. In sintesi: l'attuale presidente del Senato ammette di aver fatto parte negli anni 1978-1979 di una società al cui vertice c'era Antonino Mandalà, che solo dopo anni si scoprirà essere un potente boss della mafia di Villabate legato a doppia mandata agli interessi di Bernardo Provenzano. Di quella società facevano parte l'onorevole Enrico La Loggia, Giuseppe Lombardo (che tra le sue molteplici attività rivestiva anche quella di amministratore di alcune società degli esattori Ignazio e Nino Salvo, nel 1987 condannati per mafia), e l'ingegner Benny D'Agostino (condannato due volte per associazione mafiosa e vicinissimo al boss Michele Greco, il Papa). Anche la consulenza sulla delicata materia urbanistica al Comune di Villabate è ammessa dal presidente Schifani («perché il mio ruolo era riconosciutamente scientifico...»). Il pentito Campanella, invece, parla di affari e in una sua deposizione dice che «il prg di Villabate, strumento di programmazione fondamentale in funzione del centro commerciale che si voleva realizzare e attorno al quale ruotavano gli interessi di mafiosi e politici, sarebbe stato concordato con La Loggia...Schifani avrebbe cooordinato con il progettista di fiducia tutte le richieste che Mandalà avesse voluto inserire in materia urbanistica». La gola profonda riferisce anche di tangenti, sia l'onorevole La Loggia che il senatore Schifani hanno deciso di querelare Campanella. Pentiti a parte, si tratta di dichiarazioni pubbliche, di documenti facilmente consultabili che Radio Radicale ha messo in onda in uno «Speciale giustizia». Insomma, non è Travaglio da Fazio, ma il racconto di una storia fatta di frequentazioni molto imbarazzanti è lo stesso. A dirci tutto, però, questa volta è il diretto protagonista, Renato Schifani, presidente del Senato della Repubblica italiana.
A proposito di Travaglio (oggi a Marsala, dalle 21 in poi, alle Cantine Rallo) il bravo Giuseppe D'Avanzo in un articolo su La Repubblica riguardante il caso Schifani, sostiene che durante la trasmissione di Fabio Fazio, Travaglio, omettendo di dire che a suo tempo non c'erano evidenze penali a carico dei soci di Schifani poi coinvolti in inchieste di mafia, "Dice quel che crede e bluffa sulla completezza dei 'fatti' che dovrebbero sostenere le sue convinzioni. Non è giornalismo d'informazione, come si autocertifica. E', nella peggiore tradizione italiana, giornalismo d'opinione che mai si dichiara correttamente tale al lettore/ascoltatore. Nella radicalità dei conflitti politici, questo tipo di scaltra informazione veste i panni dell'asettico, neutrale watchdog - di "cane da guardia" dei poteri ("Io racconto solo fatti") - per nascondere, senza mai svelarla al lettore, la sua partigianeria".
D'Avanzo conclude la sua analisi scrivendo che "Nel 'caso Schifani' non si può stare dalla parte di nessuno degli antagonisti. Non con Travaglio che confonde le carte ed è insincero con i tanti che, in buona fede, gli concedono fiducia. Non con Schifani che, dalle inchieste del 2002, ha sempre preferito tacere sul quel suo passato sconsiderato. Non con chi - nell'opposizione - ha espresso al presidente del Senato solidarietà a scatola chiusa. Non con la Rai, incapace di definire e di far rispettare un metodo di lavoro che, nel rispetto dei doveri del servizio pubblico, incroci libertà e responsabilità. In questa storia, si può stare soltanto con i lettori/spettatori che meritano, a fronte delle miopie, opacità, errori, inadeguatezze della classe politica, un'informazione almeno esplicita nel metodo e trasparente nelle intenzioni".

fonte marsala.it            link articolo

 
 
 
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