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Fn e Lega pagati dal Cremlino?

Post n°232 pubblicato il 18 Gennaio 2016 da orkelio

Fn e Lega pagati dal Cremlino?

La Russia finanzia i partiti nazionalisti che vogliono destabilizzare l'Ue proprio per farla scoppiare e  quindi ripristinare la sua influenza sui paesi vicini. Se il vero scontro è con gli Usa, in realtà sono lontani. Sono l'Ue, l'Euro e i dazi a cui è sottoposta l'economia Russa a dare fastidio a Putin, oltre all'espansionismo della NATO. Da quando è scoppiato l'affare ucraina si è avviato un percorso di non ritorno.

I 9 milioni di euro concessi alla Le Pen, attraverso una banca ceco-russa sono frutto di una ben più lunga intesa politica che risale addirittura al padre Jean-Marie. E anche del fatto che Mosca ritiene la Francia assai più ostile dell'Italia dove, sotto sotto, nemmeno il governo in carica viene ritenuto visceralmente anti russo come "il perfido Hollande". Ma la speranza che prima o poi aiuti in denaro possano arrivare in qualche modo da Mosca è rimane accesa nel clan di Salvini. Lui stesso conferma: "Noi facciamo un appello politico a tutto il mondo e ogni aiuto è ben accetto, anche perché abbiamo 70 dipendenti in cassa integrazione". Ma precisa: "Finora non è arrivato né un rublo né un euro. E non ci interessa chiederlo. Il nostro appoggio alla Russia è totalmente disinteressato".  Marine Le Pen dice che la politica costa e nessuna banca francese ha voluto sostenerli e in previsione delle presidenziali dell'anno prossimo si devono riorganizzare anche economicamente. Comunque affrema che restuitirà fino all'ultimo rublo.

Un po' per amore del vecchio metodo sovietico, un po' per ripicca contro gli Usa che starebbero facendo altrettanto, Putin ha deciso di sostenere, accreditare e perfino finanziare una lista di partiti che in qualche modo possano creare problemi ai cosiddetti "governi ostili" e scompiglio nelle politiche dell'Unione europea. Come? Il canale bancario - come è successo con la Le Pen - resta in teoria la strada più semplice e trasparente. La moral suasion del Cremlino, nel settore, è altissima. Cinque istituti di credito sono finiti nella lista delle sanzioni Ue e Usa.

 
 
 

Olio di scisto

Post n°231 pubblicato il 16 Gennaio 2016 da orkelio
 

L'olio di scisto fu una delle prime fonti di olio minerale usate dagli esseri umani.[3] Il suo primo uso registrato si ebbe in Svizzera e in Austria all'inizio del XIV secolo.[4] Nel 1596, il medico personale di Federico I, duca di Württemberg scrisse delle sue proprietà curative.[5] L'olio di scisto era usato per illuminare le strade di ModenaItalia, alla svolta del XVII secolo. La Corona britannica concesse un brevetto nel 1694 a tre persone che avevano "trovato un modo per estrarre e fare grandi quantità di pece, catrame e olio da una specie di roccia".[5][6][7] Venduto in seguito come Betton's British Oil, si diceva che il prodotto distillato fosse stato "provato da diverse persone su dolori e acchiacchi con grande beneficio".[8] Industrie moderne per l'estrazione dell'olio di scisto furono fondate in Francia durante gli anni 1830 e in Scozia durante gli anni 1840.[9] L'olio era usato come combustibile, come lubrificante e come olio per lampade; la Rivoluzione industrialeaveva creato una domanda aggiuntiva di illuminazione. Esso serviva come sostituto per il sempre più scarso e costoso olio di balena.[5][10][11]

Durante la fine del XIX secolo, impianti per l'estrazione dell'olio di scisto furono costruiti in AustraliaBrasile e negli Stati Uniti. Cina (Manciuria), EstoniaNuova ZelandaSudafricaSpagnaSvezia e Svizzera producevano olio di scisto all'inizio del XX secolo. La scoperta di petrolio greggio nel Medio Oriente durante la metà del secolo portò la maggior parte di queste industrie ad arrestarsi, anche se l'Estonia e la Cina nordorientale mantennero le loro industrie estrattive fino agli inizi del XXI secolo.[9][12][13] In risposta ai costi crescenti del petrolio alla svolta del XXI secolo, sono state iniziate, esplorate o rinnovate le operazioni di estrazione negli Stati Uniti, in Cina, Australia e Giordania.[13]

 

https://it.wikipedia.org/wiki/Olio_di_scisto

 
 
 

CURIOSITA' - Arvaia

Post n°230 pubblicato il 14 Gennaio 2016 da orkelio

Roveja, anche detto pisello dei campi o robiglio, è una varietà di pisello.

Questo legume è importato in Europa dal Medio Oriente, conosciuto fin dal

Neolitico ma ultimamente praticamente scomparso dalle nostre produzioni.

Esistono diverse cultivar del pisello dei campi quali i kapucijner che

vengono coltivati in Olanda e la roveja che si trova ormai soltanto

nell'Italia Centrale dove viene coltivato prevalentemente nelle Marche

e in Umbria da agricoltori che vogliono diversificare e riscoprire le tradizioni.

Inizialmente il baccello della roveja è verde ma con la maturazione diventa

viola-scuro. Il colore dei semi freschi può variare da verde a grigio mentre

seccati i semi tendono al marrone scuro. I fiori sono purpurei.

Il pisello dei campi viene coltivato soprattutto in Umbria e

nelle Marche in particolare in Valnerina a Cascia. La roveja

viene seminato in marzo.

I baccelli maturano in luglio. Possono essere raccolti anche a maturazione

inoltrata in quanto sono meno farinosi dei piselli comuni. Dopo che le

foglie siano diventate gialle, si falciano le piante e si lasciano essiccare

nel campo. Quindi le piante secche vengono raccolte e trebbiate.

Per togliere le impurità i semi vengono ventilati [1].

Uso

I semi possono essere consumati freschi oppure si possono seccare.

Comunque sono più gustosi cotti. Hanno il sapore di una fava.

I semi seccati vengono impiegati soprattutto per zuppe e minestre.

La pianta viene usata anche come foraggio.

Lenticchia e roveja

Ci sono piatti e ricette, nella nostra penisola dove è più facile dividersi

che unirsi (anche a tavola…), che variano da provincia a provincia, da

comune a comune, da una rione all’altro. E ci sono perfino prodotti,

diventati famosi in tutto il mondo, che portano il nome del luogo di

produzione come tanti altri, solo che il posto nel quale nascono e che

stanno rendendo popolare è quello di una frazioncina, neanche dell’intero

comune. Succede in Umbria, dove Norcia, un comune di cinquemila abitanti

all’interno del Parco nazionale dei Monti Sibillini e a un centinaio di

chilometri dal capoluogo Perugia, è famoso nel mondo per il meraviglioso

centro storico (sopravvissuto a terremoti), per San Benedetto e, per quel

che riguarda il cibo, soprattutto per il tartufo nero, il prosciutto crudo Igp

e i norcini, i maestri della salumeria che ormai si chiamano così per

definizione, anche se della bella cittadina e del suo centro storico hanno

a stento sentito parlare.

Una frazione di Norcia, invece, con neanche duecento abitanti, è diventata

quasi altrettanto famosa per le sue lenticchie: mi riferisco a Castelluccio, che

con la sua posizione elevata a 1450 metri di altitudine è il centro abitato più

alto dell’intera catena appenninica; di fronte a Castelluccio si erge il monte

Vettore, con i suoi 2500 metri. Che Castelluccio sia una frazione, ma con

una vita abbastanza autonoma rispetto a Norcia, lo spiega anche la distanza

dal comune di riferimento: una trentina di chilometri…

   Un posto freddo, dove si

scia d’inverno, ma anche una calamita per i fotografi in primavera avanzata,

grazie alla sua fioritura immortalata da milioni di scatti: l’altopiano lungo

venti chilometri, sul quale si trova la piccola frazione, nella tarda primavera

offre un particolare fenomeno naturale, dovuto alla fioritura contemporanea

di decine di fiori diversi, che formano uno straordinario tappeto multicolore

disteso sull’intera valle. Oltre al giallo, spiccano il rosso dei papaveri e il blu

dei ciclamini. In questo notevole scenario naturale, che da solo basterebbe

a rendere famosa Castelluccio, si sono inserite le lenticchie, che qui crescono

con un sapore inconfondibile, un particolare aspetto policromo e dimensioni

piuttosto ridotte. Altri requisiti importanti sono la resistenza (ai parassiti,

al freddo e alla siccità) e la coltivazione quasi naturalmente biologica.

Tutti aspetti che hanno fatto meritare loro il marchio europeo della Igp,

l’Indicazione geografica protetta, alla quale hanno fatto seguito una richiesta

sempre più elevata e prezzi altrettanto remunerativi. Ormai un sacchetto di

lenticchie di Castelluccio non può mancare nei pacchi-regalo enogastronomici

del periodo natalizio. Seminate in primavera allo sciogliersi della neve,

le lenticchie richiedono pioggia per crescere e pazienza in fase di raccolta,

che qui chiamano carpitura, così come il legume è chiamato lénta. La raccolta,

che avviene fra la fine di luglio e ferragosto, adesso è sempre più meccanizzata,

ma qualche decennio fa dava vita a una grande kermesse contadina, con l’arrivo,

anche da fuori regione, dei mietitori e delle carpirine, lavoratrici specializzate

in questo lavoro. Musiche e canti, abitudini secolari ormai perse e un gergo

specifico per ogni passaggio della lavorazione, rendevano questa raccolta

degna di essere raccontata, come è avvenuto per le mondine. Peccato che

nessuno abbia pensato di girare l’equivalente di Riso amaro qui a Castelluccio…

   Il “ritorno al futuro” della

roveja. Il Parco nazionale dei Monti Sibillini, con i suoi settantamila ettari

di territorio da vivere e da assaporare, offre altri prodotti assai particolari:

siamo in quella zona fra Umbria e Marche che ha saputo rinascere dopo

tanti terremoti, ma ha vissuto con sofferenza la mancata industrializzazione,

che ora invece si rivela una fortuna dal punto di vista turistico e ambientale.

Nessuno scheletro di capannoni abbandonati né ciminiere in mattoni ormai

utilizzabili solo come punti di riferimento per il trekking: qui la natura è

rimasta quella di un tempo, e si trovano ancora le pecore sopravissane e

i loro formaggi, oppure un salame spalmabile delicatissimo come il ciaùscolo.

E poi, con un buon navigatore, vi capiterà di trovare un’altra frazione,

Civita di Cascia, che con i suoi sessanta abitanti e nonostante il suo isolamento

(si trova a dodici chilometri da Cascia e a 1200 metri di altitudine), si sta

facendo conoscere con un suo prodotto unico. Civita è ormai nota ai buongustai

come la patria di un legume del quale si era persa la nozione: la roveja, detta

ancherubiglio o corbello e, dai botanici, pisum arvense. Arrivata dal Medio

Oriente, era coltivata in Europa già in epoca preistorica: pare sia stata,

insieme a lenticchia, orzo e farro, la base dell’alimentazione umana nel

Neolitico. In Umbria fu usata dalle prime popolazioni autoctone e poi da

Etruschi e Romani. Diffusissima fino a pochi decenni fa, anche perché cresce

spontaneamente (un’altra definizione è “pisello selvatico”), è scomparsa

prima come foraggio, perché poco adatta ai nuovi allevamenti del dopoguerra,

poi anche come alimento per l’uomo. Da protagonista di piatti tradizionali

come la farrecchiata, una polenta di legumi molto diffusa in tutta la zona

del Parco, era diventata un ricordo sbiadito nei racconti dei più anziani.

Tanto è bastato, però, per far incuriosire due signore di Civita di Cascia,

Silvana Cresci e Geltrude Moretti, che qualche anno fa hanno cominciato

a rivalutare questo legume raro, dal seme di un colore che va dal verde scuro

al marrone-grigiastro, e si posiziona dunque a metà strada fra lenticchie e

piselli, anche se il sapore assomiglia più a quello delle fave.

  Il seguito della storia lo racconta

Lanfranco Bartocci, il presidente di Bioumbria, un’associazione di piccoli coltivatori

biologici che la stanno facendo conoscere a un pubblico più ampio, di pari passo

con l’aumento della produzione: “Alla fine degli anni Novanta si sono mosse le

Università (Perugia e Ancona), i Gruppi di azione locale e alcuni contadini, per

sperimentare e riprendere la produzione. Nel 2006 è diventata oggetto di un

presidio Slowfood, e sta tornando lungo tutto l’Appennino umbro-marchigiano,

in particolare sui Monti Sibillini, con campi anche a quote molto elevate. Come

la lenticchia di Castelluccio, la Roveja è un legume molto resistente alle

temperature più basse, ha un ciclo breve e non richiede molta acqua. L’unico

problema è che si raccoglie in agosto, operazione faticosa talvolta per il caldo

e sempre perché va fatta per lo più a mano. Come tutti i legumi, è ottima dal

punto di vista nutrizionale, per la presenza di proteine, carboidrati, fosforo,

potassio, pochissimi grassi e molte fibre”.

Bruno Gambacorta tratto da Eat Parade – Alla scoperta di personaggi, storie, prodotti e ricette fuori dal comune”,

di Bruno Gambacorta, edito da RAI ERI e Vallardi.

 
 
 

sale e zucchero

Post n°229 pubblicato il 31 Agosto 2015 da orkelio

 

Mangia un pizzico di sale con un po’ di zucchero prima di dormire: quello che succede è incredibile

Sebbene non sia raccomandato in grandi quantità, il sale aiuta a ridurre il mal di testa, rafforza il sistema immunitario, aumenta il livello di energia del corpo, bilancia il livello di serotonina e di elettroliti nel corpo, e altro ancora. Ma vediamo cosa succede se mangi un pizzico di sale con zucchero, prima di andare a dormire…

Il sale e lo zucchero non sono due alimenti raccomandati in grandi quantità a causa delle loro proprietà potenzialmente dannose, ma questo non significa che non abbiano dei lati positivi. Un ruolo speciale nella salute umana viene dato alla combinazione di sale e zucchero, come spiega Matt Stone, ricercatore americano di salute e autore di diversi libri sulla nutrizione e il metabolismo. Questa combinazione, in un rapporto appropriato e specifico, può permettere alle persone che lottano in questo momento con l’insonnia, di ritrovare un sonno tranquillo. Come mai? Lo zucchero e il sale agiscono come “batteria” per le cellule: il glucosio fornisce il rifornimento di combustibile ai mitocondri, mentre l’equilibrio di sodio nel liquido interstiziale permette la produzione di energia e la respirazione adeguata delle cellule.

 

Quando sentiamo “bandire” dalla nostra alimentazione zucchero e sale, è bene ricordarsi quindi che queste due sostanze nutrienti possono anche essere utilizzate come potenti strumenti terapeutici per gestire lo stress. Inoltre, sfatiamo il mito che lo zucchero causa iperattività, questa è una falsa credenza! Quando viene utilizzato come strumento terapeutico, il cibo in questo modo ha l’effetto opposto. Quindi, se sei tra coloro che sentono spesso l’adrenalina in circolo nel corpo e questo ti impedisce di dormire, una combinazione di zucchero e sale può essere un fantastico salva-vita.

LA RICETTA MAGICA

La combinazione di dolce e salato aiuta in modo ottimale il bilanciamento e il funzionamento dell’ormone dello stress, spiega Matt Stone. Come fare questa polvere “ipnotica”? Il rapporto di sale e zucchero, consigliato dal ricercatore Matt Stone, è di 1: 5. E’ consigliabile usare sale marino non raffinato (meglio ancora sale dell’Himalaya) e zucchero grezzo integrale di canna o muscovado tipo rapadura. Se non ce l’hai in casa, sale comune e zucchero raffinato potranno comunque esserti di aiuto in “caso di emergenza”. Mescola 5 cucchiaini di zucchero e 1 cucchiaino di sale e mettili in un barattolo di vetro. Questo composto non durerà molto a lungo. Prima di dormire (o quando ti svegli durante la notte), agita la bottiglia e con un cucchiaino (o le dita) metti sotto la lingua una piccola presa di sale e zucchero che può essere facilmente sciolta. Matt Stone ha definito questa miscela “polvere magica per dormire”, una polvere magica che ti libererà dall’insonnia!

 
 
 

incomunicabilità

Post n°228 pubblicato il 19 Giugno 2015 da orkelio
 

E´ inevitabile: tutti conosciamo molto bene la situazione. Lei esagera, lui minimizza, lei sbotta, lui si chiude a riccio e non parla piú. La comunicazione del mondo femminile é molto diversa da quella maschile.

 

Dopo la giornata lavorativa

Qual é il momento della giornata in cui si accumola piú stress? Solitamente viene fatto coincidere dagli studiosi con il termine della giornata lavorativa, dopo le 8 ore passate dietro alla scrivania con il capo che incalza e il collega ammalato.

Anche in questi casi la reazione é agli antipodi: la donna non vede l´ora di tornare a casa per raccontare l´accaduto, fin nei minimi dettagli, al partner, cercando approvazione, consolazione e vicinanza con il suo ascoltatore. L´uomo invece, tende a non voler condividere i propri problemi ma dopo il carico lavorativo della giornata, appena arrivato a casa cerca “svaghi” in cui liberare la mente e non dover pensare. Essi possono essere una lettura di un libro, un film, l´ascolto di un CD in poltrona. In ogni caso, le due reazioni sono spesso incompatibili e si finisce per litigare.

 

L´approccio ai problemi

E´ stato confermato dalla neuroscienza: il cervello femminile e quello maschile non hanno la stessa conformazione, per questo spesso si comportano in modo opposto. Soprattutto nell´approccio ai problemi.

Davanti al problema, l´uomo tente a volerlo risolvere tramite un approccio costruttivo, realistico e finalizzato alla ricerca di una soluzione, mentre le donna vorrebbe innanzitutto parlarne e instaurare una connessione con il partner sapendo di poter contare su di lui: vuole essere capita e confortata.

Questo é il motivo per cui possono a volte sorgere dei diverbi infiniti nella risoluzione dei problemi comuni: le donne vogliono sentirsi vicine e cercando di creare intimitá grazie alla comunicazione, dialogo e condivisione. Molti uomini, invece non si trovano a proprio agio condividendo esperienze negative e spesso si possono trovare oppressi.

 

Il compromesso

Come ovviare a tutto ció? Per le donne é utile innanzitutto capire gli spazi di cui l´altro puó avere bisogno e concederglieli. Allo stesso tempo é importante non limitare i propri bisogni e fare capire all´altro quando si ha voglia di esternare, cosí che volta finita la partita alla playstation o la birra davanti alla tv, lui sará ben disposto e tutto orecchi per voi. Allo stesso modo non create falsi allarmismi e problemi dove non ci sono, non é salutare alla vita di coppia.

Per gli uomini, dall´altro lato, é necessario essere buoni ascoltatori e semplicemente “esserci” per la propria compagna: ascoltare il problema di lavoro, il diverbio con l´amica senza sminuire né criticare. Essere il suo alleato e non farla sentire sola nella sua piccolo battaglia quotidiana.

Le relazioni in fondo sono un grande compromesso di due persone innamorate.

 
 
 

VIOLE BIANCHE

Post n°227 pubblicato il 03 Aprile 2015 da orkelio

La vita è fatta di piccole felicità insignificanti, simili a minuscoli fiori. Non è fatta solo di grandi cose, come lo studio, l’amore, i matrimoni, i funerali. Ogni giorno succedono piccole cose, tante da non riuscire a tenerle a mente né a contarle, e tra di esse si nascondono granelli di una felicità appena percepibile, che l’anima respira e grazie alla quale vive. (Banana Yoshimoto, Un viaggio chiamato vita

aprile nel bosco, castagni secolari

Sono bastati due giorni di sole, appena due, perché si risvegliasse il bosco, dopo un lungo inverno di neve e un inizio di primavera con l’emergenza frane. Sono bastati due giorni per riprendere da subito l’abitudine a due passi dopo pranzo nel bosco, godendo della luce un po’ tiepida che l’inverno ci aveva fatto dimenticare.
Nel nostro girovagare di oggi mi è tornato in mente questo romanzo di Banana Yoshimoto, in cui le piante sono evocative di ricordi e riflessioni, di piccole felicità infine.

Quando la vita, come il bosco, sembra spoglia, non ancora al livello dei nostri desideri, basta guardarla un po’ più da vicino, muovere qualche foglia, osservare i dettagli.

primula vulgaris tra le foglie secche

Ecco che allora appariranno le prime piccole macchie gialle delle primule. Sì, perché le primule selvatiche (Primula vulgaris L.) sono tutte gialle. Dopo che ne vedi tante, sono quasi monotone.

primula vulgaris - particolare

Se le guardi proprio da vicino, se ci infili il naso e le osservi bene, sono di tre gialli diversi, con una virgola di arancio. Piccole cose. Cose minuscole.

Viola mammola (Viola odorosa L.)

Sarà forse un po’ meno facile intravedere qualche viola mammola (Viola odorata L.) che si risveglia, ma basta avvicinarsi ai piedi dei vecchi castagni o sulle rive di qualche fosso, torrente, guardare bene tra il muschio ed eccole lì, a ristabilire l’equilibrio della stagione, a dirci che è ora di uscire, che arriverà il caldo tra un poco.

viola bianca (Viola alba Besser (incl. subsp. scotophylla (Jord.) Nyman)

E lo stupore nel notare da lontano, per un repentino raggio di sole proprio nel momento in cui si passa, che illumina una piccola scarpata dove qualcosa di bianco spunta…

viola bianca (Viola alba Besser (incl. subsp. scotophylla (Jord.) Nyman)

Un piccolo gruppo di viole bianche (Viola alba besser) si sono fatte largo nel sottobosco insieme alle prime foglie di fragoline selvatiche. Ma anche loro, solo bianche? Bianche, crema e lilla, a guardarle bene. Più sfumature, una ricchezza che si può osservare solo fermandosi e non frenando la meraviglia.

erba perla - Buglossoides purpurocaerulea (L.) Johnst. Lithospermum purpurocaeruleum L.

Un po’ più in là, quando siamo quasi certi di trovare solo primule e violette, ci appare un gruppetto di erba perla (Lithospermum purpurocaeruleum L.).

erba perla - Buglossoides purpurocaerulea (L.) Johnst. Lithospermum purpurocaeruleum L.

L’erba perla è una tavolozza di colori. Nasce dal suo bocciolo quasi porpora, muta in fucsia per diventare poi azzurra e blu, viola nei terreni più acidi. Un piccolo miracolo di mutazione, di diversità di colori sullo stesso stelo, di capacità di mantenere decine di sfumature in un’unica vita.

Volendo osservare le piccole cose, si trovano. Altrimenti sfuggono. Quando le cose migliori sembrano ancora lontane, è il momento di sforzarsi per guardare dove sono i nostri piedi. Solo così potremo notare che in mezzo a quel che sembra ancora un nulla, tra pagliuzze secche e pezzi di cortecce, c’è un piccolo tutto, coraggioso e solenne. Anche se si fatica a vederlo, anche se un filo d’erba è più grande di un anemone epatica (Hepatica nobilis L.), trovare la prima nella sua minuscola perfezione, è un tuffo al cuore ogni primavera.

Usciamo dal bosco incrociando sotto i faggi qualche gruppo di elleboro (Helleborus bocconei Ten. s.l.). Il sole li illumina trasformandoli in piccole lanterne luminose che ondeggiano lentamente nel vento di aprile.

Pareva non ci fosse ancora niente nel bosco, ma fermandosi, regalandosi il tempo per osservare, i primi piccoli tesori erano lì. Non serve desiderare le fioriture di maggio, se ci si prende il tempo per assaporare aprile.

 
 
 

LA CANAPA UNA RISORSA PULITA PER UN'ECONOMIA SOSTENIBILE

Post n°226 pubblicato il 19 Febbraio 2015 da orkelio
 
Tag: canapa

Si parla sempre molto di ambiente, ma se ne parla anche molto a sproposito. Infatti, nonostante i tanti dibattiti, quando c'è una possibilità di sostituire il petrolio con materie prime naturali e rinnovabili, nessuno se ne accorge (così come nessuno si è mai accorto del più grande sperpero di risorse energetiche della Storia, quello del metano). Certo, è molto difficile oggi immaginare un'economia sviluppata che possa fare a meno del petrolio, dei milioni di alberi abbattuti ogni anno per fare la carta, e dei prodotti dell'industria chimica. Ed è altrettanto difficile immaginare una società affluente senza le montagne di rifiuti, l'inquinamento e gli altri danni all'ambiente a cui siamo da tempo abituati.

Eppure una concreta e fondata speranza esiste: questa speranza ci viene dalla canapa. Con le materie prime della canapa si possono produrre, in modo pulito ed economicamente conveniente, tessuti, carta, plastiche, vernici, combustibili, materiali per l'edilizia ed anche un olio alimentare di altissime qualità. La canapa è stata, tra le specie coltivate, una delle poche conosciute fin dall'antichità sia in Oriente che in Occidente. In Cina essa era usata fin dalla preistoria per fabbricare corde e tessuti, e più di 2000 anni fa è servita per fabbricare il primo foglio di carta. Nel Mediterraneo già i Fenici usavano vele di canapa per le loro imbarcazioni. E nella Pianura Padana la canapa è stata coltivata per la fibra tessile fin dall'epoca romana. Ma quali sono le materie prime della canapa, e quali prodotti se ne possono ottenere? 

MATERIE PRIME - La canapa è una pianta dal fusto alto e sottile, con la parte sommitale ricoperta di foglie, e può superare i 4 metri d'altezza. La parte fibrosa del fusto si chiama "tiglio" e la parte legnosa "canapolo". La canapa può essere coltivata per due scopi principali: per la fibra tessile o per i semi. Se si coltiva la canapa per la fibra tessile il raccolto va fatto subito dopo la fioritura, e si possono ottenere fibre tessili (20 %), stoppa (10 %) e legno o canapolo(70 %). Se invece si coltiva la canapa per i semi, la parte fibrosa o tiglio è interamente costituita da stoppa, cioè da fibra di qualità inferiore inadatta per l'uso tessile, ma che può sostituire la maggior parte delle fibre industriali. Una importante caratteristica della pianta di canapa è la sua produttività. E' una delle piante più produttive in massa vegetale di tutta la zona temperata: una coltivazione della durata di tre mesi e mezzo produce una biomassa quattro volte maggiore di quella prodotta dalla stessa superficie di bosco in un anno. Molti contadini vogliono riprendere a coltivare la canapa se non altro perchè, data la sua velocissima crescita, essa sottrae la luce e soffoca tutte le altre erbe presenti sul terreno, e lo libera quindi da tutte le infestanti meglio di quanto non sappiano fare i diserbanti. 

Ecco che cosa si può ricavare da queste materie prime.
TESSUTI - La pianta di canapa, più produttiva in fibra tessile del cotone, oggi può essere lavorata in impianti che sostituiscono le lunghe e faticose lavorazioni manuali di un tempo. La sua coltivazione richiede pochi pesticidi e fertilizzanti, mentre il cotone specialmente di pesticidi ne richiede moltissimi. Inoltre la fibra della canapa è molto più robusta e dura più a lungo. Attualmente può essere lavorata in modo da renderla sottile quanto si vuole, e viene proposta in sostituzione del cotone e delle fibre sintetiche.
SEMI E OLIO - La canapa, oltre che per la fibra tessile può essere coltivata per ricavarne i semi. I semi di canapa contengono proteine di elevato valore biologico nella misura del 24 %, ed un olio nella percentuale dal 30 al 40 %. Per il loro valore nutritivo i semi di canapa sono stati proposti come rimedio alla carenza di proteine dei paesi in via di sviluppo.
Le qualità dell'olio di canapa sono eccezionali. E' particolarmente ricco di grassi insaturi ed è l'ideale per correggere la dieta dell'uomo moderno e per prevenire le malattie del sistema cardiocircolatorio. Altrettanto straordinarie sono le proprietà di questo olio per gli usi industriali: non a caso è stato paragonato all'olio di balena. Le vernici fabbricate con questa materia prima, oltre a non essere inquinanti, sono di qualità incomparabilmente superiore rispetto a quelle prodotte con i derivati del petrolio. Con l'olio di canapa si possono inoltre fabbricare saponi, cere, cosmetici, detersivi (veramente biodegradabili), lubrificanti di precisione ecc.
CARTA - Una volta estratta la fibra tessile o dopo aver raccolto di semi, rimangono la stoppa più la parte legnosa o canapolo, che non si possono considerare solo un semplice sottoprodotto, ma un'altra importante materia prima. Con la stoppa si può fabbricare carta di alta qualità, sottile e resistente. Con le corte fibre cellulosiche del legno si può produrre la carta di uso più corrente, come la carta di giornale, i cartoni ecc.
Fare la carta con la fibra e il legno della canapa comporta importanti vantaggi: innanzitutto per la sua enorme produttività in massa vegetale, e poi perchè la si può ottenere da un'unica coltivazione insieme alla fibra tessile o ai semi.
Un altro grosso vantaggio della canapa è costituito dalla bassa percentuale di lignina rispetto al legno degli alberi, che ne contengono circa il 20 % anzichè il 40 %. 
Attualmente le grandi cartiere utilizzano solo il legname degli alberi. Il processo per ottenere le microfibre pulite di cellulosa, e quindi la pasta per la carta, prevede l'uso di grandi quantità di acidi che servono per sciogliere il legno. Questa operazione, ad un tempo costosa ed inquinante, non è necessaria con la carta di canapa ottenuta dalla sola fibra, e per quanto riguarda il legno di acidi ne servono meno della metà. Inoltre la fibra e il legno della canapa sono già di colore bianco e la carta che se ne ottiene è già stampabile. E per renderla completamente bianca è sufficiente un trattamento al perossido di idrogeno (acqua ossigenata), invece dei composti a base di cloro necessari per la carta ricavata dal legno degli alberi. Questi composti chimici sono una delle cause principali dell'assottigliamento dello strato di ozono nell'alta atmosfera.
TAVOLE - Con i fusti interi della canapa, pressati con un collante, si possono fabbricare tavole per l'edilizia e la falegnameria in sostituzione del legno, che sono di grande robustezza, flessibilità ed assai più leggere.
MATERIE PLASTICHE - Con la cellulosa di cui la pianta è ricca, attraverso un processo di polimerizzazione, si possono ottenere materiali plastici pienamente degradabili che, se in molti casi non possono competere con le sofisticate materie plastiche di oggi, hanno comunque fin dall'inizio una serie di usi importanti per imballaggi, isolanti e così via.
COMBUSTIBILI - La canapa, per la sua alta resa in massa vegetale, è considerata anche la pianta ideale per la produzione di combustibili da biomassa in sostituzione dei prodotti petroliferi. Bruciare combustibili da biomassa anzichè petrolio non fa aumentare l'effetto serra. Infatti l'anidride carbonica viene prima sottratta all'atmosfera durante la crescita della pianta, e poi restituita all'aria al momento della combustione. In questo modo la quantità di anidride carbonica dell'atmosfera non aumenta, al contrario di quello che succede se si bruciano idrocarburi fossili. 

Se è vero che con la canapa si possono produrre tutte le cose elencate sopra (e tante altre ancora), come mai le proprietà di questa pianta sono così poco conosciute e così poco sfruttate?
Essenzialmente perchè da troppo tempo si è smesso di coltivarla.
In Italia la canapa era coltivata al Nord principalmente per la fibra tessile, ed in Campania per i semi. Nella Pianura Padana la coltivazione della canapa è cessata a poco a poco negli anni Cinquanta, perchè non più conveniente rispetto al cotone e alle fibre sintetiche. Anche la coltivazione della canapa nel Meridione è cessata più o meno negli stessi anni.
Negli Stati Uniti la produzione di vernici con olio di canapa era molto sviluppata fino al 1937 quando, molto prima che in Italia, la legge ha proibito la coltivazione della canapa insieme con la marijuana. Nel nostro paese invece la legge contro la marijuana è intervenuta quando già da tempo la coltivazione della canapa era stata abbandonata. A questo proposito però bisogna osservare che, anche se botanicamente si tratta sempre di "cannabis sativa", dalle varietà ottimizzate per la produzione di fibra e semi non è possibile ricavare la droga.
Di fatto questa lunga interruzione della coltivazione rende difficile oggi il suo rilancio.
Le modalità di coltivazione devono essere di nuovo messe a punto, ed anche i processi di lavorazione della materia prima devono essere riprogettati. 
Per molte ragioni non sono più proponibili le lunghe e pesanti lavorazioni manuali collegate con l'estrazione della fibra tessile, che del resto avevano già portato la canapa fuori mercato qualche anno fa. Sono necessarie nuove tecnologie. Per esempio la macerazione per il distacco della fibra dovrà essere fatta in appositi impianti ai quali i contadini conferiranno il prodotto dopo averlo essiccato. Questi impianti si possono già costruire, i processi sono stati quasi completamente individuati. E' necessario assemblare l'intera filiera che va dal produttore agricolo al prodotto finito, ed avviare il meccanismo. Il contadino non può mettersi a produrre la canapa se non c'è un impianto che la può lavorare, e non si può far lavorare l'impianto nuovo di zecca se i contadini non lo riforniscono della materia prima. 
Esistono però già fin d'ora molti fattori che premono perchè la macchina produttiva si metta in movimento. Sia in Europa che nel Nord America i coltivatori sono da tempo alla ricerca di nuove colture che possano ampliare il mercato in settori diversi da quello alimentare. Anche la C E E è interessata a promuovere coltivazioni a destinazione non alimentare, ed ha individuato nella canapa una delle colture più interessanti. Per questo ha deciso di sovvenzionare i coltivatori di canapa e di sostenere la ricerca per mettere a punto i processi di lavorazione.
Questi sono segni che, anche al di là di considerazioni di carattere ambientale, c'è tutto un mondo dell'economia che si sta spostando verso una produzione basata su materie prime naturali e riciclabili, sostitutive del petrolio e dei suoi derivati.
Anche il mercato è pronto a ricevere i prodotti della canapa. Esistono già ora centinaia di ditte in tutto il mondo che, usando materie prime provenienti dai paesi che non hanno mai interrotto la coltivazione (come l'Ungheria), fabbricano numerosi articoli a base di canapa: tessuti e capi d'abbigliamento, olio dei semi e prodotti alimentari che li contengono, saponi, cosmetici, vernici, carta, detersivi, tavole ed altri materiali per l'edilizia, legni compensati, oggetti d'arredamento ecc.
Alcune di queste ditte hanno visto il loro fatturato crescere anche del 500 % in un solo anno. Ma nonostante ciò la domanda continua ad essere superiore all'offerta, ed i prezzi spesso sono alti. Alcuni prodotti poi, come i tessuti, sono praticamente introvabili.
Tutto questo è la dimostrazione che il rilancio della canapa alla fine sarà sostenuto dal mercato, ovvero da un'opinione pubblica consapevole del fatto che la canapa può risolvere parecchi dei problemi ambientali che ci assillano. Ma è anche la dimostrazione che i tempi sono maturi per passare finalmente a produzioni su vasta scala. Ciò che frena attualmente lo sviluppo di questo settore e gli entusiasmi dei consumatori sono infatti proprio le limitate disponibilità di materie prime.
E in Italia a che punto è la situazione? Come al solito l'Italia segue, e all'ultimo posto.
Virtualmente nel nostro paese ancora non esistono ditte che producano o vendano prodotti di canapa.
Anche sul piano culturale o semplicemente informativo l'Italia è ancora molto indietro. Lo dimostra il fatto che il principale sito italiano su Internet (piuttosto modesto) per documentarsi su questo argomento è ancora quello di un volonteroso privato che è anche l'autore di questo articolo. 
Ma esiste ora anche il sito Internet dell'ASSOCANAPA, punto di riferimento indispensabile per tutti gli agricoltori interessati alla canapa, che contiene già molte informazioni di carattere agronomico 
Ugualmente indispensabile per chiunque voglia approfondire ulteriormente l'argomento è anche un volume pubblicato nel febbraio 1998. Si tratta di un testo scritto da ricercatori italiani che fa il punto su tutto quello che è stato fatto e su quello che bisogna ancora fare in Italia per riprendere a coltivare questa benedetta pianta. (CANAPA: IL RITORNO DI UNA COLTURA PRESTIGIOSA - Nuove produzioni di fibra e cellulosa di Paolo Ranalli e Bruno Casarini edito da Avenue Media di Bologna).

 
 
 

CARTA, nuova vita

Post n°225 pubblicato il 16 Febbraio 2015 da orkelio
 

Energia solare dalla carta da parati: l'ultima novità arriva dalla Finlandia

Read more: http://it.ibtimes.com/articles/75860/20150216/carta-parati-solare-foglie-pannelli-fotovoltaico-organico-finlandia.htm#ixzz3RwaZJehY

Di Alessandro Martorana | 16.02.2015 20:22 CET

Antti Veijola
La carta da parati è solitamente fonte di grandi discussioni in famiglia: metterla
o non metterla? E se sì, quale scegliere? Dalla Finlandia potrebbe essere in
arrivo una soluzione potenzialmente in grado di ridurre le diatribe casalinghe, se
non altro perché potrebbe consentire notevoli risparmi in bolletta: si tratta infatti
di una carta da parati solare.

La novità arriva dagli ingegneri del VTT Technical Research Centre of Finland, un'organizzazione non-profit di Espoo (la città della Nokia) che rappresenta

uno dei più grandi enti di ricerca tecnologica del Nord Europa. Il loro ultimo ritrovato è un pannello solare

flessibile e riciclabile a forma di foglia.

Gli scienziati finlandesi hanno stampato questi pannelli su una pellicola molto

sottile (circa 2 millimetri), in grado di essere applicata come una carta da

parati e di generare corrente elettrica sfruttando l'illuminazione interna o

la luce proveniente dall'esterno. L'innovazione principale di VTT risiede nella

tecnologia di produzione, che permette la riproduzione in grande quantità di

questi pannelli solari organici (OPV).

Antti Veijola
Antti Veijola

Oltre agli elettrodi ed agli strati polimerici necessari per raccogliere energia dalla

luce, le "foglie" possono essere decorate per rendere al meglio come

carta da parati. Ad ogni modo, questo è soltanto uno dei possibili utilizzi di

questa tecnologia, che può essere sfruttata anche su delle finestre, o sui

cartelloni pubblicitari.

La superficie attiva di una singola foglia solare è di 0,0144 metri quadri, e di

conseguenza un foglio con 200 di questi mini-pannelli fotovoltaici organici

potrebbe essere in grado di generare, secondo quanto dichiarato dagli ingegneri

di VTT, 10,4 watt di potenza se posti a latitudini mediterranee. Potrebbero

quindi rappresentare un'ottima soluzione dalle nostre parti, dove il Sole

certo non manca.

L'ente finlandese sta ora passando dalla fase-pilota al tentativo di

commercializzazione. Anche se non si è ancora parlato di possibili prezzi,

la produzione di questa carta da parati solare è piuttosto economica,

anche grazie alla limitata quantità di scarti di lavorazione ed alla possibilità di

riciclare le foglie quando queste hanno esaurito il proprio ciclo di vita.

 
 
 

pneumatici invernali

Post n°224 pubblicato il 26 Novembre 2014 da orkelio

Nonostante la diffusione e il fatto che siano ormai diventate abbastanza familiari, quando si parla di gomme invernali ci sono sempre alcuni pregiudizi e luoghi comuni duri a morire. Ne è convinta la Delticom, (la società tedesca leader nella vendita delle gomme online con il marchio gommadiretto.it.) che ne ha individuati cinque. Eccoli:

I pneumatici invernali vanno bene solo in caso di ghiaccio e neve. Dato per scontato che diano il meglio di sé in condizioni difficili, offrono però prestazioni interessanti anche a temperature comprese tra gli zero e i sette gradi, un intervallo tipico degli inverni italiani. E più si abbassa la temperatura, più aumenta il vantaggio sulle estive.

Non sono indispensabili per uso prevalentemente cittadino. Anche se le precipitazioni nevose sono, nel nostro Paese, mediamente inferiori rispetto al Nord-Europa, il problema del gelo e delle piogge non va comunque sottovalutato, nemmeno in città. Persino nei centri urbani, basta un po’ di neve per rendere davvero difficoltosa la circolazione.

Il battistrada invernale è rumoroso e fa aumentare i consumi. Poteva essere vero 20 anni fa: le gomme invernali moderne non hanno nulla da invidiare in termini di confort alle omologhe estive. E nemmeno quello dei consumi è più un problema dato che le carcasse e i battistrada sono ottimizzati anche in funzione di questo.

Le gomme invernali causano alti costi aggiuntivi. Se si guarda al solo fatto di possedere due treni di ruote completi, ovviamente c’è un aggravio di costi. Ciò che invece viene spesso trascurato è che i chilometri percorsi dall’automobilista, essendo spalmati appunto su due treni, riducono la frequenza con cui bisogna cambiare le gomme. Come dire: il maggior costo viene in parte compensato dai vantaggi.

Con le invernali bisogna andare piano. I moderni pneumatici in commercio sono in grado di soddisfare anche i requisiti delle vetture più potenti, quelle, per intenderci, omologate con codici di velocità H (fino a 210 km/h) e V (fino a 240 km/h). Nessun limite tecnico, dunque, ma niente di meno di ciò che impone il Codice della strada e il buon senso.

 
 
 

SCHWERTA

Post n°223 pubblicato il 16 Novembre 2014 da orkelio
 

AKAKOR: IL MONDO PERDUTO

Nella giungla amazzonica fra Perù, Brasile e Venezuela sopravvivono nascoste tribù sconosciute di indios bianchi che dicono di discendere dagli extraterrestri. Tra verità e leggenda, questa è la cronaca di un mondo perduto, dalla notte in cui gli dei arrivarono da Schwerta.

Alfredo Lissoni

"Ero proprio in Venezuela, ai confini dell’Amazzonia colombiana, l’anno in cui la notizia rimbalzò su tutti i giornali brasiliani. Si trattava di questo: erano state avvistate, da due passeggeri di un bimotore che stava sorvolando la zona, tre piramidi di più di cento metri d’altezza, disposte in forma triangolare e situate sull’estesissima frontiera del Brasile. Su questa "bomba" giornalistica si erano buttati anche Erich Von Daeniken e Jacques Cousteau". A parlare è la linguista ed archeologa dilettante basca Mireille Rostaing Casini che, nel suo libro "Archeologia misteriosa" (1) racconta: "E la storia non finiva qui. Ai primi del 1979 erano state fotografate da un aereo dodici piramidi, grandissime, nella foresta del dipartimento peruviano di Madre de Dios, anch’esso confinante con il Brasile. Queste fotografie le mostrano in collocazione simmetrica, le une vicine alle altre, in due file di sei. Le piramidi si trovano in una regione dove si pensa sia esistito un grandissimo e potente impero, detto del Gran Paititì, e di cui non si sa praticamente nulla se non che nel suo territorio si trovavano enormi ricchezze in oro ed una grande quantità di tesori nascosti. Un indio mi disse che in questa zona esiste un passaggio nella collina denominata Tampu-Tocco, attraverso il quale si passa ad altri mondi situati nelle viscere della terra".

IL MISTERO DI PANTIACOLLA

La storia delle dodici piramidi del Gran Paititì scatena da anni polemiche infuocate. Diversi esponenti dell’archeologia e della scienza ufficiale, in testa lo stimatissimo geologo brasiliano Aziz Nacib Ab’Saber, ritengono trattarsi soltanto di curiose formazioni rocciose, coperte di vegetazione (2). Di diverso parere sono stati due esploratori dilettanti italiani, l’ormai scomparso Mario Ghiringhelli e suo cugino, il milanese Marco Zagni. "Nell’estate del 1979 mio cugino Mario, provetto esploratore, si trovava in Perù quando seppe da una radioamatrice di Lima che il Radio Club Peruviano di Cuzco aveva perso i contatti con una spedizione francese avventuratasi nel dipartimento di Madre de Dios", ci ha raccontato Zagni. "Non era questo il primo caso. Tutte le spedizioni che si erano avventurate in quella zona, alla ricerca di una sperduta città precolombiana, erano scomparse misteriosamente. Nel caso dei francesi, l’ultimo messaggio da questi inviato diceva: ‘Siamo attaccati da una tribù sconosciuta di indios bianchi, alti almeno due metri’. Ora, io non ho mai sentito parlare di giganti bianchi in Amazzonia, almeno nei testi canonici, in quanto nel folklore sudamerindio esistono da secoli leggende di questo tipo. L’episodio di Madre de Dios sembrava proprio confermare simili dicerie. E non solo. Dopo questi fatti, io e mio cugino abbiamo condotto molte ricerche d’archivio ed abbiamo scoperto che l’episodio si era verificato in una zona fluviale, quella di Pantiacolla, ove, nel 1975, i satelliti meteo Landsat avevano identificato un’area piana, ellittica, al cui interno si notavano dodici strutture piramidali in fila. Per gli archeologi esse sono solo curiose formazioni naturali, ma io non la penso così. Del resto, nessuno è mai andato a controllarle di persona, eccezion fatta per il frettoloso sorvolo a bordo di un elicottero, da parte di uno studioso italiano".

GLI INDIOS BIANCHI

Esiste dunque, nel cuore dell’Amazzonia, una civiltà perduta, forse nemmeno umana, legata al culto delle piramidi? Piramidi, come sottolinea la Rostaing Casini viste le foto, non di tipo azteco ma egizio? É difficile sostenerlo, ma da un nostro collaboratore, il fisico salvadoregno Luis Lopez spesso a spasso per le Americhe, abbiamo ottenuto ulteriori elementi. "Durante alcune mie ricerche in Salvador", ci ha raccontato Lopez nel maggio del 1993, prima ancora che Zagni riesumasse l’episodio di Pantiacolla, " ho incontrato un archeologo italiano, Mario P., che da anni lavora in Perù. Quest’uomo, appartenendo all’establishment scientifico uffiale e temendo il ridicolo, ha preteso l’anonimato (ma noi abbiamo tutti i suoi dati, n.d.A.); mi ha raccontato di avere visto degli UFO nella zona e di avere scattato delle foto a certe bruciature circolari; Mario ha aggiunto che questi fenomeni sono ricorrenti nella foresta amazzonica al punto che gli indios, affatto spaventati, hanno ribattezzato i visitatori spaziali ‘gli incas’, intesi come appartenenti ad una razza superiore, di signori, come sono considerati gli antichi incas".

"Non solo", prosegue Lopez. "L’archeologo ha anche scoperto una serie di scheletri umani lunghi due metri, appartenenti ad una razza sconosciuta. Questa scoperta è per ora mantenuta top secret e non so se e quando essa verrà divulgata".

Non finisce qui. La vicenda degli indios bianchi è confermata anche da un altro esploratore, il professor Marcel Homet, archeologo, paleontologo, antropologo ed etnologo francese. Quest’ultimo, durante l’esplorazione dell’Amazzonia brasiliana, nella zona dell’Urari-Coera, si era imbattuto in due indios sbucati dalla foresta. "Senza alcun preavviso", scrisse Homet (3), "la cortina di foglie della giungla si aperse e ci apparvero due indios bellissimi. Ci studiavano con attenzione, infastiditi dal fatto che puntassimo loro contro i nostri fucili. Ebbi agio di osservarli attentamente. Erano esseri umani di forme bellissime. Dove avevo visto degli esseri simili? Ma certo, in Arabia! I nasi aquilini, le fronti spaziose, gli occhi grandi, spalancati, ed il colore chiaro della pelle...Erano uomini di razza bianca, veri mediterranei, progenitori, contemporanei o parenti di questa razza".

I due indios vennero in seguito identificati da una delle guide del professor Homet come Waika, membri di una tribù assai poco conosciuta, "pericolosi e crudeli combattenti" che avevano la "curiosa" usanza di rapire donne dalla pelle bianca con cui accoppiarsi, forse per preservare il colore della loro pelle, oltremodo insolito in quelle regioni selvagge.

Anche un altro celebre esploratore d’inizio secolo, il colonnello inglese Percy Fawcett conferma, nel suo diario (4), dell’esistenza di indios amazzonici dalla pelle bianca. "A Jequie, un centro piuttosto grande che esportava cacao a Bahia, un vecchio negro di nome Elias José do Santo, ex ispettore della polizia imperiale, mi raccontò di indiani dalla pelle chiara e dai capelli rossi che vivevano nel bacino del Gongugy, e di una "città incantata" che trascinava sempre più avanti l’esploratore, finché svaniva come un miraggio. Seppi poi dei Molopaques, una tribù scoperta a Minas Gerais in Brasile nel secolo XVIIº; avevano la pelle chiara e portavano la barba; le loro donne avevano capelli biondo oro, bianchi o castani, piedi e mani piccoli, occhi azzurri".

COLONIZZATORI DA SCHWERTA

Ma come erano arrivati dei bianchi nel cuore della foresta amazzonica? La risposta la troviamo in un altro libro, la "Cronaca di Akakor" del giornalista e sociologo bavarese Karl Brugger (tanto per cambiare, assassinato in circostanze misteriose nel 1984). Brugger conobbe bel 1972 a Manaus, in Brasile, il capo indio Tatunca Nara, a suo dire discendente di una mitica tribù "spaziale", gli Ugha Mongulala.

Secondo il racconto di Tatunca Nara, i Mongulala vivevano nel cuore dell’Amazzonia, sin dalla notte dei tempi, "in piccoli gruppi, in caverne e grotte, camminando carponi". Poi, nell’anno 13500 a.C. del nostro calendario, "erano giunti gli Dèi. Essi portarono la luce".

"Gli stranieri", ha raccontato il capo indio a Karl Brugger, "apparvero all’improvviso nel cielo su brillanti navi d’oro. Segnali di fuoco illuminarono la pianura; la terra tremava ed il tuono risuonava sulle colline. Gli uomini si prostrarono con stupore e profondo rispetto davanti ai potenti stranieri, che vennero ad impossessarsi della terra".

"Gli stranieri dissero che la loro patria si chiamava Schwerta, un mondo lontano nella profondità del cosmo. A Schwerta viveva la loro gente, ed essi erano partiti di là per visitare altri mondi, e portarvi la loro scienza".

I SIGNORI ANTERIORI

"Schwerta", prosegue Tatunca Nara, "era un immenso impero, formato da mondi numerosi come i granelli di polvere di una strada. I visitatori ci dissero che ogni seimila anni i due mondi, quello dei nostri Primi Maestri e la nostra terra, s’incontreranno. E che allora gli Dei torneranno.

"Dovunque sia e qualsiasi forma abbia Schwerta, con l’arrivo di questi visitatori dal cielo cominciò sulla terra l’Età dell’Oro". I Maestri, come vennero prontamente ribattezzati dagli indios, "vennero sulla terra con 130 famiglie, per liberare gli uomini dall’oscurità. E loro accettarono e riconobbero gli uomini come fratelli. I Maestri fecero stabilire le tribù nomadi e divisero lealmente ogni frutto della terra. Pazientemente e senza stancarsi, ci insegnarono le loro leggi, anche se gli uomini facevano resistenza, come bambini ostinati. Per questo loro amore verso gli uomini, per tutto quello che diedero ed insegnarono noi li veneriamo come i nostri portatori di luce. I nostri migliori artigiani riprodussero le loro immagini per testimoniare in eterno la loro grandezza. Così sappiamo come erano fatti i nostri Signori Anteriori".

"I Signori di Schwerta", racconta Tatunca Nara, "erano simili agli uomini. Il loro corpo esile ed i tratti del volto erano molto delicati. Avevano la pelle bianca ed i capelli neri con riflessi blu. Portavano una folta barba e come gli umani erano vulnerabili, perchè fatti di carne. C’era però un particolare segno fisico che li distingueva dagli abitanti della Terra: essi avevano alle mani e ai piedi sei dita (vi ricorda qualcosa?, n.d.A.). Questo era il segno dell’origine divina".

ALIENI, NON TERRESTRI

I Maestri, prosegue il capo indio, non erano terrestri. Tatunca Nara, nel ricostruire per Karl Brugger l’intera storia del suo popolo, divideva decisamente il periodo dell’arrivo dei visitatori spaziali (peraltro corrispondente, secondo alcune fonti, alla reale nascita della civiltà egizia) dal successivo arrivo di esploratori bianchi: i goti, nel 570 d.C., gli spagnoli, nel 1532, i nazisti, nel 1941. I Maestri "tracciarono canali e strade, seminarono piante nuove, sconosciute a noi uomini. Insegnarono ai nostri primitivi antenati che un animale non è solo una preda da cacciare, ma anche una preziosa proprietà, che allontana la fame. pazientemente trasmisero loro il sapere necessario per comprendere i segreti della natura. Sorretti da questi principi, gli Ugha Mongulala sono sopravvissuti per millenni a gigantesche catastrofi e guerre sanguinose".

Grazie agli Schwerta, gli Ugha Mongulala costruirono un impero che si estendeva dal Perù al Brasile al Mato Grosso (in questa regione scomprave Percy Fawcett, alla ricerca di una città perduta). I Maestri, prosegue Tatunca Nara, conoscevano le leggi dell’intero cosmo. Unendosi carnalmente con gli indios, generarono la tribù degli Ugha Mongulala, gli "alleati eletti". Costoro, eccezion fatta per le sei dita, nei tratti somatici ricordavano molto i visitatori.

Gli alieni costruirono diverse città, e molte piramidi, "un mezzo per raggiungere la seconda vita", sostiene Tatunca Nara.

GUERRE STELLARI

E un brutto giorno gli dei dovettero ripartire. Erano in lotta con un altro popolo dello spazio. "Nel 10481 a.C. gli Dei lasciarono la Terra", sostiene Tatunca Nara. "Le navi dorate dei nostri Primi Maestri si spegnevano nel cielo come le stelle. La fuga degli Dei gettò il mio popolo nell’oscurità. Fummo attaccati da esseri estranei simili agli uomini, con cinque dita ma con sulle spalle teste di serpenti, tigri, falchi e altri animali. Disponevano di una scienza avanzatissima che li rendeva uguali ai primi Maestri. Tra queste due razze di Dei scoppiò una guerra. Bruciarono il mondo con armi potenti come il sole. Ma la previdenza degli Dei salvò gli Ugha Mongulala dalla distruzione". I visitatori di Schwerta costruirono nel sottosuolo amazzonico tredici dimore sotterranee, disposte secondo la costellazione da cui provenivano. E convinsero gli indios a rifugiarsi dentro caverne scavate nella roccia, e murate dall’interno. Con questo espediente gli indios sarebbero scampati alle devastazioni planetarie scatenate dalle lotte fra dei, come pure a successivi cataclismi e perfino all’avanzata dei conquistadores.

Questo elemento mi è stato in parte confermato da un’esploratrice italiana che ha condotto diverse spedizioni in Perù, la milanese Elena Bordogni. "Durante una spedizione", mi ha raccontato, "incappammo in un camminamento che costeggiava una montagna e che fiancheggiava un burrone. Sul sentiero si vedevano, pietrificate, le orme dei piedi dei sacerdoti che anticamente percorrevano quella via. Con grande sorpresa ci accorgemmo che ad un certo punto il sentiero si interrompeva dinnanzi ad una parete liscia della montagna. Solo in seguito, scoprendo che le grotte erano state murate dall’interno, capimmo dove finissero quelle impronte di pietra". Si trattava delle grotte Mongulala.

Anche la Rostaing Casini ha scoperto, nelle tradizioni orali peruviane, testimonianze dell’improvvisa fuga e scomparsa degli Ugha: "Secondo le tradizioni dei mistici, circa 6000 anni or sono si sarebbe verificato un terribile cataclisma che avrebbe indotto una parte dei Mongulala a rinchiudersi nel fitto della foresta; altri avrebbero invaso i territori costieri dell’oceano Pacifico, sedi di civiltà preincaiche, per poi imbarcarsi verso ignoti lidi. Alcuni si sarebbero stanziati nell’Isola di Pasqua".

 
 
 
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