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Post n°3 pubblicato il 30 Dicembre 2008 da oscar3155

Cu fu che m’ammuttau

(Chi mi ha spinto)

Chi mi ha spinto a fare il cammino di Santiago? Una lunga scarpinata di 800 km?

La ragione non trova risposta, il cuore sì.

Sentivo forte il desiderio di trovarmi lontano dai soliti posti, dalle solite cose, per riflettere, cercare risposte ai tanti “perché” della vita….. della mia vita.

Così ho dato ascolto al mio cuore, ma anche al mio fisico ed ho cominciato a prepararmi allenandomi con regolarità sulla pista ciclabile Menfi-Porto Palo.

Per mesi mi sono messo alla prova, senza mai mollare, poi il 29 luglio di quest’anno mi sono ritrovato a Roncesvalles….stentavo quasi a crederci!

Il caldo della città era identico al nostro, ma  presto mi sono ritrovato all’interno di un bosco, dove la naturale frescura  e il soffice terreno, in leggera discesa, mi hanno fatto subito ben sperare: con un percorso di quel genere avrei potuto percorrere 50 km al giorno! Presto, però, mi son dovuto ricredere: dopo pochi chilometri mi ritrovavo su una strada di alta montagna, in salita,  senza l’ombra di un albero e con pietre ovunque.

Le sollecitazioni su legamenti, tendini e  muscoli degli arti inferiori si facevano sempre più forti e traumatiche: sentivo dolori alla pianta dei piedi, alle caviglie, alle ginocchia  ed anche alle spalle su cui  gravavano i 12 kg di zaino e ben presto ho visto la pianta dei piedi coprirsi di ben cinque vesciche, “ampollas”, come le chiamano qui.

La mattina mi svegliavo a fatica, pieno ancora di dolori per le fatiche del giorno precedente, il pensiero dei tanti km che avrei dovuto percorrere, quella strada poco in discesa e troppo spesso in salita e quella domanda che continuava a martellare il mio cervello: “Perché faccio questo cammino?” E immediata arrivava la risposta:

“Ultreria”, stavo facendo tutto  per “Ultreria” cioè per andare avanti…..andare oltre.

Sì, è proprio così, per che cos’altro ho fatto questo cammino se non per andare avanti?

Continuare ad andare avanti,in realtà, in modo diverso, cercando forze nuove.

 Ad andare avanti, del resto, ho imparato, con fatica, dopo la scomparsa della mia dolcissima ed insostituibile compagna, Maria.

Ho imparato a gestire il mio dolore, a tenere nella parte più profonda del mio cuore l’amarezza, ho stretto i denti, ingoiato le lacrime e sono andato avanti,senza mai mollare, affrontando, giorno dopo giorno, le mille difficoltà di un uomo, di un padre che non ha più accanto materialmente la sua compagna ma che da lei continua ad avere sostegno.

Sono sicuro che in qualche modo c’è il suo “zampino“ nella meravigliosa avventura che ho vissuto ed è a lei che ho offerto le fatiche e i dolori che ho sofferto in quei giorni…..

ed anche le gioie, i tanti momenti di allegria come quando mi ritrovavo insieme ad altri pellegrini. Ricordo, ad esempio, quando nella VI tappa, Los Arcos-Logroňo  di km 29, dopo aver già percorso 144, ho notato un uomo e una donna, ormai avanti negli anni che procedevano uno accanto all’altro, felici ed orgogliosi di essere vicini in quel momento e nella vita di ogni giorno. Devo ammettere di aver provato quasi invidia nei loro confronti e di questo mi vergogno, ma li ho anche molto ammirati!

E quanta allegria sui volti dei cinque tedeschi e delle loro mogli, mentre accettavano bonariamente i buffi soprannomi che avevo loro dato: “Nonostantetutto”, il “Buono”, “Cicciobello”, il “Filosofo”, il “Chimico”…. E capite  perché. “Santos nonostante tutto arrivé”, mi ripeteva il primo, ma tutti, proprio tutti erano molto più veloci di me….

Durante la marcia dovevo pensare a dosare le forze, non avevo nessuno con cui parlare, liberavo la mente, cercando il giusto equilibrio tra quella natura selvaggia e il mio “io”.

E in mezzo a quei luoghi mai visti prima, mentre il corpo era messo a dura prova, ho sentito forte il legame tra terra e Cielo, sensazione che, sono certo, non mi abbandonerà mai più.

Quando poi, nel tardo pomeriggio, arrivavo in albergo, avevo poca voglia di parlare o forse poca forza, perciò scambiavo solo qualche parola con gli italiani di turno e andavo a letto per …ricaricare le pile…. ed essere pronto, il giorno successivo, a vivere altre esperienze straordinarie o, meglio, a considerare straordinari tutti i momenti di vita vissuta come  dovrebbe succedere sempre.!!!

Ricordo, per esempio, la meravigliosa freschezza dell’acqua, della semplice e pura acqua, dopo una marcia di 23 km che mi aveva portato a Pamplona, sotto un sole “calientissimo”,  ho avuto bisogno di ben 5 litri di preziosissima acqua. Vera ricarica e vero ristoro!

Ad Estella, invece, mentre ero sdraiato, distrutto dalla fatica e dai dolori alle gambe, due ragazze, forse austriache, in un improbabile spagnolo mi offrivano da bere un liquido bianco, in una bottiglia di coca-cola: “Medicamento per totus” dicevano, ma io da buon Siciliano diffidente, in un primo momento, ho rifiutato. Mi sono dovuto ricredere, però! Accanto a me , infatti, un giovane di Pisa, che oltre alle vesciche ai piedi soffriva di una fastidiosissima tendinite al ginocchio, ha afferrato quella bottiglia, bevendo in un fiato, poi me l’ha passata, tranquillizzandomi con lo sguardo. Ho bevuto, ….era grappa… ne avevo veramente bisogno in quel momento. Ho ringraziato e mi sono scusato con le due ragazze…Maledetta diffidenza! Dobbiamo imparare a guardare negli occhi la gente, prima di giudicare e nei loro occhi ho visto solo dolcezza, serenità e sana allegria.

Bella lezione prof!!!

Quella notte ho dormito bene, senza sentire dolore……….

E ancora sorrido, pensando all’equivoco, una sera a cena, con un cameriere che voleva portarmi del vino “tinto”. Da Siciliano DOC ho tradotto simultaneamente il tinto in cattivo e, guardandolo accigliato ho esclamato: “Sarò un povero pellegrino e prendo il menù del “dia”, ma il vino dammelo buono!”. Alla fine ho capito che “tinto” sta per rosso.

Ho riso di cuore, contagiando agli altri il mio buonumore ed ho pensato ancora una volta a Maria…quanto era in gamba Lei con le lingue straniere!!!!

Domenica 3 agosto,l’omelia del sacerdote, , quel suo “suseia”, andare verso l’alto, verso Dio, mi hanno dato la conferma che quel viaggio aveva veramente qualcosa di mistico….

il camminare in silenzio, scandendo i passi uno dopo l’altro, nel cuore della Mesetas spagnola,  eleva veramente l’animo a Dio. Ma la Mesetas è proprio un…….. inferno, specialmente nel tratto che va Corion de las condes a Calzadilla de la Cueza, 17 km in 4 ore, tra campi coltivati a grano e cielo, senza mai scorgere una casa, un albero……….

Per fortuna ho percorso quei 17 km sotto la pioggia. E sotto la pioggia, mentre quasi non sentivo più il corpo, ho lasciato liberi i miei pensieri….

“La mia anima ha due dimensioni : l’ultreria e suseia….lunghezza ed altezza…Vuoi vedere che l’anima è l’area di un ipotetico rettangolo che ha queste due dimensioni? La teoria mi convince poco, però mi affascina.

E se fosse, l’anima, il volume di un pararellepipedo? Mancherebbe la terza dimensione:la profondità. Riflettendo la trovo. La profondità è la motivazione o somma di motivazioni che mi hanno spinto a fare questo cammino……”

Così sempre motivato sono andato avanti sul punto più alto dell’intero percorso: 1500 mt sul livello del mare.

Lì si trova la “Cruz de hierro” una piccola croce tanto alta che sembra toccare il cielo: sofferenza e salvezza….. ho pensato a Maria, alle sue sofferenze, ma anche al suo sorriso e alla forza che sapeva infondere a me e ai nostri figli…………...

Anche adesso starà sorridendo e continua ad incoraggiarci!

Ma davanti a quella croce il mio pensiero è andato anche a tutte quelle persone che ho incontrato durante la malattia di mia moglie : i  ricoverati al neurolesi di Messina ,al Centro Cardinal Ferrari di Fontanellato (Pr) e le tante persone che lottano in silenzio contro la malattia del secolo .

Per loro e per tutti coloro che soffrono ho lasciato ai piedi della croce un fazzoletto che asciuga le lacrime, chiedendo al buon Dio, se non di eliminare il dolore, di dare  almeno la fede e la forza di sopportarlo e continuare a sperare.

Scendendo dal monte, ho sentito il cuore in festa,  mentre il resto del corpo soffriva, in silenzio, pieno di vesciche e fatica. Del resto  dopo 503 Km in 21 giorni e altri 260 per arrivare…….ma non ero mai stato più convinto di potercela fare come in quel momento, avrei dovuto solo stare attento alle distorsioni e cercare di arrivare prima possibile.

Perciò ho cominciato a percorrere non  più 25-30 km al giorno, bensì oltre  35-37 .

Poi, alla 19 tappa, quando dovevo percorrere solo 32 km da Virgen del Real Camino a Santibaňez de Valdeinglesias…….. l’intoppo .

La mattina di quel giorno ero  partito presto, con il buio, e avevo sbagliato strada…..percorrendo più di 12 km in 3 ore di marcia in più, alla fine in totale avevo camminato per circa  44 km. Ero veramente sfiduciato ad un passo dal mollare, poi con rabbia  e determinazione ho ripreso a camminare fino a Santibaňez . ….quel giorno ho camminato dalle 6.00 del mattino fino alle 17.00. Undici ore di marcia con 3 pause di mezz’ora. Di quest’ultima tappa circa 20 km erano in salita, per la verità non molto ripida. Dopo il paese di O’ Cebreino ho cominciato a notare  i ceppi che segnano la distanza da Santiago. Il conto alla rovescia era iniziato… Prima ogni chilometro poi ogni mezzo chilometro……arrivando ben presto ad Arca, a soli 20 km dal traguardo.

Soltanto 20 km! Mi sembrava impossibile, non vedevo l’ora  di divorarli.

Dio mio, Santiago, ero quasi arrivato alla meta!!!

La notte ho dormito pochissimo e alle 4.30 del mattino ero già sveglio, pronto per l’ultima fatica..

Dovevo arrivare, a Santiago, entro le 11.00, ritirare la compostella ed assistere alla messa del pellegrino alle 12.00. Sarei riuscito a rispettare quest’ultima tabella di marcia? Speravo proprio di sì e ne ho avuto la conferma quando, senza accorgermene, mi sono trovato a 5 km da Santiago sul monte to Gozzo, il monte della gioia, chiamato così perché da lì i pellegrini vedevano le torri della cattedrale di Santiago. Non riuscivo a crederci!!!

Sul monte to Gozzo si trova il monumento che ricorda sia il passaggio di San Francesco d’Assisi che la visita di papa Giovanni Paolo II, per la festa della gioventù.

E ancora una volta, su questo colle della gioia, a pochi km dal traguardo, spossato fisicamente ma spiritualmente lucidissimo, mi sono fermato a pensare, a riavvolgere il nastro dei ricordi, facendoli poi scorrere lentamente per rivedere i visi sofferenti ma sereni di tutti coloro che hanno saputo trasformare il dolore in forza, in gioia di vivere, di assaporare ogni momento che il nostro Signore ci concede su questa terra.

Ho rivissuto i momenti delicati della malattia di Maria, ho visto me stesso e i miei figli, insieme, decisi a continuare…. nonostante tutto. 

Come è successo a me, in questo emozionante pellegrinaggio, a dispetto delle mille difficoltà ed insidie. Niente è riuscito a fermare la mia voglia di arrivare, di raggiungere la meta….Santiago!

Ci sono…. Entro in cattedrale, mi sembra di sognare, abbraccio la statua di San Giacomo, come vuole la tradizione, ascolto le parole del sacerdote che ricorda e ammonisce che quello non è un arrivo ma un punto di partenza….. di ri-partenza per la vita…….

Il giorno successivo, il 26 agosto, ho preso l’autobus per Finsterra per vedere il tramonto del sole sull’oceano atlantico. Dopo aver pranzato a base di pesce, ho chiesto in regalo la conchiglia, simbolo del cammino per due motivi: serviva ai pellegrini per dimostrare di essere stati a Santiago  e ricorda il tramonto del sole. Il cammino di Santiago, via francese, va da est verso ovest…dal sorgere del sole al tramonto….come la vita…dalla nascita alla morte.

Alle 18.00 mi sono avviato verso il faro, 3 km di salita….una passeggiata.

Ho aspettato, lì, il tramonto del sole, seduto su una roccia vicino all’oceano.

Le onde si infrangevano sulla roccia dove ero seduto, il sole scendeva e stava  per tuffarsi in mare……pronto a riemergere il giorno dopo.

In quel momento, ancora una volta , il mio pensiero è andato alle tante persone incontrate sul cammino della sofferenza …… Patrizia, Angela, Stefania, Alex, Giovanna, Lina, Beppe, Peppe, Josephine……. anche loro si sono tuffati nel mare della sofferenza, sempre pronti a riemergere……. a lottare. Ho dato ancora uno sguardo a quel mare ed ho ripreso il mio cammino.

Era arrivato il momento di tornare a casa !

 
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Post N° 2

Post n°2 pubblicato il 13 Gennaio 2005 da oscar3155

RACCONTI - "ARITMETICA MAFIOSA" 

Il dottor Ermete Bonfigli, chiuso nel suo ufficio della Procura della Repubblica di Altanissa, studiava il fascicolo degli “atti relativi all’omicidio del prof. Termini Costantino, di anni 50”, avvenuto, una settimana prima in una sciroccosa serata di luglio, nella piazza principale di Burrainiti. Il professore era stato sorpreso dai killers ad un tavolino del circolo dei “Cappelli di paglia”, mentre assaporava una granita di limone.
Il signor procuratore aveva poco da studiare: in quel fascicolo, c’erano soltanto uno scarno rapporto dei carabinieri (un “preliminare” di tre paginette con pochissime indicazioni utili e tante vaghezze riferite da testimoni sordi, distratti o allucinati) e, allegate, alcune lettere anonime che il magistrato scostò col tagliacarte, per non toccarle, poiché le detestava sommamente.
Per le “anonime” il dottor Bonfigli nutriva una totale repulsione: Più d’una volta, qualcuno l’aveva udito urlare per i corridoi della cancelleria: “Al rogo! Al rogo!”, come se si trattasse di scritti eretici.
Il delitto era di quelli “pesanti”. La vittima era uno dei figli prediletti di don Saro Termini, inteso “Nasca”, un vecchio mammasantissima che, per circa mezzo secolo, aveva fatto e disfatto le cose nel comprensorio di Burrainiti.
Anche la modalità dell’esecuzione non lasciava dubbi: si trattava di un omicidio mafioso in piena regola, tuttavia senza un movente plausibile.
Certo, il professor Costantino, docente di francese al Magistrale, un poco si “annacava”, tuttavia, da quando era stato ucciso il fratello primogenito, pareva volesse allontanarsi da quella tenebrosa realtà. Era come “in sonno”. La sua vita si svolgeva, monotona, fra casa scuola e circolo, come quella di tanti piccoli borghesi. Per darsi un po’ di tono, nelle ultime elezioni, si era candidato nel listone del partito cattolico, conquistando un seggio nel consiglio comunale. Tuttavia, nemmeno la nuova carica lo ridestò dal torpore in cui era caduto: andava in consiglio… a leggere il giornale.
Insomma, a parte la discendenza e qualche atteggiamento altezzoso, nulla giustificava quella spietata e plateale soppressione.
Chi aveva deciso di ammazzare (e perché?) un individuo ritenuto fuori della mischia?
Interrogativi essenziali che non trovavano alcuno riscontro, nemmeno un appiglio, nel rapporto dei militi e nelle testimonianze acquisite.
Perciò, si vide costretto a ricorrere alle detestate lettere anonime. Ne aprì una a caso: “Costantino era un galletto. Cercate fra i cornuti”; poi un’altra dello stesso tenore: ”Il professore disturbava le alunne. Firmato: un padre che si sente vendicato”.
Come il solito, gli anonimi estensori propendevano per la pista passionale. Il procuratore era alquanto perplesso circa la consistenza di questa pista, perciò si soffermò sull’unica lettera che non era di questo tenore: “Delitto annunciato da 10 giorni almeno…Il movente è scritto sul muro della casa di don Saro Nasca, in un’operazione aritmetica…forse il professore non sapeva contare.”
Il magistrato lesse e rilesse, ma era più confuso che persuaso: l’anonimo estensore gli proponeva un enigma, un vero e proprio rompicapo.
Che fosse opera del solito mitomane, lettore di libri gialli? Pur tuttavia, quella lettera era l’unico spiraglio in un’indagine che si annunciava la più difficile da quando era arrivato ad Altanissa dalla natia Latina. Volle verificare e ordinò al carabiniere di servizio: “Si rechi immediatamente a Burrainiti, presso l’abitazione di Termini Rosario, a questo indirizzo; legga e trascriva tutto quanto vedrà scritto sui muri esterni. Soprattutto i numeri. Mi raccomando! Se vi sono numeri li trascriva così come sono tracciati, esattamente nella loro disposizione…”
Il giovane milite rientrò con un taccuino pieno di appunti che mostrò, soddisfatto, al dottor Bonfigli, il quale gli chiese di leggerglieli.
“M.C. se la fa con S.T.”; “Politici fate schifo!”; “Preti e ruffiani: unica razza”; “Il sindaco mangia da solo…” Il magistrato ascoltava quelle castronerie con evidente nervosismo: “Lasci perdere queste sciocchezze. Numeri…ci sono numeri?”
“ Ah! Si. I numeri. C’erano solo questi, ma non ci ho capito niente. Comunque li ho annotati, come lei mi ha comandato. Ecco qua: 4 – 2= 0 “
“E’ sicuro che non ci fossero altri numeri ?”
“No, dottore! Solo questi, scritti in grande e con vernice nera”.
Congedato il carabiniere, il dottor Bonfigli si abbandonò ad uno dei suoi frequenti sfoghi contro i siciliani: “Questa gente la verità la scrive coi numeri, sui muri, ma si rifiuta di portarla in tribunale. Parlano i muri! E nei processi chiamiamo i muri a testimoniare?”
Nonostante lo sdegno, quella bizzarra sottrazione era, in fondo, un riscontro di quanto scritto nella lettera anonima.
“4-2= 0 ! Cosa vorrà dire? ”. Rilesse la lettera: “Delitto annunciato…in un’operazione aritmetica… Perché così ostentatamente errata? Mah!”
Si fece portare un altro caffè e tutti i fascicoli relativi a don Saro Termini e alla sua famiglia.
Dalle carte emergeva una figura gigantesca della mafia di quel comprensorio: esordì con l’abigeato e finì con l’eroina. Vecchia mafia, all’antica; un impasto bene assortito d’onore, interessi economici e lupara; rispettoso delle tradizioni e della religione, era devotissimo alla Madonna Assunta.
Nella sua, lunga carriera criminale collezionò centinaia d’imputazioni e una sola condanna a 15 anni, erogatagli nel
1929, a
seguito di una retata del prefetto Mori alla quale sfuggì nascondendosi in mezzo ad un covone di stoppie.
Don Saro “Nasca” ebbe 7 figli: 4 maschi e 3 femmine. Secondo l’informativa, solo Nenè, il primogenito, e Costantino avevano seguito le orme paterne; sugli altri due, Gaspare e Vincenzino, il boss non faceva affidamento: non avevano nulla della sua indole. Somigliavano tanto alla madre, la mite donna Concetta, la quale, finchè visse, cercò di sottrarli alla perniciosa influenza del marito.
“Nasca” regnò su quei territori per più di 40 anni, padrone e domine, temuto ed omaggiato da tutti, perfino da ministri e monsignori, fino a quando non emersero, come furie devastatrici del vecchio ordine, i “palermitani”, gente abietta e sanguinaria che, trafficando con quella “roba sporca”, erano riusciti ad accentrare a Palermo quasi tutto il potere della mafia.
A 65 anni, cedette lo scettro del comando al figlio primogenito che pareva essere venuto al mondo col solo scopo di rilevare il potentissimo ruolo paterno. Il regno di Nenè non fu longevo come quello del padre. Una mattina il suo corpo, devastato dalla lupara, venne rinvenuto dentro l’automobile, ai bordi della strada che porta alla miniera Muculufa.
Grande fu il dolore di don Saro per il figlio perduto e, soprattutto, per la tremenda sfida che gli avevano lanciato, a lui che un tempo faceva tremare fin’anco le case, come un terremoto del decimo grado. Morto Nenè, lo scettro spettava a Costantino, ma questi era scoraggiato, titubante a raccogliere la sfida di un nemico lontano, annidato nella giungla di quella capitale spietata e senza onore. Confessò al padre i suoi tormenti: “Papà, i tempi sono cambiati. Con quello che abbiamo ci possono campare cinque generazioni di Termini…”
“Campare! Campare! E noi che siamo qui per campare? Campano i poveracci, gli scoglionati, i vili, i cornuti - insorse il Nasca – Noi siamo qui per comandare, per fare la legge. Campare! E il nostro nome, il nostro onore, vanno a farsi fottere? E’ meglio la morte!
Mia è la colpa che ti ho fatto studiare…ora eccolo il professorino! Rincoglionito davanti al cadavere di suo fratello che grida vendetta. E non l’avrà. Povero figlio!”
Il dottor Bonfigli continuò a setacciare quelle carte con le quali si potevano ricostruire, per filo e per segno, gli ultimi cinquant’anni della storia di Burrainiti, senza riuscire a cavarne un minimo indizio che lo conducesse al movente dell’omicidio.
Ritornò a quella bizzarra sottrazione. “4-2 fa 2, perché sul muro c’è scritto zero?”
Si trattava dello scherzo di un buontempone o dell’azzardo di qualche genialoide che stava scherzando col fuoco? Con la mente ritornò ai banchi del liceo, alle controverse teorie sul valore dello zero. Consultò perfino l’enciclopedia. Propendeva per le posizioni degli antichi filosofi indiani, per i quali questo segno significava assenza di valori, semplicemente il nulla; mentre non lo convinceva la teoria del persiano Khovaresmi: “Lo zero contiene un grande valore sacro; esso simbolizza ciò che non ha inizio né fine…Lo zero non si accresce né si riduce…tuttavia possiede il potere di moltiplicare tutti i numeri… esso crea tutte le cose a partire dal nulla, le domina, le governa…”
Ma cosa c’entravano queste sofisticate teorie col suo “zero”? Il magistrato s’accorse che stava deviando, lasciò i libri e tornò al fascicolo, a quella stramaledetta operazione aritmetica che applicò allo stato di famiglia di don Saro Nasca. Il conto non quadrava: di figli n’ebbe 7 perciò quel 4 non era pertinente, e poi la matematica non è un’opinione e 4 – 2 fa 2. Quello zero era proprio una stonatura, un controsenso. Chi poteva essere l’autore di quella ignobile missiva? Forse una mente sopraffina che usava questo escamotage per depistare le indagini?
Pensò di cestinare quella lettera, ma - per scrupolo- volle chiedere un parere al cancelliere. Gli allungò la busta: “Per favore, dia un’occhiata…”
Mimì Sardella inforcò gli occhiali, lesse rapidamente e concluse con un “Umhhh” prolungato, che non si capiva se fosse un’espressione di meraviglia o un segno d’intuizione del significato recondito di quella lettera anonima.
“Siamo sicuri della fondatezza del contenuto di questa lettera?”, esclamò Sardella, tanto per dire qualcosa.
“Sicuri! Non vede che brancoliamo nel buio? Questa abbiamo e su questa dobbiamo lavorare. In ogni caso, un certo riscontro l’abbiamo avuto…”
“Umh” grugnì il cancelliere mentre appuntava lo sguardo sul primo capoverso: “Un delitto annunciato…coi numeri. Con tutto il rispetto, mi pare che questo anonimo la sappia un po’ troppo lunga. Un annuncio? E chi può permettersi il lusso di annunciare un omicidio ai danni di un esponente della famiglia più rispettata della zona? Scriverlo, addirittura, sul muro dell’abitazione di don Saro Nasca? Solo gente potentissima, sicura del fatto loro, può lanciare una sfida tanto impegnativa…”
“Va bene, va bene - l’ interruppe il magistrato - questo l’avevamo capito, da soli. Quello che non mi spiego è questa fottutissima sottrazione. Che senso ha questa operazione così ostentatamente sballata? ”
“Eh, caro dottore, qui non abbiamo a che fare con la scienza matematica. Questa è l’aritmetica mafiosa per la quale il valore dei numeri, delle cifre, non è assoluto, ma fortemente relativo. Comparato cioè al valore intrinseco degli uomini. Per la mafia, gli uomini non sono tutti uguali e pertanto non si contano secondo la quantità: 1,2,3 4,5 ecc, ecc, ma in base al valore mafioso che essa attribuisce a ciascuno…”
“Venga al dunque, cancelliere!”
“Ci arrivo subito. A mio umilissimo parere, chi ha tracciato questa operazione voleva esattamente annunciare l’assassinio del professor Costantino e non degli altri figli del vecchio capomafia. Lui è lui solo doveva morire per azzerare l’intera famiglia. Noi che conosciamo la mentalità di questa gente- sottolineò il cancelliere- sappiamo che don Saro parlava solo di 4 figli (poiché le 3 donne non erano ammesse alla tavola mafiosa) e fra questi 4 andava fiero soltanto di Nenè e di Costantino che lo hanno seguito nella carriera criminale. Gaspare e Vincenzino sono due pezzi di pane e pertanto ininfluenti ai fini della conta. Eliminati i primi due, la famiglia mafiosa di don Saro Termini può considerarsi estinta. Ecco perché 4-2 fa 0…”
“Ah!-- sospirò il dottor Bonfigli- Perciò, anche loro condividono la teoria degli indiani…”
Il cancelliere non capì il commento esoterico del procuratore, ma lasciò correre.

 
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Post N° 1

Post n°1 pubblicato il 03 Novembre 2004 da oscar3155

U curticchiu


 


Il cortile dove abitavo da piccolo era formato da 8 case e da 6 famiglie.


Al centro del cortile vi era il pozzo.


Fin da piccolo ho mosso lì i primi passi e ho giocato con amici e fratelli nel cortile.


Gioco del calcio, nascondino, “acchiappareddu” ed altri giochi.


Lu zu Minicu e la za Maria, erano veramente miei zii, con i figli molto più grandi di me dediti all’agricoltura.


D’estate, quando si pulivano le mandorle, ci si riuniva attorno e lavorando si parlava di tante storie…spesso ascoltavo in silenzio e incantato.


Lu zu Minicu, ragazzo del ’99, nato nel 1899, partecipò alla prima guerra mondiale con il suo mulo…raccontava di bombe, cannonate, di case distrutte, di soldati che saltavano in aria perché avevano calpestato delle mine… nel suo immaginario pensava che la guerra mondiale avesse coinvolto tutto il mondo…anche la sua terra…il suo paese…pensava che al ritorno a casa non avrebbe più rivisto i familiari…la casa…ma, ritornando nel 1919, era rimasto leggermente ferito ( ma c’era chi insinuava che avesse lì trovato la “morosa”) trovò la casa…i genitori ….i fratelli e in più una sorella di 3 anni (mia madre).


Accanto alla casa di lu zu Minicu , c’era quella di Peppi Nofriu e della za ‘Tunicchia, “la culu di pagghia”, donna dal sedere enorme che bascullava quando camminava… pensavo che  il suo sedere fosse riempito di paglia come allora erano i materassi. Peppe Nofriu, persona dura, bruta nel tono delle parole e abbruttita nello sguardo,che comandava la moglie a bacchetta, ma era affettuosissimo con noi bambini. Dicevano che era stato in galera perché aveva sparato ad una persona. Questa famiglia era poverissima… un po’ tutti si adoperavano a darle qualcosa…ma mentre la za ‘Tunicchia ringraziava commossa lui faceva il duro, il sostenuto, l’indiano. Era anziano di età ma dicevano che era ancora “giuvani” perché lavorava, faceva il pastore, alle dipendenze di un altro.


La loro casa era formata da una stanza, non molto grande, dove c’era lu fuculari, il letto, un tavolo e 2 sedie. Nella stanza accanto vi era la stalla dell’asinello…non avevano il bagno ed usavano la stalla per i loro bisogni. Si lavavano nella pila , che serviva anche per lavare i pochi abiti che avevano.


C’era anche la signora Angelina, “la mangiacori”, era una brava persona ma la “giuria”, il nomignolo, che portava dietro proveniva dai suoi genitori che dovevano essere persone senza scrupoli morali, che lei non frequentava. Lei invece era una persona dolce, sensibile e affabile. Il marito signor Rino, lavorava nella cava di tufo di Misilbesi e viaggiava con il motore. Persona di poche parole, silenziosa, gli piaceva ascoltare.


Accanto alla loro casa vi era quella di lu zu Peppe Madonna e della za Rusidda, persone dolci e allegre specie lu zu Peppe Madonna, che giocava e scherzava con noi. In estate, ogni sera ci si riuniva a raccontare storie e aneddoti. Il nipote della za’ Rusidda, che era stato in America, raccontava della morte di Kennedy, presidente degli Stati Uniti, della mafia.


Quando veniva a trovare gli zii portava l’anguria, lu muluni, che offriva a tutto il vicinato. Per renderlo fresco lo calava con una cesta nel pozzo.


Tutti erano affettuosi con noi ragazzi e quando si faceva il pane, allora il pane si faceva in casa, un chichireddu o la sciavata era per noi ragazzi.


All’imbrunire, quando tornavano dalla campagna li aiutavo ad dar da bere ai muli o all’asino(quello di lu zu Peppinofriu). Mi piaceva tanto giocare con gli animali, li cavalcavo, li “governavo” (mettevo il fieno nella mangiatoia) e li chiamavo con il loro nome.


Poi nel 1968, venne il terremoto, tutti abbandonarono quel cortile. Quella comunità negli mesi successivi scomparve come una folata di vento fa cadere le foglie ingiallite dagli alberi…oggi le case sono state ricostruite dai figli o dai nipoti. Il cortile è ritornato ad essere abitato dagli eredi di quella comunità. Il pozzo non c’è più e, forse, scomparendo il pozzo è scomparsa anche quell’armonia e amore che c’era una volta.


Non abito più lì, ma ogni volta che passo e vedo quel cortile mi sembra di vederli tutte quelle persone genuini con la loro dolcezza, simpatia, semplicità e fratellanza fra loro.


Si aiutavano a vicenda nel fare il pane, nei lavori di campagna e nel darsi consigli per coltivare il terreno, nel far assaggiare le primizie della terra. Non esisteva il diritto e il dovere…esisteva lo star bene insieme.

 
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