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Frà-inteso

Post n°1287 pubblicato il 08 Agosto 2008 da ossimora
 

Alitalia, il solito Berlusconi:

«Trattiamo con gli stranieri»

Nessuna traccia della «cordata italiana»

Odio dire..."l'avevo detto"...

  ora si riparla di «stranieri»: dopo mesi di campagna elettorale permanente in cui non si è fatto altro che parlare di «cordata italiana», ora Berlusconi è costretto ad ammettere che senza l’aiuto di un’altra compagnia, salvare Alitalia è praticamente impossibile. E così, da Napoli, ne spara una delle sue: «Abbiamo già un piano industriale, i soci, i capitali necessari e stiamo trattando con una grande compagnia straniera per un'alleanza internazionale».

Non sono passati nemmeno 15 giorni da quando il premier aveva lanciato il suo originalissimo slogan, «Io amo l'Italia, io volo Alitalia», e ora già è costretto a trovarsene un altro. Finora, a parte i 300 milioni di euro del prestito-ponte che ha trasformato in finanziamento a fondo perduto, Berlusconi per la compagnia di bandiera non ha fatto nulla. L’advisor Banca Intesa, incaricato di trovare imprenditori italiani disposti a investire in questa partita, vede avvicinarsi la scadenza del 10 agosto quando, salvo sorprese, dovrà presentare il piano di salvataggio che ha elaborato per Alitalia.

Al di là dei proclami resta da capire che dirà il consiglio di amministrazione della compagnia, che si riunisce proprio venerdì. E sempre venerdì, parla di noi anche l’Economist: il settimanale britannico dedica alla questione Alitalia un lungo articolo in cui si definisce un «miracolo» l’ipotesi di un’offerta da parte di Lufthansa o di un ripensamento da parte di Air France-Klm. L'unica possibilità di salvataggio, secondo The Economist è la divisione della compagnia: la parte sana verrebbe isolata in una nuova società priva di debiti e finanziata dalla grande industria italiana (Benetton, Marcegaglia, Aponte), quella malata, invece, rimarrebbe nelle mani dello Stato con oltre 1,1 miliardi di euro di passività: in questo modo, spiega il corrispondente dall'Italia, gli investitori sarebbero davvero incoraggiati verso la «good company», e i conti della «bad company» sarebbero soltanto un ulteriore peso del debito italiano.

 
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