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la felicità cerca il godimento o la soddisfazione?

Post n°49 pubblicato il 05 Maggio 2010 da m_de_pasquale
 
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Su cosa sia la felicità vi è disaccordo, e la massa non la intende nello stesso modo dei sapienti, dato che i primi credono che sia qualcosa di tangibile ed evidente come il piacere, la ricchezza, l’onore” (Aristotele, Etica Nicomachea I). La felicità, quindi, dai più, secondo Aristotele, viene identificata col piacere. Anche Freud nel Disagio della civiltà afferma che gli uomini identificano la felicità col sentimento intenso del piacere: “Ci chiederemo meno ambiziosamente, che cosa, attraverso il loro comportamento, gli uomini stessi ci facciano riconoscere come scopo e intenzione della loro vita, che cosa pretendano da essa, che cosa desiderino ottenere in essa. Sbagliare la risposta è quasi impossibile: tendono alla felicità, vogliono diventare e rimanere felici. Questo desiderio ha due facce, una meta positiva e una negativa: mira da un lato all’assenza del dolore e del dispiacere, dall’altro all’accoglimento di sentimenti intensi di piacere. Nella sua accezione più stretta la parola “felicità” viene riferita solo al secondo aspetto”.

Il godimento provato col piacere ci rende felici? Il godimento è una esperienza puntuale, gioca con l’attimo e così, in astratto, se la nostra vita dovesse risolversi nell’attimo, potremmo dire che il godimento basta per renderci felici. Ma la nostra vita si svolge nel tempo, ed in questo svolgersi, l’intensità del godimento occupa solo qualche attimo: addirittura potrebbe accadere di provare dolore (nostalgia) quando confrontiamo il ricordo dell’intensità e veemenza del godimento con la normalità dello svolgimento della vita. E così, per mantenersi a quel livello di godimento provato, dobbiamo freneticamente provare sensazioni analoghe come ci racconta Kirkegaard di don Giovanni: “gode dell’appagamento del desiderio; appena ne ha goduto, cerca un nuovo oggetto, e così all’infinito […] Egli desidera e continua a desiderare, e gode esattamente del godimento del desiderio”. Se si ricerca la felicità nell’immediatezza del godimento, se si ama semplicemente immergersi in esso e si elegge tutto ciò come proprio fine, ci si condanna all’ossessività della ripetizione. Per trattenere il piacere presso di sé e per trattenersi il più a lungo possibile nel piacere si è costretti sempre e di nuovo a ricominciare; per risarcirsi del danno della perdita si è obbligati a riprodurre implacabilmente il medesimo senza poter mai nulla possedere. Se la vita gioca con la durata, non riusciamo ad accontentarci di una felicità che coincide con l’immediatezza, col godimento puntuale, con l’attimo intenso. Cerchiamo una felicità che duri nel tempo. Cerchiamo un piacere che non ci faccia solo godere, ma che ci dia soddisfazione.

Natoli racconta bene questa dinamica: “… la felicità è certo intessuta di attimi, ma non risiede in essi.  In senso stretto, felice può dirsi solamente una vita. Così almeno nella cultura dell’occidente. Ciò non toglie tuttavia che l’uomo solo nell’attimo attinge la felicità al massimo  della sua intensità. In questo senso la felicità non può durare che un attimo, poiché è solo nella brevità dell’istante che il desiderio si congiunge al suo oggetto e in esso trova soddisfazione. Ove massimo è il contatto piena è la realizzazione e l’”io/sé” nel rifondersi con l’altro sperimenta il proprio  illimitato espandersi. Dal momento che la felicità si consuma nell’istante, essa si situa tra il senza-tempo e il tempo. A quell’altezza non si regge: seppure sembri un’eternità, nel momento in cui la si vive ad essa subentra la separazione, l’istante cade e l’ordinarietà della vita riprende il suo corso. La felicità tocca dunque il massimo di intensità laddove si fa intimo e pressoché assoluto il contatto con l’oggetto del desiderio. Ma un’esperienza intensa non può che essere breve, perché o non si regge all’eccesso - di felicità si muore - o l’eccesso viene riassorbito dall’assuefazione che restaura la normalità. È una questione fisiologica. L’io-corpo si costituisce come barriera all’incondizionatezza del piacere, nel momento stesso in cui sembra esserne il luogo eminente e la sede. Se così è, si capisce bene perché il piacere sensibile viene a costituire una delle forme più immediate ed elementari - anche se tali in apparenza - in cui gli uomini ritrovano appagamento e perciò felicità. Nel piacere sensibile, infatti, è pressoché assoluto il contatto, minima la distanza, estrema l’identificazione con l’oggetto: è quasi un renderselo proprio, più ancora, un portarselo dentro. Il contatto materiale e fisico con l’oggetto dei desiderio dà la sensazione di accrescersi attraverso di esso. Nel piacere infine l’uomo fa un’esperienza intensa del proprio “io corporeo”, vive il suo corpo come una potenza idonea ad attivare piacere. Il piacere sensibile appartiene quindi a quell’ordine delle sensazioni intense, in sé risolte e come tali capaci di dare l’idea di una raggiunta felicità. E per tal via ogni volta raggiungibile, fatte salve, evidentemente, le delusioni. Nel piacere l’intensità esclude la durata ed è quindi nella ripetizione variata del medesimo che gli uomini riescono a prolungare il piacere”.

L’idea del piacere trae la sua origine dal piacere sensibile ed in particolare da quella tipologia di piaceri che hanno a che fare col gusto (mangiare) e col sesso: sono i piaceri generati dal contatto, quelli più forti, più intensi. Sono piaceri in cui tutti i sensi sono implicati come, ad esempio, nel piacere sessuale dove i sensi della distanza (vista, olfatto) presiedono all’eccitazione e quelli del contatto (gusto, tatto) alla soddisfazione. Sono piaceri così veementi che impediscono il sorgere dei pensieri. Ma se è il pensiero che ha a che fare con la durata, non potrebbe costituire l’apertura alla soddisfazione oltre il godimento?  “.. i piaceri forti impediscono all’uomo di pensare, e per ciò stesso impediscono all’uomo d’essere davvero uomo, dal momento che la vita della mente è ciò per cui gli uomini  si differenziano dalle bestie.” (Natoli). “I piaceri sono un ostacolo all’esser saggio, e tanto più lo sono, quanto più grande è il godimento, come nel piacere erotico; infatti nessuno potrebbe pensare durante esso” (Aristotele, Etica nicomachea)

Esercizio. Se godimento comunica l’idea dell’intensità del momento e soddisfazione l’idea della completezza, della sazietà che dura nel tempo, ripensa ad esperienze di piacere  fatte classificandole come godimento o soddisfazione; cerca, poi, di ricordare - relativamente a queste esperienze differenziando godimento e soddisfazione - lo stato fisico (descrivi le sensazioni provocate da tutti i sensi – vedere, odorare, gustare, sentire, toccare – in particolare nel godimento), lo stato psicologico, quello relazionale provato: fanne una accurata descrizione; rifletti se nelle esperienze analizzate intervengano tutte le capacità umane (sensi, intelletto, memoria) o solo qualcuna ed in che misura, avendo cura di distinguere, sempre, tra esperienze di godimento e di soddisfazione. (Felicità - 2  precedente successivo)

 
 
 
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