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La "città fabbrica" che ha scelto come morire

Post n°13 pubblicato il 27 Luglio 2012 da puntacampabella
 

La storia dell'Ilva di Taranto è l'ennesimo paradosso italiano. Migliaia di lavoratori lottano contro il sequestro di sei reparti dell'acciaieria più grande d'Europa, per scongiurare una chiusura che significherebbe la perdita di lavoro per migliaia di persone e un dramma per le loro famiglie. Perché l'Ilva - come la Fiat, la Barilla e altre grandi aziende italiane - non è una semplice impresa ma il cuore di quella che molti definiscono "città fabbrica", un'impresa che dà lavoro a un numero di persone così alto da influire sull'economia, l'urbanistica e le abitudini di una città.

Ma l'Ilva è anche stata per oltre trent'anni - e per molti continua ad esserlo - causa di morte e malattie per gli operai e per molti abitanti di Taranto. I veleni eruttati dal colosso siderurgico si manifestavano con quello strato di polvere rossa che si depositava su case e auto, sui panni stesi ad asciugare - che al primo soffio di tramontana dovevano tornare in lavatrice - e sul terreno, inquinando acqua e cibo. Ma soprattutto era respirata da tutti. I veleni negli anni sono stati identificati e misurati, in primis la famigerata diossina e poi  il meno noto ma altrettanto pericoloso benzopirene. Si è dimostrata l'incidenza diretta tra quelle sostanze e l'aumento esponenziale di malattie respiratorie e tumori in tutta l'area. 

Negli ultimi anni la polvere rossa è diminuita, salvo quando soffia la solita tramontana. Basta domandare agli abitanti del 'rione Tamburi', il quartiere più inquinato d'Europa. Ma gli effetti devastanti di oltre trent'anni di veleni richiederebbero interventi radicali. Non basta modificare i cicli di produzione, servirebbero una massiccia opera di bonifica e quelle riconversioni che i sindacati e i movimenti dei cittadini chiedono da anni.

Manca un'efficace legislazione nazionale che regolamenti il monitoraggio e la bonifica delle grandi aree industriali. Ci si limita a gestire le emergenze con provvedimenti 'spot' come i 336 milioni stanziati dal governo. La politica è stata assente e nel peggiore dei casi complice. In Italia ammontano a 57 le aree da bonificare e sono oltre 6 milioni gli italiani a rischio malattie. Ed è difficile accertare quali siano le responsabilità legali delle aziende rispetto ai disastri ambientali. La storica sentenza Eternit - caso che ha diverse analogie con l'Ilva – è emblematica del vuoto legislativo. Da una parte la vittoria dei famigliari delle vittime degli stabilimenti di Cavagnolo e Casale Monferrato, dall'altra l'ingiustizia subita a Reggio Emilia e Bagnoli. In entrambi i casi la bonifica delle aree si è limitata a qualche proclama e poco più.

Oggi molti abitanti della grande "città fabbrica" vivono il dramma di dover difendere il loro lavoro coscienti di difendere un'azienda che produce morte e malattie. Ma quando un dramma è di dimensioni così vaste, le degenerazioni e gli scontri lacerano l'intero tessuto sociale di una comunità. È questo che sta avvenendo nella provincia pugliese, dove le associazioni e i gruppi che lottano per la difesa dell'ambiente e della salute, nonché la stessa Procura di Taranto che ha disposto i sigilli per i reparti a caldo dell'acciaieria, sono visti come dei nemici da quella parte della città che vive del grande colosso industriale. Migliaia di persone che vittime del ricatto occupazionale si sono rassegnate a dover compromettere la propria salute, quella delle loro famiglie e quella della loro comunità. Perché in Italia si può scegliere se morire dei veleni prodotti dalla fabbrica dove si lavora o di fame se quella fabbrica viene chiusa perché uccide. E non si dica che non siamo un paese libero.

 
 
 
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