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Quattro fuochi

Post n°223 pubblicato il 20 Ottobre 2009 da le_corps

Quattro fornelli accesi e nessuna pentola a scaldarsi. Quattro ghiere di fuoco o quattro girasoli, quattro luci. La sera è buia, il freddo è attaccato alle pareti, il pavimento è una lastra ghiacciata, le finestre si stringono a sé, le gambe delle sedie sono intirizzite, e i miei piedi pesanti come sassi. Sul tavolo vedo un piatto e un cucchiaio usati: sporco da incrostazione e odore di pasto lontano.
Il vicino mi ha offerto una stufa. Ha bussato alla porta, il campanello è senza suoneria: l’ho smontata.
Ha bussato alla porta senza accanimento, ha sussurrato il mio nome, quello inciso sulla porta: non è il mio.
Ho sentito che scaricava qualcosa in modo maldestro, qualcosa davanti alla mia porta senza zerbino: lo zerbino è all’interno. Qualcosa ha toccato il pavimento con un urto imprevisto, ho sentito il vicino che si schiariva la gola quasi a scusarsi che qualcosa gli era sfuggito di mano.
Doveva sentirsi davvero mortificato tanto che ha sceso le scale con cautela estrema, perché io non udissi un solo passo dei suoi. Non ho sentito la sua porta di casa chiudersi e, a dire il vero, nemmeno aprirsi.
Che fosse rimasto sul pianerottolo davanti alla mia porta l’ho escluso da subito. Conosco troppo bene il mio vicino, e questa è la mia unica certezza. A parte il freddo, certo.
L’unico rumore che sento è il frusciare delle fiamme: il mio respiro non disturba, buon segno. Nessun affanno, nessuna eccitazione. Il corpo è autosufficiente nell’ossigenarsi, tanto basta.
Porto una mano al naso: ghiacciato, ma per fortuna non cola.
Il naso che cola è proprio da mocciosa, da pianto immotivato, da fragilità strutturale. Da mancanza incolmabile. Il naso che cola può essere anche perfettamente asciutto: il carattere non dipende da un fazzoletto. Devo ricordarmi di dirlo a mia madre; devo ricordarmi anche di dirle un’altra cosa ma non ricordo cosa. I pensieri sono difficoltosi, sono come corde che sfuggono tra le mani, anzi no, come acqua e farina che chissà perché hanno deciso di respingersi, di non amalgamarsi. Il pensiero è un amalgama, e bisogna pensare perché i dolci riescano, perché le parole si leghino e le immagini si formino. Le mie immagini a volte sono come scarpe. Le scarpe, si sa, vanno a paia. Diciamo che riesco a trovare il paio giusto, scarpa con scarpa, ma poi manca il laccio; e, se c’è, o è troppo corto o basta per una sola scarpa, e quando io lo divido in due per darne un po’ all’una e un po’all’altra, ecco che è di nuovo troppo corto.
Se mi mettessi ad impastare ora, certo mi riscalderei, ma riuscirei solo ad aggrumare, cioè a dividere. Non riuscirei nemmeno ad accostare, a sovrapporre, a circondare, no, riuscirei solo a slegare, o ad aggrumare.
Una mia amica mi consigliava di sciogliere i grumi nel frullatore: funziona, diceva. Ma forse lei pensava a quei grumi accidentali, che si formano incautamente per troppo amore, per troppa cura o per troppa felicità. Quelli, sì, ci credo, ma se ora io mi mettessi a impastare a miscelare, a creare, farei dei grumi tanto grossi e grumosi da frustrare la frusta di qualunque frullatore.
Non ricordo a che ora il mio vicino ha bussato, cerco di fare uno sforzo, ma proprio non ricordo.
Di certo ha bussato, e poi c’è stato quel rumore metallico, di stufa. No, non sono una veggente, è bastato che mi chinassi a terra e infilassi gli occhi sotto la porta per vedere il cavo e la spina. Di una stufa, sì, di quelle piccole ma confortevoli. Una stufa elettrica, con presa tedesca e riduttore: il mio vicino è una persona previdente. È anche una persona di poche parole, ma prodiga di vagiti e sibili; qualche volta lo sento addirittura miagolare: no, non ha un gatto – che banalità!; qualche volta nitrisce pure, quindi? Un cavallo in soggiorno? No, è lui che diventa animale. E non lo fa solo con il suono della voce. Il suo verso è così pulito così vero che di sicuro lo accompagna con tutto il corpo: oltre al verso è capace anche del passo, ne sono sicura.
Il mio vicino è il mio unico dispensatore di sicurezze, di questi tempi. Con tutto il freddo che c’è, e questa nebbiolina.
Accendo i fuochi anche per quella, la nebbia; li accendo per diradarla, per aprire un varco nel suo ventre compatto, ma non sembra che funzioni. Ho la nebbia in casa, e non so perché. Non è il come ad essere importante ma il perché. No, non sono la stessa cosa. Il come è fisico, il perché è metafisico. E ancora non ricordo cos’altro dovevo ricordarmi di dire a mia madre, quando l’avessi sentita. Non ricordo nemmeno l’ultima volta che l’ho sentita, di sicuro prima della visita del vicino, ma di preciso non so. Non riesco a pensare molto, in questo periodo, ma dopo tutto quando si ha il problema della nebbia in casa come si fa? In questi casi la cosa migliore è aspettare. Che la nebbia sparisca, da sola. E quando si aspettano eventi di questo tipo, pensare non serve, pensare rovinerebbe l’attesa.
Essere autosufficienti nell’ossigenarsi: ecco la sola cosa di cui sincerarsi.

 
 
 
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