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Gli equivoci dell'anima Umberto Galimberti

Post n°8 pubblicato il 23 Febbraio 2009 da cazzuu

L'arte gioca col mondo, il suo operare non rispetta le regole della ragione, non persegue valori né scopi. L'arte rompe la trama, è accadimento senza sequenza: "Allora vediamo le cose con tutt'altri occhi" perchè, sottraendosi al principio di individuazione, la coscienza si fa assoluta. Se infatti l'Io individuale, giocato dalla volontà come cieca pulsione, è sempre sofferenza, interesse, bisogno e alla fine noia, la coscienza che si fa assoluta, perchè sciolta (soluta ab) dai legami con l'Io, è contemplazione distaccata e onnilaterale di tutte le cose guardate nella loro oggettività, senza interesse, come dalla prospettiva di tutte le prospettive. Così si esce dal tempo e dalla successione causale per approdare a quell'eterno presente che Schopenhauer descrive come:

Punto inesteso[...] che resta immobilmente saldo, quale un eterno mezzogiorno al quale mai succeda la sera, o come il vero sole, che arde senza intermittenza, benchè sembri tuffarsi nel seno della notte". Il suo aspetto è come quello dell'arcobaleno sopra la cascata dove "milioni di gocce trapassano cangianti, mentre l'arcobaleno, di cui esse sono il sostegno, sta in immobile calma, interamente immune da quell'incessante mutarsi.

 

 
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Gli equivoci dell'anima Umberto Galimberti

Post n°7 pubblicato il 21 Febbraio 2009 da cazzuu

A questo punto il valore dell'agire, dell'operare, dello stesso lavorare non è nella mediazione dialettica dei soggetti che la razionalità del sistema vuole integrare, ma è nel grado di soddisfazione che questo agire consente; soddisfazione senza senso e senza scopo, perchè pura esecuzione di una volontà, da cui non si può prescindere perchè sostanzia l'essere umano. Nella comprensione dell'ineluttabilità dell'azione, del suo significato strumentale e non-finalistico, della sua assenza di significato quindi, in quanto mera esecuzione di una necessità, nasce quella rinuncia-ascesi (Entsagung-Askese) che tenta la liberazione dell'uomo dal mondo. La rinuncia non vuole la vita, ovvero quella trama di bisogni e soddisfazioni che la ragione presenta come motivazioni e fini, disinserisce da quell'irrazionalità dell'agire che non ha alcun senso, quindi dall'inganno e dalla volontà di perpetrarlo. Chi non cerca più soddisfazioni è soddisfatto. I nuovi concetti morali vengono dedotti da questo nuovo punto di vista; essi sono la compassione, la contemplazione estetica e l'ascesi. La compassione non è il legame dialettico intramondano e storico, ma esattamente l'opposto, essa è il patire insieme (sim-patia) l'annullamento di qualsiasi interesse per il riconoscimento avvenuto dell'equivalenza del mondo del bisogno e del dolore, dell'impotenza dell'agire, dell'inganno delle ragioni che lo motivano. Una volta conosciuto l'esse che determina i fenomeni della vita, non si produce più alcun inter-esse. Scrive in proposito Schopenhauer:

 

Che l'esistenza umana debba essere una specie di smarrimento risulta a sufficienza dalla semplice osservazione che l'uomo è una concrezione di bisogni, la difficile soddisfazione dei quali non gli garantisce se non una condizione senza dolore, nella quale poi è dato in preda alla noia; la quale dimostra direttamente che l'esistenza non ha in sè alcun valore: infatti essa non è altro che il sentire la sua vacuità. Se la vita, nel desiderio della quale consiste la nostra essenza ed esistenza, avesse un valore positivo e un contenuto reale in se stessa, non potrebbe esservi la noia: bensì la pura esistenza in se stessa dovrebbe appagarci e soddisfarci. Ma noi gioiamo della nostra esistenza solo in questi due modi: o nel desiderio, nel quale la lontananza e gli ostacoli ci fanno apparire la meta come un appagamento - e questa illusione scompare dopo che si è raggiunta la meta - oppure in un'occupazione puramente intellettuale, nella quale, però, propriamente, usciamo dalla vita, onde considerarla dall'esterno come gli spettatori nei parchi. Perfino il godimento dei sensi consiste in un continuo desiderio, e cessa non appena è raggiunto il suo scopo. Ogni volta che non ci troviamo in uno di quei due casi, ma siamo respinti nella nuda esistenza, ci convinciamo della nullità e della vacuità di essa - e questo è la noia.

 

 

 
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Gli equivoci dell'anima Umberto Galimberti

Post n°6 pubblicato il 19 Febbraio 2009 da cazzuu

I bisogni determinano la "ragion pratica" i cui ideali permangono nella misura in cui soddisfano i bisogni; questi ultimi garantiscono l'effettualità della morale, la sua efficacia e giustificazione storica. Se l'etica soddisfa bisogni, la ragion pratica che le presiede è puro strumento di soddisfazione; non si impone da sè, ma è imposta dalla relazione motivazione-bisogno che , al di là di ogni mascheramento, sta alla base dell'effettualità di ogni morale. Questo è lo sfondo teorico da cui prendono avvio gli Aforismi sulla saggezza della vita, dove la relazione motivazione-bisogno appare come la struttura in cui si esprime la volontà di vita che , in quanto volontà, è mancanza, tensione, ricerca di soddisfazione; l'agire che si manifesta a livello fenomenico come conforme o difforme all'imperativo della ragione è, in realtà l'attuazione di quell'insopprimibile volontà che non concede libertà di sorta o scelte che non siano a essa vantaggiose. "Tu puoi fare ciò che vuoi - scrive Schopenhauer - ma non puoi volere ciò che ti pare." Le motivazioni che si adducono come principio di ragion sufficiente dell'agire sono apparenti, irreali, "fenomeniche" appunto: suscitano l'azione ma non la determinano in vista di un "regno dei fini" (Kant) o di un piano predisposto dall'astuzia della ragione" (Hegel); l'azione è determinata dall'insopprimibile volontà di vita che dice carenza, bisogno, tensione, oltrepassamento infinito di sé. Non il compimento della sintesi dialettica, ma la tensione infinita della volontà spiega l'agire e l'operare dell'uomo nel mondo; ogni motivazione razionale, ogni imperativo morale che si volesse addurre a sua giustifiacazione è smascherato dall'insorgere della tensione oltre ogni presunto compimento, dall'insoddisfazione di ogni appagamento che si riteneva compiuto. Presupporre che l'agire possa realizzare la propria soddisfazione significherebbe presupporre la capacità da parte dell'agire di trasformare la struttura metafisica dell'essere, quindi la capacità da parte dell'uomo di disporre della propria "radice". Siccome ciò è impossibile, ogni discorso relativo alla libertà dell'agire e alla razionalità del comportamento etico si giustifica solo nel misconoscimento di questa impossibilità. L'agire non è libero, non ha alcun fine, soddisfa solo il bisogno infinito che lo sostanzia e che lo pone in essere sul piano fenomenico, dove la ragione interviene, con le sue "ragioni sufficienti", nel tentativo di giustificarlo e di dargli un senso più o meno ultimo. Da questo ingannevole tentativo nascono le morali, gli ideali e i valori che la ragione impone come doveroso realizzare. Si tratta di "gusci vuoti senza nocciolo" , scrive Schopenhauer, che vivono sulla rimozione del momento materiale, corporeo, pulsionale che, riconosciuto, renderebbe impossibile quella riduzione della volontà a ragione su cui non solo la morale kantiana, ma ogni morale edifica le sue costruzioni.

 

 
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Gli equivoci dell'anima Umberto Galimberti

Post n°5 pubblicato il 19 Febbraio 2009 da cazzuu

La rinuncia alla volontà di vita è la via seguita da Schopenhauer. Questa rinuncia non deve essere vista come il semplice negativo della "ragione" kantiana ed hegeliana , ma come lo smascheramento della ragione , come la spiegazione effettiva di ciò che si nasconde alle sue spalle e la promuove. Solo così Schopenhauer diventa esponente critico dell'Occidente e i suoi richiami all'Oriente non privi di significato. 

 

 

 

 

 

 
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Media

Post n°4 pubblicato il 31 Gennaio 2008 da cazzuu

Se non c'è un mondo al di la della sua descrizione, la telecomunicazione non è un ”mezzo" che rende pubblici dei fatti, ma la pubblicità che concede diventa il "fine" per cui i fatti accadono. L'informazione cessa di essere un "resoconto" per tradursi in una vera e propria "costruzione" dei fatti, e questo non nel senso che molti fatti del mondo non avrebbero rilevanza se i media non ce li proponessero, ma perché un enorme

numero di azioni non verrebbero compiute se i mezzi di comunicazione non ne dessero notizia. Oggi il mondo accade perché lo si comunica, e il mondo comunicato è l'unico che abitiamo. Non più un mondo di fatti e poi l'informazione, ma un mondo di fatti per l'informazione. Solo il silenzio restituirebbe al mondo la sua genuinità. Ma questo non è più possibile. E cosi, quello che andava profilandosi sul registro innocente dell'informazione diventa il luogo eminente della costruzione del vero e del falso, non perché i mezzi di comunicazione mentono, ma perché nulla viene più fatto se non per essere telecomunicato. ll mondo si risolve nella sua narrazione.

Gli effetti di questo risolvimento sono facilmente intuibili se appena volgiamo l'attenzione a quel gioco dei consensi che siamo soliti chiamare democrazia. Se infatti la realtà del mondo non è più discernibile dal racconto del mondo, il consenso non avviene più sulle cose, ma sulla descrizione delle cose, che ha preso il posto della loro realtà.

 

Psiche e techne

 Di Umberto Galimberti

 
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