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UNA COSTITUZIONE LIBERALE PER L’ITALIA

Post n°7 pubblicato il 05 Gennaio 2016 da aran.banjo78

UNA COSTITUZIONE LIBERALE PER L’ITALIA

    Chi sostiene che la nostra Carta Costituzionale, nata nel 1948, fu realizzata da forze politiche liberali, e soprattutto, che essa abbia al suo interno un’anima liberale, o è in malafede, o non sa cos’è il liberalismo. Nessuno nega che tra le forze politiche incaricate di redigere un nuovo testo costituzionale ci fossero alte figure del liberalismo italiano, ma sicuramente esse furono quasi ininfluenti nell’apportare il loro contributo liberale al testo. Sarebbe perfino troppo facile citare i numerosi scritti sull’argomento che andrebbero a confermare la tesi della non liberalità della Carta, e non sarebbe necessario neanche scomodare illustri scrittori ed economisti del calibro di Piero Ostellino o Antonio Martino, i quali, suffragherebbero all’istante la su detta affermazione. Perfino un quadrupede, infatti, leggendo il dettato costituzionale, si renderebbe subito conto, che quelle forze politiche uscite vincitrici dalle rovine della seconda guerra mondiale, e che avevano oramai in mano le sorti dell’Italia, non erano animate da alcun intento liberale nel momento in cui si apprestavano ad elaborare un nuovo testo costituzionale per la nuova Italia. Leggendo i primi 54 articoli del dettato, risulta subito evidente, infatti, che essi si configurano come un vero e proprio programma politico, nato prevalentemente dall’accordo tra la Democrazia Cristiana, il Partito Socialista e il Partito Comunista, che alla Costituente del 1946 rappresentavano circa l’80 per cento della totalità dei seggi. Proprio la natura prescrittiva della nostra Costituzione (cioè una elencazione di cose che lo Stato avrebbe dovuto fare in futuro, sia nei confronti dei cittadini che delle famiglie, sia nell’economia che per le confessioni religiose) fece si, che in essa, automaticamente, non potesse comparire nessun messaggio o qualsivoglia tipo di suggerimento di indirizzo liberale per l’avvenire dell’Italia (una Costituzione liberale, infatti, non può essere di tipo prescrittivo come quella vigente in Italia!). D’altro canto, i valori nazionali e liberali, tanto cari al Risorgimento, e fondanti lo Stato liberale italiano, i quali erano incarnati dalla Monarchia Sabauda, furono di fatto esclusi dal dettato costituzionale, perché ritenuti, per evidenti ragioni storiche, incompatibili con le ideologie dei tre partiti politici oramai dominanti. I padri costituenti decisero quindi di elaborare il nuovo testo costituzionale basandolo su nuovi principi, che per certi aspetti erano ancora estranei al popolo italiano, si trattava dei principi democratici, e quelli del solidarismo sociale, che non erano però, e non risultano essere tutt’ora, valori inclusivi di tutte le possibili culture politiche, tanto che, ad esempio, un liberalismo di tipo thatcheriano inglese o reaganiano americano, sarebbero collocati perfino al di fuori dalla nostra Costituzione! Ma l’esempio più calzante, quello cioè che forse ci convince di più a farci pensare che la nostra Costituzione non è fondata su principi  liberali, è rappresentato dall’ultimo articolo del dettato, il 139°, il quale vieta ai cittadini italiani di scegliersi la propria forma di Stato. In realtà però, esso, e va detto senza alcuna ironia, sembrerebbe rappresentare solo l’apoteosi finale dell’illiberalità del nostro intero reticolato costituzionale. Dunque, di fatto, l’unica concessione che i cosiddetti padri costituenti fecero alle forze politiche liberali, fu solo quella di aver voluto conservare, pressoché interamente, l’impianto delle Istituzioni governative nate con lo Statuto Albertino nel 1848, (anche perché sarebbe stato troppo complesso e troppo rischioso utilizzare Istituzioni diverse e mai sperimentate prima!) migliorandone in alcuni casi le funzioni, e peggiorandole in altri. A proposito di riforme migliorative, o peggiorative, la recente riforma del Senato voluta dal governo Renzi (in attesa del Referendum confermativo), si rivelerebbe non tanto una riforma nefasta in se, piuttosto, sembrerebbe che sia il rapporto che il nuovo Senato potrà instaurare in futuro con gli altri organi costituzionali, tanto a livello nazionale quanto a livello locale, a creare le maggiori perplessità sulla validità della stessa, ma soprattutto, se non verrà corretta la nuova legge elettorale, sarà il fatto di avere una Camera bassa prona all’esecutivo (che sinceramente non ne sentivamo la necessità), ad apportare gli effetti peggiori sull’intero impianto democratico del nostro Paese. Abbiamo già dato in passato in questo senso, e sappiamo come finì. Di fronte allo sgretolamento progressivo delle nostre Istituzioni, sotto gli occhi indifferenti del popolo italiano oramai assuefatto e rassegnato ad un tragico destino, solo la convocazione di una nuova Assemblea Costituente che ridisegni l’intera architettura costituzionale, che ne riequilibri i suoi poteri, e che sia davvero ispirata da principi liberali, potrà salvare il popolo italiano da un inevitabile declino e renderlo di nuovo protagonista, e magari, farlo gridare ancora: Viva il Re! e Viva L’Italia!

 
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LE MONARCHIE AMATE DAL POPOLO, LE REPUBBLICHE DALLE OLIGARCHIE

Post n°6 pubblicato il 25 Luglio 2014 da aran.banjo78

L’Europa è stata recentemente testimone di varie manifestazioni di entusiasmo popolare legate alla vita delle Monarchie regnanti. Nei Paesi Bassi, lo scorso 30 aprile, in una stracolma piazza di Amsterdam il popolo ha accolto il nuovo Re Guglielmo Alessandro e ringraziato l’amatissima Regina Beatrice. Stessa sorte è capitata il 21 luglio ad una Bruxelles tricolore che ha osannato il nuovo Re dei Belgi Filippo e salutato l’abdicatario Re Alberto II. Sempre nel mese di luglio migliaia di britannici si sono riversati nelle strade per dimostrare il proprio entusiasmo dovuto alla nascita dell’Erede al Trono, il Principe George, figlio dei Duchi di Cam-bridge William e Kate, esattamente come per il Giubileo della Regina Elisabetta. In Italia però lo scorso 22 aprile Giorgio Napoli-tano si è recato a Montecitorio per giurare davanti alle Camere riunite per il suo secondo mandato e la situazione non era pro-priamente equiparabile a quella dei "colleghi" Capi di Stato delle Monarchie europee. Il corteo, partito dal Quirinale, si è snodato per via XXIV Maggio, via IV novembre, piazza Venezia e via del Corso. I giornalisti hanno seguito in diretta tutti gli spostamenti presidenziali, hanno trasmesso persino le riprese aeree ma una cosa è subito balzata agli occhi: le strade di Roma erano semi-deserte, evento più unico che raro. Sarà stata colpa della leggera pioggerellina che velava la Città Eterna? O forse no…

 
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LA MONARCHIA IN 12 PUNTI

Post n°5 pubblicato il 18 Luglio 2014 da aran.banjo78


I vantaggi della Monarchia.
... La Monarchia rende visibile e simboleggia la sovranità, proprietà ineludibile della politicità. La Monarchia coniuga le prestazioni della pluralità e i vantaggi dell'unità, indispensabili per l'esercizio insieme coerente ed efficace della sovranità. Correlativamente, evita la perversione del pluralismo, cioè la polverizzazione decisionale e rappresentativa, e in pari tempo evita l'ipertrofia monocratica. A questo duplice fine, attorno alla Monarchia tende a realizzarsi una aristocrazia dello spirito di servizio capace sia di contenere e riequilibrare le spinte particolaristiche inerenti agli interessi oligarchici sia di conferire ricchezza operativa al processo di mantenimento e trasmissione dello spirito civico nel meccanismo di gestione della repubblica.

La Monarchia: antidoto alle oligarchie.
La Monarchia è più sottratta della democrazia repubblicana all'influenza del denaro, del numero, della competenza, persino della nascita, e alle pressioni dei loro interessi particolari e organizzazioni relative. Non solo. Mentre numero e denaro così potenti nella repubblica democratica tendono ad esaltare la forza della quantità essendo entrambi elementi quantitativi la Monarchia integra il dato quantitativo con il dato qualitativo, essenziale per essa sub specie sia di educazione sia di distinzioni sia di tradizione culturale morale e storica.

Campagna anti IMU

La Corona per l'interesse generale.
Certo, anche della Monarchia si può dire, lo sappiamo bene, che ha il suo "interesse particolare". Ma tale interesse, che è la persistenza della Corona, coincide con l'interesse generale della nazione, poichè è interesse della dinastia regia equilibrare i particolarismi delle oligarchie del denaro, del numero, della nascita, della competenza, evitando che ciascuna prevarichi fino a minacciare la Corona: ma tale equilibrio è in pari tempo l'interesse generale della nazione, affinchè nessuno concentri troppo potere e soggioghi gli altri. Il re è "preparato", attraverso l'educazione, a tale scopo.

La Monarchia come stimolo e freno.
Ecco perchè, quando sulla società incombe la cappa dell'immobilismo, alla Monarchia preme agevolare i fattori di riforma e trasformazione, quando la società è sollecitata da stimoli troppo forti di cambiamento poco meditato, alla Monarchia pertiene un ruolo di riflessione perchè la dinamica sociale, civile e istituzionale sia condotta entro limiti più pacati e graduali. Nell'un caso e nell'altro, nè di destra nè di sinistra.

La Monarchia non può avere il colore delle parti.
Grazie alla sua continuità, alla sua autonomia rispetto alle parti, alla sua identificazione con lo Stato e le sue istituzioni fondanti, la Monarchia ereditaria sottrae il vertice dello Stato al conflitto delle elezioni ricorrenti, ai relativi do ut des. Risolve in maniera automatica e comparativamente pacifica il problema, cruciale in ogni sistema politico, della successione protestativa al più alto livello statuale. Incarna, con la sua continuità, la collaborazione delle generazioni. Nel variare inevitabile e anche legittimo di congiunture, orientamenti, umori popolari, assolve tuttavia quella che è la funzione fondamentale e distintiva della leadership politica, cioè la proiezione nei tempi lunghi, la costanza delle grandi direttrici e dei supremi e permanenti interessi nazionali , mentre la politica democratica repubblicana è condannata dalla sua stessa intrinseca struttura alla proiezione e all'esaurimento nei tempi brevi, nell'immediatezza, improvvisazione, ondivaghezza, provvisorietà, contradditorietà, precarietà e contingenza di interessi, aspettative, suggestioni, emotività, strepiti e domande particolari.

La Monarchia vincola le strutture fondamentali della statualità.
La Monarchia vincola le strutture fondamentali della statualità (forze armate, diplomazia, magistratura, alta amministrazione) alla Corona, alle sue regole, alle sue lealtà, proteggendo tali importanti uffici dalle pressioni e invadenze delle fazioni. Evita che le parti coinvolgano nei loro interessi speciali e particolari (siano essi politici, economici, culturali) l'istituzione simbolo dell'unità nazionale. Salvaguarda così lo Stato nella sua coerenza decisionale e operativa, la sua persistenza e l'imparzialità delle sue leggi. Garantisce ai singoli e ai gruppi, nell'autonomia della società civile, tutta la libertà compatibile con la dignità e l'esercizio dell'autorità.

La Monarchia è capace di autocorrezione.
Sempre entro gli spazi della natura umana, così gravemente vulnerata nella sua disponibilità verso il bene, la Monarchia è capace di autocorrezione almeno altrettanto della democrazia, perchè se è varo che nei reggimenti democratici l'attitudine autocorrettiva è assecondata dal principio del dissenso (che consente talvolta di evitare, talvolta di evidenziare gli errori), nella Monarchia tale attitudine è incoraggiata dal senso del limite, dalla temperanza, così strettamente legata al ruolo equilibratore. Certo, la Monarchia può perdere capacità autocorrettiva, ad esempio se diventa assolutismo Regio. Ma altrettanto vale per la democrazia, se diventa assolutismo democratico, con le sue due facce uguali e contrarie, talora divergenti talora convergenti: l'eccesso di dispersione, la tirannide della maggioranza, sia essa popolare o parlamentare. Senza dire che mentre per la Monarchia europea l'asolutismo è una forzatura (infatti, da Machiavelli a Montesquieu la grande tradizione culturale del nostro continente lega costantemente la Monarchia alla co-esistenza con una varietà di poteri intermedi), per la democrazia repubblicana l'assolutismo è nelle sue stesse premesse dottrinali e persino antropologiche, non riconoscendo la democrazia repubblicana altro titolo potestativo salvo il numero, la conta dei voti. La vocazione monistica è dunque in principio, più forte e più coerente nella democrazia repubblicana che nella Monarchia.

Costruzione dello Stato nazionale e dinastia sabauda.
Tutti conosciamo la realtà istituzionale della penisola prima del processo risorgimentale, e tutti sappiamo, ad esempio, che altre casate importanti regnavano su porzioni del territorio italiano. C'era dunque una situazione potenzialmente aperta, nella quale ad altre dinastie si sarebbe offerta l'opportunità di costruzione della nazione e dello stato unitario. Ciò non è accaduto. Mentre il resto delle altre case regnanti, pure di altissimo lignaggio, è rimasto sostanzialmente privo di iniziativa e legato a interessi preminenti di potenze straniere, Casa Savoia è stata l'unica dinastia che ha rischiato in proprio, che si è messa in discussione, che non si è sottratta a quel compito unitario cui altri grandi popoli dalla Francia alla Gran Bretagna avevano atteso già da secoli, ha dunque accettato la sfida dello State building e del Nation building ponendo a disposizione i suoi statisti, le sue armate, la sua diplomazia, trovandosi spesso sulla sua strada come ostacoli proprio quelle dinastie e quei regimi così legati ad altri interessi consolidati, stranieri o ecumenici.

I Savoia e l'interesse generale dell'Italia.
Senza dubbio, la dinastia sabauda può avere perseguito anche un suo interesse espansivo, e inoltre ha giocato sullo scacchiere internazionale collegandosi ora a questa ora a quest'altra potenza, ispirandosi ora ad una prospettiva culturale ora a un'altra. Ma tale dinamica ha coinciso con l'interesse generale dell'Italia a diventare finalmente Stato nazionale, come tutte le tendenze europee del tempo esigevano, è stata dunque costantemente canalizzata a questo fine. Perciò, certe romanticherie letterarie, tese a rivendicare suggestioni neo-borboniche o neo-lorenesi o neo-papaline e via dicendo, certe rivisitazioni storiografiche, miranti a sottolineare "prepotenze piemontesi" come se la politica agisse sempre in guanti bianchi, certi rigurgiti anti-unitari nutriti di umori filo-asburgici, nulla possono togliere al fatto che senza davvero trascurare i meriti culturali, le realizzazioni istituzionali e i risultati morali e materiali riferibili ad altre dinastie, senza nulla sottrarre al rispetto che si deve a grandi tradizioni incarnate dalle dinastie poi sconfitte Casa Savoia ha conquistato sul terreno cruciale e ineludibile dell'unità nazionale il suo primato, mentre gli altri soggetti istituzionali hanno mancato proprio su tale terreno. Casa Savoia e Stato nazionale sono legati in un nesso genetico che nessuna contorsione polemica, di qualunque segno, può cancellare...

Monarchia e fascismo.
...Le responsabilità dell'ascesa al potere del movimento fascista rinviano all'incapacità delle forze partitiche liberali, democratiche, cattoliche, e socialiste di assicurare un'adeguata governabilità alla nazione, di realizzare la "nazionalizzazione delle masse" in un quadro di adesione alle "regole del gioco" competitive, di perseguire forme pacifiche di convivenza sociale. Il fascismo non è la causa, ma il sintomo della crisi dell'assetto politico rappresentativo nell'emergenza delle prime formazioni di massa. E si può aggiungere che nel movimento fascista, coacervo di indirizzi culturali e istituzionali variamente assortiti (passatisti e futuristi, Strapaese Stracittà, monarchici e repubblicani, cattolici e laici, industrialisti e anti-industrialisti, conservatori e rivoluzionari, nazionalisti e socialisti), era presente anche una componente di ispirazione e vocazione totalitaria. Se questa componente fosse prevalsa, l'Italia avrebbe probabilmente conosciuto un regime totalitario, con tutti gli immensi costi umani, morali, civili, che accompagnano tale forma di dominio politico. La Monarchia, però, ha rappresentato un deterrente assai significativo alla trasformazione della dittatura fascista in totalitarismo. Non soltanto, infatti, alla Corona è rimasto collegato in un nesso di sostanziale lealtà primaria il vertice dello Stato, con le sue strutture portanti (forze armate, magistratura, diplomazia, alta amministrazione), mantenendo così una misura apprezzabile di autonomia rispetto al partito unico, ma inoltre la Casa regnante ha contribuito a far sì che nel movimento fascista prendessero e mantenessero il sopravvento quei filoni, quegli orientamenti, quegli uomini, meno inclini alla metamorfosi totalitaria, talchè il "ventennio" può ben essere definito un'esperienza autoritaria, non un regime totalitario. Senza il contrappeso monarchico, la via verso la degenerazione totalitaria sarebbe risultata più sgombra e più facile.

La crisi della democrazia repubblicana in Italia.

Che la crisi della democrazia repubblicana in Italia sia pesante, lo si vede da mille segni. Ne abbiamo accennati molti. Possiamo aggiungere una inquietante decadenza del costume pubblico, gli scontri mortificanti tra poteri costituzionali e al loro interno, una cronica instabilità governativa, una ricorrente lotta di fazioni entro istituzioni delicatissime come la magistratura, le risse tra i corpi di polizia, lo sbandamento e la mortificazione materiale e morale delle forze armate, l'assenza di una politica estera, il senso di frustrazione collettiva, la sfiducia verso la pubblica amministrazione, una burocrazia pubblica i cui unici sussulti di vitalità si registrano quando si tratta di difendere ed incrementare gli innumerevoli orticelli "corporativi", una elefantiasi legislativa che iretisce gli organi statali, paratatali e locali e imprigiona la società civile, il disincanto dei cittadini verso la politica e i suoi uomini, l'anarchismo corrosivo e negatore sia della pacata autorità sia della responsabile libertà , il degrado della scuola e dell'università, persino l'integrità teritoriale della nazione posta in discussione da dissennate tendenze secessioniste. La democrazia, da sola, rischia di non farcela, di rimanere irreparabilmente impaniata nella palude di tutte queste sue contraddizioni e inefficienze, con esiti che potrebbero essere esiziali. La democrazia ha bisogno di aiuto, per evitare guai peggiori. deve accettare una prova di realismo, per evitare di sparire o di svuotarsi fino a snaturarsi del tutto. E deve farlo in tempo, prima che sia troppo tardi. Possiamo non reagire, ma l'alternativa alla mancanza di reazione è l'inarrestabile declino. Invece di rimanere legata con testardaggine feticistica all'unico ed esclusivo principio elettivo (del resto continuamente smentito nella pratica) , la democrazia si renda conto che la "divisione del lavoro" e la "cooperazione degli sforzi" tra principio elettivo e principio ereditario ciascuno preposto a un tipo essenziale di istituzione rappresentano la soluzione più ragionevole ed equilibrata, nell'ottica di quel "governo misto e temperato" che è centrale nella storia europea. E non si dica che il pricipio ereditario è un principio casuale, in questo senso "non logico". Basta osservare l'andamento e il risultato delle campagne e competizioni elettorali nelle democrazie di massa per rendersi conto dell'immenso rilievo che vi assumono, anche statisticamente, gli elementi di casualità e di "non logicità". Gli studiosi del comportamento di voto sanno bene quali e quante motivazioni spesso assurde, anche contraddittorie, banali, epidermiche oppure acriticamente persistenti, pesano potentemente nelle scelte degli elettori. Al confronto, il principio ereditario è un capolavoro di coerenza razionale. D'altro canto la "combinazione" di due "casualità" ha un potenziale di bilanciamnto ed equilibrio superiore ad una unica "casualità" assolutizzata, quale è il criterio elettivo assunto senza residui e tout court. Così come l'uguaglianza reale deriva sopratutto dalla "attenuazione" delle disuguaglianze in virtù del loro bilanciamento reciproco, allo stesso modo due "casualità" di segno diverso si attenuano per reciproca elisione e compensazione. Quando il voto è troppo statico, il monarca ha interesse all'innovazione, quando il voto è troppo volatile, il monarca ha intresse alla stabilità.


Il ripristino dell'Autorità reale.
L'impegno civile per il ripristino dell'autorità regia va visto come il segnale, l'occasione e il volano di quella complessa, pluridimensionale riforma intellettuale e morale, di quel rivolgimento degli spiriti, di quella ripresa della speranza, di quella ricostruzione istituzionale dello Stato che sono essenziali per affrontare attrezzati le sfide dell'avvenire. Non è faccenda di sentimenti, anche se questi contano nel mantenimento dell'identità e della continuità di un popolo. E' sopratutto questione di interesse pubblico, se l'Italia vuole ridiventare una nazione, come pure è stata e come oggi non è più.

 
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PERCHÉ LA MONARCHIA?

Post n°4 pubblicato il 18 Luglio 2014 da aran.banjo78



Perché la Monarchia?

È simbolo d’identità nazionale
Ha una visione di Europa delle Patrie e non dei poteri economici
È garanzia di unità nazionale e di imparzialità al vertice dello Stato
Racchiude in sé tutta la nostra storia nazionale
È un freno al dilagare delle vecchie e nuove lobby che spadroneggiano
… e costa meno della repubblica!


QUALCOSA DI “REALMENTE” NUOVO È POSSIBILE!

Più Italia nell'Europa e nel Mondo!
Coscienza nazionale come orgoglio di appartenenza!
Uguaglianza dei cittadini e tutela dei loro legittimi interessi!
Immigrazione gestita e non subita!

 
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ISRAELE, SENZA SE E SENZA MA

Post n°3 pubblicato il 18 Luglio 2014 da aran.banjo78





                    La guerra nel Vicino Oriente ha un'unica soluzione possibile: il riconoscimento franco, definitivo, “senza se e senza ma” dello Stato di Israele da parte non solo dei governi dei Paesi arabi e islamici, ma anche dei “movimenti” religiosi, politici, militari che lo vogliono distruggere (Hamas è solo uno dei tanti, e neppure il più pericoloso, anche se è in prima fila per motivi territoriali). In sua assenza, lo Stato di Israele ha motivo di difendersi con tutti i mezzi disponibili, come qualunque popolo farebbe per la propria sopravvivenza. Israele ha una ragione in più. A differenza di tutti gli altri Stati della comunità internazionale, conta quattromila anni di storia, e la ricorda tutta, secolo dopo secolo, anno dopo anno, morti dopo morti. Israele non si batte per qualche chilometro quadrato in più o in meno, ma per la sua stessa esistenza. A cospetto degli scontri in corso nel Vicino Oriente, l'Europa mostra quello che è: non esiste. È in preda a una crisi acuta di afasia e di impotenza senile. Dal canto suo l'Italia farfuglia, annaspa, latita. Si volta dall'altra parte. Del resto non ha alcuna politica estera, né militare. È irrilevante.
  I cittadini dello Stato di Israele hanno diritto di vivere in pace. Non sappiamo quali sviluppi avrà questa fase di un conflitto che dura da settant'anni. Si sa come cominciano le guerre, mai come finiscano. Da regionali possono divenire continentali, mondiali. Con gli attuali mezzi di distruzione, possono iniziare come operazioni di polizia e terminare con la pulizia del pianeta. Un punto sul quale occorre avere idee chiare è che Israele combatte per la vita del popolo ebraico. Per comprenderlo vanno ricordate le radici recenti e remote di questa lunga guerra e domandarsi se la Comunità internazionale abbia fatto il minimo sufficiente per risolverla. Sintetizziamo l'inizio del conflitto tra lo Stato ebraico (che non vuol dire “israelitico”) e quelli confinanti e viciniori. Israele nacque in due tempi: il voto dell'Assemblea delle Nazioni Unite per la formazione di due Stati, l'ebraico e il palestinese (29 novembre 1947), e la fine del mandato della Gran Bretagna sulla Palestina (14 maggio 1948), quando l'Assemblea nazionale proclamò l'indipendenza di Israele con ben Gurion presidente. Dal 1917 la Dichiarazione Balfour aveva prospettato il “focolare ebraico”, non un Paese sovrano. Dal 1948, invece, gli ebrei ebbero la loro Patria, solennemente garantita dalla Comunità internazionale, ma subito aggredita militarmente da Egitto, Iraq, Siria, Giordania e Libano intenzionati ad annientarla. Circa 750.000 “palestinesi” (caleidoscopio di genti semitiche, come semiti sono gli ebrei) furono incitati ad abbandonare i territori precedentemente abitati con la promessa che Israele sarebbe stato spazzato via dalla Lega Araba e sarebbero tornati trionfatori. Si aprì la ferita mai rimarginata. Per gli ebrei Israele è la Terra Promessa ma ha ordinamento di Stato di diritto. Per gli islamici la “terra” è della comunità, fondata sulla religione: questione connessa a quella, altrettanto complessa, del califfato. Sono due posizioni radicalmente contrapposte, inconciliabili, fonte di guerra senza mediazione possibile. Se ne esce solo se tutte le parti in conflitto scelgono di ragionare da Stati. Israele lo ha fatto e lo fa (come del resto Egitto, Siria, Giordania e Libano) con relazioni diplomatiche “normali” con la comunità internazionale. Però non può averne con quanti (Stati e/o “organizzazioni”, movimenti, fronti...: ricordiamo l'OLP di Arafat? al-Qaeda di Osama bin Laden? L'Iran del precedente governo?) si propongono il suo annientamento. Questo è il punto. Al riguardo gli “occidentali”, Italia compresa, si sono condotti e di conducono con ambiguità: per opportunismo, per ignoranza e per non fare i conti con la propria stessa storia, nell'oscura consapevolezza di avere ormai nel proprio spazio una chissà quanto numerosa e forte presenza di integralisti islamici, accolti e vezzeggiati come “profughi”, migranti, ecc. ecc. Se fosse stato detto o se venisse affermato chiaro, tondo e una volta per tutte che Israele ha diritto di esistere, i suoi nemici (alcuni Stati anche remoti e il magma del fondamentalismo islamico) non si sarebbero sentiti e non si sentirebbero incoraggiati a scommettere sulla realizzabilità del loro obiettivo: buttare a mare gli ebrei del Vicino Oriente. Se Israele si sentisse davvero garantito dall'Occidente, al suo interno gli integralisti avrebbero avuto e avrebbero meno peso di quanto invece hanno conquistato in un Paese che si sente assediato e che pertanto al proprio interno sprigiona comportamenti belluini (come recentemente dimostrato dal criminale assassinio di un giovane palestinese).
  Lo Stato d'Israele è la cattiva coscienza dell'Occidente. Gli abitanti dell'Italia dovrebbero ricordare che il Colosseo (un mattatoio a cielo aperto) venne eretto da Vespasiano dopo l'annientamento del regno ebraico e la distruzione del Tempio di Salomone (una guerra culminata con la tragedia di Masada) e che, malgrado l'amante ebrea Berenice, suo figlio Tito (ricordato nell'arco che ne celebrò la vittoria del 70 d. Cr.) fu “clemente” dopo aver fatto terra bruciata. Nel 135 d.Cr. l'imperatore Adriano annientò l'ultima ribellione ebraica, guidata da Simon bar Kokhba. Gli ebrei della diaspora vissero quasi due millenni alla mercé di romani, cristiani e musulmani. La loro emancipazione arrivò solo con la proclamazione dei diritti dell'uomo e del cittadino, cioè con la Rivoluzione francese del 1789, che abolì la discriminazione, ripristinata in Italia con la Restaurazione del 1814-1815. Nel regno di Sardegna gli ebrei ebbero diritti civili e politici solo dopo lo Statuto di Carlo Alberto di Savoia (1848), ma a Roma il ghetto fu definitivamente eliminato solo dopo l'annessione dello Stato Pontificio all'Italia (1870). Sessantotto anni dopo gli ebrei vennero retrocessi a cittadini di serie B con le leggi razziali del 1938, sulla cui base furono poi attuate le razzie del 1943-1945. Sono pagine ancora imbarazzanti, come ricordano Avagliano e Palmieri in Di pura razza ariana (Baldini e Castoldi).
  Parlare di questione ebraica significa fare i conti con l'intera storia dell'Otto-Novecento. L'Italia ebbe ebrei pionieri dell'apertura delle comunità israelitiche verso i valori universali dello Stato di diritto (fu il caso del cuneese Lelio della Torre) e contò patrioti non ebrei che si spesero per l'emancipazione degli israeliti. Tra questi meritano memoria il medico e parlamentare Giovanni Battista Borelli (Boves, 1813-Torino, 1891), autore di La questione semitica e la sua possibile soluzione (1883) e il grande calabrese Benedetto Musolino (Pizzo di Calabria, 1809-1885), autore di Gerusalemme ed il popolo ebreo. (*) Nel 1799 suo padre venne trafitto da trenta pugnalate e gettato dal balcone da masnadieri della Compagnia di Santa Fede del cardinale Ruffo. Sopravvisse. Ma nel 1848 fu assassinato dagli sgherri di Ferdinando II di Borbone, che ne fucilarono un figlio. Il suo palazzo venne dato una seconda volta alle fiamme. La moglie e un altro figlio morirono di crepacuore. Già fondatore con Luigi Settembrini dei Figli della Giovane Italia (nulla a che vedere con Mazzini), neocarbonaro, ateo, poi massone e senatore del Regno d'Italia, Benedetto scampò all'estero. In quella temperie ideò la restituzione alla terra natia (quella cantata da Giuseppe Verdi nel “Nabucco”) a “un popolo senza patria, disseminato su tutt'i punti, abitante sotto tutt'i climi... il popolo ebreo”. Se la “questione ebraica” fu tutt'uno con quella italiana (indipendenza, unità, libertà), dalla nascita, nel 1948, lo Stato di Israele è l'unico bastione dei diritti dell'uomo in Asia. Con tutte le differenze evidenti, esso ricorda la resistenza dei Templari a San Giovanni d'Acri. La sua caduta nelle mani degli islamici ebbe conseguenze epocali: centocinquant'anni dopo i turchi entrarono in Costantinopoli. E vi rimangono.
  L'Occidente ha dato e dà innumerevoli prove di miopia, inconcludenza, inerzia, pavidità. Non può però attendersi che Israele si rassegni e si lasci sacrificare. A un suo re, Salomone, sono attribuiti i Proverbi e il Cantico dei Cantici: poesia sublime. L'Ecclesiaste rimane un vertice del pensiero universale. Ma i suoi profeti hanno anche scritto l'Apocalisse. Israele ha almeno 70 delle 16.000 testate nucleari “pronte per l'uso” dell'arsenale planetario. Hamas dice che può battersi per mesi. Gli ebrei lo fanno da millenni.
   Chi disinnescherà la miccia? Anziché assicurare maggiore stabilità planetaria, da decenni USA e occidentali fomentano il disordine (dall'Afghanistan alla Libia, dall'Egitto alla Siria...). È ovvio che, in assenza di alleati affidabili e di amici veri, Israele senta di dover provvedere da sé alla propria sopravvivenza.

 
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