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Creato da aran.banjo78 il 16/12/2012
Pensieri e riflessioni
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L’Europa è stata recentemente testimone di varie manifestazioni di entusiasmo popolare legate alla vita delle Monarchie regnanti. Nei Paesi Bassi, lo scorso 30 aprile, in una stracolma piazza di Amsterdam il popolo ha accolto il nuovo Re Guglielmo Alessandro e ringraziato l’amatissima Regina Beatrice. Stessa sorte è capitata il 21 luglio ad una Bruxelles tricolore che ha osannato il nuovo Re dei Belgi Filippo e salutato l’abdicatario Re Alberto II. Sempre nel mese di luglio migliaia di britannici si sono riversati nelle strade per dimostrare il proprio entusiasmo dovuto alla nascita dell’Erede al Trono, il Principe George, figlio dei Duchi di Cam-bridge William e Kate, esattamente come per il Giubileo della Regina Elisabetta. In Italia però lo scorso 22 aprile Giorgio Napoli-tano si è recato a Montecitorio per giurare davanti alle Camere riunite per il suo secondo mandato e la situazione non era pro-priamente equiparabile a quella dei "colleghi" Capi di Stato delle Monarchie europee. Il corteo, partito dal Quirinale, si è snodato per via XXIV Maggio, via IV novembre, piazza Venezia e via del Corso. I giornalisti hanno seguito in diretta tutti gli spostamenti presidenziali, hanno trasmesso persino le riprese aeree ma una cosa è subito balzata agli occhi: le strade di Roma erano semi-deserte, evento più unico che raro. Sarà stata colpa della leggera pioggerellina che velava la Città Eterna? O forse no…
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![](http://www.monarchia.it/immagini_sabaude/aquila_sabauda.gif)
La Monarchia: antidoto alle oligarchie.
La Monarchia è più sottratta della democrazia repubblicana all'influenza del denaro, del numero, della competenza, persino della nascita, e alle pressioni dei loro interessi particolari e organizzazioni relative. Non solo. Mentre numero e denaro così potenti nella repubblica democratica tendono ad esaltare la forza della quantità essendo entrambi elementi quantitativi la Monarchia integra il dato quantitativo con il dato qualitativo, essenziale per essa sub specie sia di educazione sia di distinzioni sia di tradizione culturale morale e storica.
![Campagna anti IMU](http://www.monarchia.it/news_file/IMU.gif)
La Corona per l'interesse generale.
Certo, anche della Monarchia si può dire, lo sappiamo bene, che ha il suo "interesse particolare". Ma tale interesse, che è la persistenza della Corona, coincide con l'interesse generale della nazione, poichè è interesse della dinastia regia equilibrare i particolarismi delle oligarchie del denaro, del numero, della nascita, della competenza, evitando che ciascuna prevarichi fino a minacciare la Corona: ma tale equilibrio è in pari tempo l'interesse generale della nazione, affinchè nessuno concentri troppo potere e soggioghi gli altri. Il re è "preparato", attraverso l'educazione, a tale scopo.
La Monarchia come stimolo e freno.
Ecco perchè, quando sulla società incombe la cappa dell'immobilismo, alla Monarchia preme agevolare i fattori di riforma e trasformazione, quando la società è sollecitata da stimoli troppo forti di cambiamento poco meditato, alla Monarchia pertiene un ruolo di riflessione perchè la dinamica sociale, civile e istituzionale sia condotta entro limiti più pacati e graduali. Nell'un caso e nell'altro, nè di destra nè di sinistra.
La Monarchia non può avere il colore delle parti.
Grazie alla sua continuità, alla sua autonomia rispetto alle parti, alla sua identificazione con lo Stato e le sue istituzioni fondanti, la Monarchia ereditaria sottrae il vertice dello Stato al conflitto delle elezioni ricorrenti, ai relativi do ut des. Risolve in maniera automatica e comparativamente pacifica il problema, cruciale in ogni sistema politico, della successione protestativa al più alto livello statuale. Incarna, con la sua continuità, la collaborazione delle generazioni. Nel variare inevitabile e anche legittimo di congiunture, orientamenti, umori popolari, assolve tuttavia quella che è la funzione fondamentale e distintiva della leadership politica, cioè la proiezione nei tempi lunghi, la costanza delle grandi direttrici e dei supremi e permanenti interessi nazionali , mentre la politica democratica repubblicana è condannata dalla sua stessa intrinseca struttura alla proiezione e all'esaurimento nei tempi brevi, nell'immediatezza, improvvisazione, ondivaghezza, provvisorietà, contradditorietà, precarietà e contingenza di interessi, aspettative, suggestioni, emotività, strepiti e domande particolari.
La Monarchia vincola le strutture fondamentali della statualità.
La Monarchia vincola le strutture fondamentali della statualità (forze armate, diplomazia, magistratura, alta amministrazione) alla Corona, alle sue regole, alle sue lealtà, proteggendo tali importanti uffici dalle pressioni e invadenze delle fazioni. Evita che le parti coinvolgano nei loro interessi speciali e particolari (siano essi politici, economici, culturali) l'istituzione simbolo dell'unità nazionale. Salvaguarda così lo Stato nella sua coerenza decisionale e operativa, la sua persistenza e l'imparzialità delle sue leggi. Garantisce ai singoli e ai gruppi, nell'autonomia della società civile, tutta la libertà compatibile con la dignità e l'esercizio dell'autorità.
La Monarchia è capace di autocorrezione.
Sempre entro gli spazi della natura umana, così gravemente vulnerata nella sua disponibilità verso il bene, la Monarchia è capace di autocorrezione almeno altrettanto della democrazia, perchè se è varo che nei reggimenti democratici l'attitudine autocorrettiva è assecondata dal principio del dissenso (che consente talvolta di evitare, talvolta di evidenziare gli errori), nella Monarchia tale attitudine è incoraggiata dal senso del limite, dalla temperanza, così strettamente legata al ruolo equilibratore. Certo, la Monarchia può perdere capacità autocorrettiva, ad esempio se diventa assolutismo Regio. Ma altrettanto vale per la democrazia, se diventa assolutismo democratico, con le sue due facce uguali e contrarie, talora divergenti talora convergenti: l'eccesso di dispersione, la tirannide della maggioranza, sia essa popolare o parlamentare. Senza dire che mentre per la Monarchia europea l'asolutismo è una forzatura (infatti, da Machiavelli a Montesquieu la grande tradizione culturale del nostro continente lega costantemente la Monarchia alla co-esistenza con una varietà di poteri intermedi), per la democrazia repubblicana l'assolutismo è nelle sue stesse premesse dottrinali e persino antropologiche, non riconoscendo la democrazia repubblicana altro titolo potestativo salvo il numero, la conta dei voti. La vocazione monistica è dunque in principio, più forte e più coerente nella democrazia repubblicana che nella Monarchia.
Costruzione dello Stato nazionale e dinastia sabauda.
Tutti conosciamo la realtà istituzionale della penisola prima del processo risorgimentale, e tutti sappiamo, ad esempio, che altre casate importanti regnavano su porzioni del territorio italiano. C'era dunque una situazione potenzialmente aperta, nella quale ad altre dinastie si sarebbe offerta l'opportunità di costruzione della nazione e dello stato unitario. Ciò non è accaduto. Mentre il resto delle altre case regnanti, pure di altissimo lignaggio, è rimasto sostanzialmente privo di iniziativa e legato a interessi preminenti di potenze straniere, Casa Savoia è stata l'unica dinastia che ha rischiato in proprio, che si è messa in discussione, che non si è sottratta a quel compito unitario cui altri grandi popoli dalla Francia alla Gran Bretagna avevano atteso già da secoli, ha dunque accettato la sfida dello State building e del Nation building ponendo a disposizione i suoi statisti, le sue armate, la sua diplomazia, trovandosi spesso sulla sua strada come ostacoli proprio quelle dinastie e quei regimi così legati ad altri interessi consolidati, stranieri o ecumenici.
I Savoia e l'interesse generale dell'Italia.
![](http://www.monarchia.it/immagini_sabaude/festone_bandiere.gif)
Monarchia e fascismo.
...Le responsabilità dell'ascesa al potere del movimento fascista rinviano all'incapacità delle forze partitiche liberali, democratiche, cattoliche, e socialiste di assicurare un'adeguata governabilità alla nazione, di realizzare la "nazionalizzazione delle masse" in un quadro di adesione alle "regole del gioco" competitive, di perseguire forme pacifiche di convivenza sociale. Il fascismo non è la causa, ma il sintomo della crisi dell'assetto politico rappresentativo nell'emergenza delle prime formazioni di massa. E si può aggiungere che nel movimento fascista, coacervo di indirizzi culturali e istituzionali variamente assortiti (passatisti e futuristi, Strapaese Stracittà, monarchici e repubblicani, cattolici e laici, industrialisti e anti-industrialisti, conservatori e rivoluzionari, nazionalisti e socialisti), era presente anche una componente di ispirazione e vocazione totalitaria. Se questa componente fosse prevalsa, l'Italia avrebbe probabilmente conosciuto un regime totalitario, con tutti gli immensi costi umani, morali, civili, che accompagnano tale forma di dominio politico. La Monarchia, però, ha rappresentato un deterrente assai significativo alla trasformazione della dittatura fascista in totalitarismo. Non soltanto, infatti, alla Corona è rimasto collegato in un nesso di sostanziale lealtà primaria il vertice dello Stato, con le sue strutture portanti (forze armate, magistratura, diplomazia, alta amministrazione), mantenendo così una misura apprezzabile di autonomia rispetto al partito unico, ma inoltre la Casa regnante ha contribuito a far sì che nel movimento fascista prendessero e mantenessero il sopravvento quei filoni, quegli orientamenti, quegli uomini, meno inclini alla metamorfosi totalitaria, talchè il "ventennio" può ben essere definito un'esperienza autoritaria, non un regime totalitario. Senza il contrappeso monarchico, la via verso la degenerazione totalitaria sarebbe risultata più sgombra e più facile.
La crisi della democrazia repubblicana in Italia.
![](http://www.monarchia.it/news_file/quirinale_domanda.jpg)
Il ripristino dell'Autorità reale.
![](http://www.monarchia.it/news_file/varese_XXVI_maggio_2.jpg)
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![Perché la Monarchia?](http://www.monarchia.it/organigramma/volantino_monarchia.jpg)
È simbolo d’identità nazionale
Ha una visione di Europa delle Patrie e non dei poteri economici
È garanzia di unità nazionale e di imparzialità al vertice dello Stato
Racchiude in sé tutta la nostra storia nazionale
È un freno al dilagare delle vecchie e nuove lobby che spadroneggiano
… e costa meno della repubblica!
QUALCOSA DI “REALMENTE” NUOVO È POSSIBILE!
Più Italia nell'Europa e nel Mondo!
Coscienza nazionale come orgoglio di appartenenza!
Uguaglianza dei cittadini e tutela dei loro legittimi interessi!
Immigrazione gestita e non subita!
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![](http://www.worldtribune.com/wp-content/uploads/2014/03/israel-arrow-interceptor-test.si_.jpg)
I cittadini dello Stato di Israele hanno diritto di vivere in pace. Non sappiamo quali sviluppi avrà questa fase di un conflitto che dura da settant'anni. Si sa come cominciano le guerre, mai come finiscano. Da regionali possono divenire continentali, mondiali. Con gli attuali mezzi di distruzione, possono iniziare come operazioni di polizia e terminare con la pulizia del pianeta. Un punto sul quale occorre avere idee chiare è che Israele combatte per la vita del popolo ebraico. Per comprenderlo vanno ricordate le radici recenti e remote di questa lunga guerra e domandarsi se la Comunità internazionale abbia fatto il minimo sufficiente per risolverla. Sintetizziamo l'inizio del conflitto tra lo Stato ebraico (che non vuol dire “israelitico”) e quelli confinanti e viciniori. Israele nacque in due tempi: il voto dell'Assemblea delle Nazioni Unite per la formazione di due Stati, l'ebraico e il palestinese (29 novembre 1947), e la fine del mandato della Gran Bretagna sulla Palestina (14 maggio 1948), quando l'Assemblea nazionale proclamò l'indipendenza di Israele con ben Gurion presidente. Dal 1917 la Dichiarazione Balfour aveva prospettato il “focolare ebraico”, non un Paese sovrano. Dal 1948, invece, gli ebrei ebbero la loro Patria, solennemente garantita dalla Comunità internazionale, ma subito aggredita militarmente da Egitto, Iraq, Siria, Giordania e Libano intenzionati ad annientarla. Circa 750.000 “palestinesi” (caleidoscopio di genti semitiche, come semiti sono gli ebrei) furono incitati ad abbandonare i territori precedentemente abitati con la promessa che Israele sarebbe stato spazzato via dalla Lega Araba e sarebbero tornati trionfatori. Si aprì la ferita mai rimarginata. Per gli ebrei Israele è la Terra Promessa ma ha ordinamento di Stato di diritto. Per gli islamici la “terra” è della comunità, fondata sulla religione: questione connessa a quella, altrettanto complessa, del califfato. Sono due posizioni radicalmente contrapposte, inconciliabili, fonte di guerra senza mediazione possibile. Se ne esce solo se tutte le parti in conflitto scelgono di ragionare da Stati. Israele lo ha fatto e lo fa (come del resto Egitto, Siria, Giordania e Libano) con relazioni diplomatiche “normali” con la comunità internazionale. Però non può averne con quanti (Stati e/o “organizzazioni”, movimenti, fronti...: ricordiamo l'OLP di Arafat? al-Qaeda di Osama bin Laden? L'Iran del precedente governo?) si propongono il suo annientamento. Questo è il punto. Al riguardo gli “occidentali”, Italia compresa, si sono condotti e di conducono con ambiguità: per opportunismo, per ignoranza e per non fare i conti con la propria stessa storia, nell'oscura consapevolezza di avere ormai nel proprio spazio una chissà quanto numerosa e forte presenza di integralisti islamici, accolti e vezzeggiati come “profughi”, migranti, ecc. ecc. Se fosse stato detto o se venisse affermato chiaro, tondo e una volta per tutte che Israele ha diritto di esistere, i suoi nemici (alcuni Stati anche remoti e il magma del fondamentalismo islamico) non si sarebbero sentiti e non si sentirebbero incoraggiati a scommettere sulla realizzabilità del loro obiettivo: buttare a mare gli ebrei del Vicino Oriente. Se Israele si sentisse davvero garantito dall'Occidente, al suo interno gli integralisti avrebbero avuto e avrebbero meno peso di quanto invece hanno conquistato in un Paese che si sente assediato e che pertanto al proprio interno sprigiona comportamenti belluini (come recentemente dimostrato dal criminale assassinio di un giovane palestinese).
Lo Stato d'Israele è la cattiva coscienza dell'Occidente. Gli abitanti dell'Italia dovrebbero ricordare che il Colosseo (un mattatoio a cielo aperto) venne eretto da Vespasiano dopo l'annientamento del regno ebraico e la distruzione del Tempio di Salomone (una guerra culminata con la tragedia di Masada) e che, malgrado l'amante ebrea Berenice, suo figlio Tito (ricordato nell'arco che ne celebrò la vittoria del 70 d. Cr.) fu “clemente” dopo aver fatto terra bruciata. Nel 135 d.Cr. l'imperatore Adriano annientò l'ultima ribellione ebraica, guidata da Simon bar Kokhba. Gli ebrei della diaspora vissero quasi due millenni alla mercé di romani, cristiani e musulmani. La loro emancipazione arrivò solo con la proclamazione dei diritti dell'uomo e del cittadino, cioè con la Rivoluzione francese del 1789, che abolì la discriminazione, ripristinata in Italia con la Restaurazione del 1814-1815. Nel regno di Sardegna gli ebrei ebbero diritti civili e politici solo dopo lo Statuto di Carlo Alberto di Savoia (1848), ma a Roma il ghetto fu definitivamente eliminato solo dopo l'annessione dello Stato Pontificio all'Italia (1870). Sessantotto anni dopo gli ebrei vennero retrocessi a cittadini di serie B con le leggi razziali del 1938, sulla cui base furono poi attuate le razzie del 1943-1945. Sono pagine ancora imbarazzanti, come ricordano Avagliano e Palmieri in Di pura razza ariana (Baldini e Castoldi).
Parlare di questione ebraica significa fare i conti con l'intera storia dell'Otto-Novecento. L'Italia ebbe ebrei pionieri dell'apertura delle comunità israelitiche verso i valori universali dello Stato di diritto (fu il caso del cuneese Lelio della Torre) e contò patrioti non ebrei che si spesero per l'emancipazione degli israeliti. Tra questi meritano memoria il medico e parlamentare Giovanni Battista Borelli (Boves, 1813-Torino, 1891), autore di La questione semitica e la sua possibile soluzione (1883) e il grande calabrese Benedetto Musolino (Pizzo di Calabria, 1809-1885), autore di Gerusalemme ed il popolo ebreo. (*) Nel 1799 suo padre venne trafitto da trenta pugnalate e gettato dal balcone da masnadieri della Compagnia di Santa Fede del cardinale Ruffo. Sopravvisse. Ma nel 1848 fu assassinato dagli sgherri di Ferdinando II di Borbone, che ne fucilarono un figlio. Il suo palazzo venne dato una seconda volta alle fiamme. La moglie e un altro figlio morirono di crepacuore. Già fondatore con Luigi Settembrini dei Figli della Giovane Italia (nulla a che vedere con Mazzini), neocarbonaro, ateo, poi massone e senatore del Regno d'Italia, Benedetto scampò all'estero. In quella temperie ideò la restituzione alla terra natia (quella cantata da Giuseppe Verdi nel “Nabucco”) a “un popolo senza patria, disseminato su tutt'i punti, abitante sotto tutt'i climi... il popolo ebreo”. Se la “questione ebraica” fu tutt'uno con quella italiana (indipendenza, unità, libertà), dalla nascita, nel 1948, lo Stato di Israele è l'unico bastione dei diritti dell'uomo in Asia. Con tutte le differenze evidenti, esso ricorda la resistenza dei Templari a San Giovanni d'Acri. La sua caduta nelle mani degli islamici ebbe conseguenze epocali: centocinquant'anni dopo i turchi entrarono in Costantinopoli. E vi rimangono.
L'Occidente ha dato e dà innumerevoli prove di miopia, inconcludenza, inerzia, pavidità. Non può però attendersi che Israele si rassegni e si lasci sacrificare. A un suo re, Salomone, sono attribuiti i Proverbi e il Cantico dei Cantici: poesia sublime. L'Ecclesiaste rimane un vertice del pensiero universale. Ma i suoi profeti hanno anche scritto l'Apocalisse. Israele ha almeno 70 delle 16.000 testate nucleari “pronte per l'uso” dell'arsenale planetario. Hamas dice che può battersi per mesi. Gli ebrei lo fanno da millenni.
Chi disinnescherà la miccia? Anziché assicurare maggiore stabilità planetaria, da decenni USA e occidentali fomentano il disordine (dall'Afghanistan alla Libia, dall'Egitto alla Siria...). È ovvio che, in assenza di alleati affidabili e di amici veri, Israele senta di dover provvedere da sé alla propria sopravvivenza.
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