Creato da renatosanna il 04/07/2005

Io la vedo così...

A volte è un silenzio, a volte è un rumore. A volte è un incontro, uno sguardo furtivo. A volte è un sorriso nascosto tra i denti, a volte è un bambino che corre sereno. A volte: è un attimo.

 

 

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La ricerca della felicità... - Prologo

Post n°2011 pubblicato il 23 Novembre 2012 da renatosanna
Foto di renatosanna

 

Si può perfino arrivare a dire che la ricerca della felicità è la nostra abilità di abbracciare le brutte notizie sfuggendo un pochino da quelle belle.

(R. Sanna)

 

 

 

L’uscita di sicurezza era fin troppo vicino per non provare ad aprirla o almeno per cercare di prenderla. Era forse l’ultima possibilità rimasta oppure esistevano altre uscite da quell’inferno.

 

 

Il fuoco avvolgeva tutto rendendo irrespirabile l’aria soprattutto per chi, come noi, eravamo avidi di ossigeno e chissà perché in quegli attimi infernali riuscivo solo a pensare che l’atmosfera è divisa in due parti, una più vicino alla crosta terrestre ed un’altra in altissima quota: la troposfera, ricca di ossigeno, in cui avvengono fenomeni atmosferici come le nuvole, l’acqua e la pioggia e la stratosfera, ricca di ozono, che ci protegge dai raggi ultravioletti del sole.

Camminavamo chini sul pavimento, ricurvi nei nostri pensieri concentrati nell’attesa di poter finalmente tornare a respirare a pieni polmoni, e nonostante la distanza fosse breve i secondi, gli attimi, che ci separavano da quella porta erano interminabili.

Alla fine riuscimmo a raggiungerla…

 

Non conoscevo le altre persone, me le sono ritrovate accanto all’improvviso, e magari, forse, loro li ci abitavano, mentre io ero l’intruso. Intruso perché a quella festa non ero ne invitato ne atteso. Semplicemente avevo aiutato una signora caduta davanti ai miei occhi a rialzarsi e, dato il dolore al ginocchio, riaccompagnata prima nel portone e poi fino alla porta di casa, visto che: “…sarebbe anche così gentile da accompagnarmi su in casa, abito proprio in questo grattacielo e sono appena uscita..”, disse nel suo americano gentile.

“Ci mancherebbe… ”, aggiunsi in uno slancio di bontà!

Attendemmo l’ascensore, trentatreesimo piano, e l’accompagnai fino alla porta di casa. Salutai e dato che l’ascensore aveva ormai lasciato il piano, decisi di fare due passi ed iniziai a scendere le scale.

Vidi il fumo uscire da sotto una porta e voci che lo inseguivano:  fu un attimo!. La porta si aprì e venni travolto da mille persone, così sembravano, che urlando “Fire! Fire! Fire!” scappavano verso le scale. Caddi, venni spinto, rotolai, non lo so… ma sta di fatto che ora sono qui dentro con una ragazza ed una bambina, avrà si e no 9 o 10 anni, cercando di aprire quella maledetta porta.

L’aprimmo…

L’aria era tornata respirabile, ma la porta che, fino a qualche ora prima dava su scale di sicurezza, ora gettava nel vuoto… le scale erano crollate e probabilmente il palazzo stava per fare la stessa fine.

Fu un attimo, un lungo interminabile istante e quello che fino a qualche minuto prima era un grattacielo, passò davanti ai nostri occhi pieno di gente che urlava e cadeva nel vuoto sempre più giù.

La piccola si stringeva a me con tutta se stessa cercando nei miei occhi la speranza della salvezza. Io guardavo la ragazza in cerca di complicità ma anche lei chiedeva con lo sguardo una idea di salvezza.

Saltare era l’unica cosa da fare, sembrava un enorme salto nel vuoto ma in realtà la distanza era forse meno di un piano, poi le scale riprendevano il loro corso e potevamo scendere come gli altri. Ma come fare a convincerle a saltare e poi la bambina forse poteva rompersi un braccio, una gamba e la corsa verso la salvezza doveva ancora arrivare.

All’improvviso una luce forte, un immenso suono nel grattacielo accanto al nostro le urla divennero schiamazzi intensi e l’aria cambio colore e sapore. E fu proprio la spinta della disperazione a far si che saltassimo. Atterrammo su corpi già morti che attutirono la caduta e nessuno si fece male, o almeno l’adrenalina presente nei nostri corpi faceva si che potessimo correre giù per gli ultimi 8 piani e metterci in salvo. Fu correndo che vidi il corpo della donna che avevo aiutato steso a terra, inerte, ma con gli occhi ancora pieni di gratitudine per quel piccolo aiuto.

“Grandma!”, esclamò la bambina che per tutto quel tempo era rimasta in silenzio.

Non potevamo ignorare quelle parole “Grandma ... Grandma”… continuò.

C’è un momento per ogni cosa, un momento preciso per fare una cosa, giusta o sbagliata che sia, ma a volte il momento, quel momento, andrebbe preparato al meglio e accompagnata dalla giusta situazione. Una buona notizia può anche non essere accompagnata dalla situazione ma una brutta notizia, se calata nel giusto ambiente può sembrare meno brutta: resta sempre una brutta notizia!.

Mentre una bella notizia no. Lei è sempre felice e sorridente, spensierata e piacevole con quel piccolo retrogusto sarcastico che ci porta a sorridere e ad essere complici di quanto appreso. Se poi l’ambiente è quello adatto viene difficile non abbracciarla e restare con lei. E quindi se le buone notizie ci spingono a restare a diventarne parte… dalle brutte notizie vogliamo solamente scappare. Sfuggire, correre e volar via. Come se, lasciandocele alle spalle ce le potessimo dimenticare: è per questo che quasi sempre piangiamo. L’ambiente quindi serve proprio a questo, a consentirci di sfuggire, anche solo con la mente, anche solo per un attimo e riprenderci e razionalizzare quanto appena appreso.

Purtroppo le brutte notizie solitamente fanno male… parecchio male e segnano, a volte per sempre, una vita intera: non solo la tua!. È difficile sfuggire al proprio destino alle nostre notizie, belle e brutte.

Ed ora, quella piccola grande bambina doveva forse affrontare la sua prima brutta notizia, nel peggior ambiente possibile.: ed io dovevo dirle qualcosa.

“Grandma … help, help her …”, continuò la piccola. La nonna aveva alzato un braccio ed era ancora viva, solo intontita dalla massa e ancora incapace di muoversi con disinvoltura per via della caduta. Per uno scherzo del destino mi trovavo da aiutarla per la seconda volta nella mia vita.

Aiutai la signora che subito mi riconobbe e che aggiunse, nella mia lingua: “Grazie, porta in salvo Emily: mia nipote”.

L’aiutammo a rialzarsi e iniziammo a scendere giù per le scale. Dissi alla ragazza di prendere la bambina e correre più in fretta possibile e che avrei pensato io alla nonna. Fu difficile ma alla fine scesero in fretta verso l’uscita, mentre noi cercavamo il giusto equilibrio tra scendere e non essere schiacciati. È difficile immaginare che tutta quella gente viva dentro un grattacielo, penso ci siano più persone in quel momento per le scale di questo grattacelo che a Simala!!

In ogni caso il cartello “Third Floor” era il benvenuto e diceva che mancavano ancora 6 rampe per l’uscita, ancora un piccolo sforzo.

La nonna era diventata pesante ed ormai trascinava la gamba che qualcuno gli aveva schiacciato. Nei suoi occhi era tornata la rassegnazione a chiudere la propria vita in quel frangente, l’effetto nipote ora che era lontana, e forse già in salvo, era passato ed era più difficile lottare con quel pensiero che con la sofferenza fisica. Dovevo fare qualcosa altrimenti la mia coscienza avrebbe causato anche la mia morte: non potevo lasciarla.

“Come ti chiami”, le chiesi.

“Caterina”, rispose, “ma tutti qui mi conoscono come Kate”, aggiunse, “vivo a New York da quando avevo 7 anni”, concluse.

Second Floor. Quelle due chiacchiere ci portarono al secondo piano e quindi continuai.

“E come mai … in America?”, le chiesi.

“Sono nata nell’estate del 1940… la seconda guerra mondiale segnò i miei genitori che si salvarono da un brutto incendio, a conflitto concluso, grazie ad un soldato Americano, innamorato di una mia vicina di casa, a cui avevano dato alloggio”, iniziò a raccontare, “quel terribile incendio distrusse la nostra casa, mentre la guerra distrusse il suo lavoro. Era il lattaio del paese e la guerra, e poi la fame, uccisero tutte le nostre capre, i nostri macchinari e le stalle. Occorreva un cambiamento e quel soldato, che invece aveva perso la sua famiglia in America e si era arruolato perché non aveva più nulla ci offrì la casa che ancora possedeva qui a New York”.

First Floor.

“fu così che partimmo… io dovevo ancora compiere 7 anni”, stava raccontando Kate quando un pompiere ci prese e ci trascinò via, letteralmente sollevandoci da terra, e in un attimo eravamo dentro una ambulanza che partiva verso una zona più tranquilla, mentre dietro di noi restava l’inferno.

Ci fecero scendere al volo dal mezzo che ripartì verso l’inferno per recuperare altre vite.

Kate vide sua nipote che correva incontro a noi piangendo, la appoggiai su di un lettino di fortuna e solo allora mi resi conto di essere pieno di sangue. Kate aveva una brutta ferita alla schiena ed aveva perso molto sangue. Elise arrivò e parlò con la nonna che ora aveva il volto sereno. Passò un minuto ma sembrò un eternità.

Kate chiuse gli occhi e non li riaprì più. Ma l’ambiente ora era quello giusto per Elise che si mise a piangere ma che accettò la notizia. La confusione della morte, l’ambulanza che tornava con altri carichi, Kate che piangeva, la ragazza del piano che ora era avvolta in una coperta di lana e che si era lasciata andare ad un pianto di sfogo, le urla di chi ci stava vicino ed il fervore dei pompieri nell’aiutare più gente possibile fece si che ci separassimo verso destinazioni diverse. Ero stanco, sporco ma stavo bene ed ero salvo. Fui quindi accompagnato ad un campo di fortuna dove, penso, mi addormentai, forse aiutato da una iniezione di non so cosa per prevenire infezioni.

Quando mi svegliai ero insieme ad altri, molti italiani. Ci avevano diviso per nazione ed io, che li ero solo per lavoro, fui accompagnato in hotel. I voli non operavano e quindi era impossibile lasciare il paese via aerea e tutte le navi erano “in stato di allarme”. Ero prigioniero in America, il paese simbolo della libertà ora mi tratteneva!. Alla fine tutto finì e nel giro di un paio di settimane ero tornato a casa dalla mia famiglia che, nonostante tutte le rassicurazioni avute era rimasta in ansia per tutto quel tempo.

Sono passati 11 anni e non ho mai più saputo nulla di Elise e della ragazza del piano: fino a oggi!

SANNA Renato!

 

...Continua

 
 
 
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