Creato da profilorossi il 29/10/2006

philosophia in nuce

appunti sulla filosofia antica

 

 

Eraclito

Post n°17 pubblicato il 17 Novembre 2012 da profilorossi

Eraclito, Seconda parte[1]

La connessione tra il molteplice come grado di conoscenza superiore, deve fondarsi su un sentire immediato (fr. 14: “Il sentire è ciò in cui si concatenano tutte le cose”; fr. 15: “Uno sperimentare l’immediatezza è la massima eccellenza”).  

Ora addentriamoci nella parte metafisica del logos eracliteo.

 

La vita eterna.

Partiamo dal fr. 107, che dice: “Proprio come un mucchio di rifiuti gettati a caso è il più bello dei mondi”. Qui si dice che il caso fa apparire bello il mondo. Questo caos apparente è tuttavia la manifestazione di qualcos’altro. La casualità è solo l’aspetto estetico.

Sulla bellezza insiste il fr. 119: “Belle, di fronte al dio, sono tutte le cose; ma gli uomini hanno giudicato alcune cose come giuste, altre come ingiuste”. Nel frammento, la bellezza si connette alla giustizia, secondo la prospettiva del dio, mentre lo stesso non è per gli uomini. Secondo una prospettiva morale gli uomini distinguono tra le cose, ma questa prospettiva deve essere superata, se si vuole cogliere la trama nascosta.

Nel fr. 65: “Non saprebbero il nome di Dike, se queste cose non fossero”. Scopriamo che Dike (la giustizia) è simile ad Ananke (la necessità), dunque la necessità e giustizia governano il mondo. La trama dell’apparenza, la legge divina, deve essere cercata al di là del caso e della bellezza apparenti.

Nel fr. 20, Eraclito ci dice che “La trama nascosta è più forte di quella manifesta”. La potenza è attribuita al nascosto, mentre la bellezza all’apparenza, al mondo manifesto.

 

Il fr. 18 ci dice che oltre alla potenza, al nascosto va attribuito anche il gioco: “La vita è un fanciullo che gioca, che sposta i pezzi sulla scacchiera: reggimento di un fanciullo”. Il fanciullo è ovviamente Dioniso. Il gioco regge la vita, che però si manifesta come necessità e contingenza.

Se il gioco del dio fosse soltanto casualità e bellezza, sarebbe arduo costruirne la trama. Ma il gioco del dio sposta i pezzi su una scacchiera: è qui che evidentemente bisogna riconoscerne la trama, le mosse del dio. Se queste mosse sono necessarie o casuali non possiamo dirlo all’inizio. Noi siamo sulla scacchiera. L’ardua fatica[2], di chi è nel mondo e non al di là dello specchio, di stabilire le relazioni tra le cose è precisamente l’impegno del sapiente.

Quindi il gioco è primigenio, ed ha in sé sia il caso che la necessità, a noi restano le sue manifestazioni. Non c’è dunque da una parte il gioco e dall’altra la necessità.    

Come si possano comprendere i rapporti tra le cose, giudicabili secondo la necessità (giustizia) oppure secondo il caso (bellezza), ce lo dice il fr. 11: “Coloro che parlano con l’aiuto dell’intuizione, bisogna che traggano forza da ciò in cui si concatenano tutte le cose”.

L’armonia del mondo manifesto trae forza e vigore dalla legge divina, da ciò in cui si concatenano tutte le cose. Se vuol comprendere la trama della realtà il sapiente deve seguire ciò che si concatena (cfr. frr.13 e 14).

 

Sembrano esserci due momenti nella vita del sapiente, da una parte l’intuizione della legge divina e dall’altra il tentativo esprimerne la trama attraverso logos. 

Il fr. 12 ci dice che “Ciò che si concatena è principio e fine nel cerchio”. Dunque nella ciclicità delle trasformazioni – in questa eterna partita a scacchi – principio e fine sono una cosa sola .

Qui l’eterno ritorno è annunciato in maniera stringente e immediata. Non c’è un inizio, ogni momento è la manifestazione della legge divina, del gioco del dio. Ogni mossa è una mossa del dio.

Comprendiamo così il fr. 3: “Per chi ascolta non me, bensì il logos [quello divino che coincide con quello di Eraclito], sapienza è riconoscere che tutte le cose sono una sola”. In senso metafisico tutte le cose sono una; ma in senso rappresentativo Eraclito ammette la molteplicità (che riguarda gli oggetti ma non il gioco).

 

Il fr. 91 ci dice: “Il dio è giorno notte, inverno estate, guerra pace, sazietà e fame” (cfr. fr. 26). Secondo Colli qui si allude alla coincidenza tra Apollo e Dioniso. L’unità dei due dèi della sapienza spiega la natura metafisica del mondo. La loro polarità sta semmai nelle loro manifestazioni.

Vediamo, nella seconda parte del frammento, che questo dio si altera, subisce trasformazioni, come il fuoco: “e si altera nel modo in cui il fuoco – ogni  volta che divampi mescolato a spezie – riceve nomi secondo il piacere di ciascuno”. Secondo Colli, “fuoco” sarebbe sinonimo di Apollo (Helios, Sole), mentre “mondo” è la manifestazione di Dioniso (cfr. Colli, nota p.143).

Il fr. 30 ci spiega che “Il mondo di fronte a noi fu sempre, ed è, e sarà, fuoco vivente che divampa secondo misure e si spegne secondo misure” (cfr. fr. 81).

Qui sembra essere ammessa una ciclicità temporale, in cui gli accadimenti reali sono “inversioni del fuoco” (fr. 31a). Una stessa sostanza vivente divampa e si spegne, dando origine alle cose. Queste ultime sono un baratto in cambio del fuoco: “Tanto le cose tutte sono un baratto in cambio del fuoco, quanto lo è il fuoco in cambio delle cose tutte” (fr. 29). La seconda parte del frammento sembra suggerire una sostituzione tra fuoco e cose (“proprio come lo sono i beni in cambio dell’oro”). In un tempo c’è il fuoco e in un altro ci sono le cose? (vedi fr. 88). Il rapporto uno-molti (oro-beni) riguarda la differente manifestazione del dio: o come Apollo o come Dioniso. Il mondo di fronte a noi ha la stessa sostanza vitale, mentre le cose tutte sono sue alterazioni.

Tutto ciò accade nel tempo o in ogni istante?

Parmenide coglie ciò che è nel suo eterno presente, sub specie aeternitatis. Eraclito fa lo stesso ma pone grande attenzione ai mutamenti, per coglierli successivamente nel loro concatenazione.

 

In ogni caso, l’apparenza sembra essere governata da un alternanza tra Apollo e Dioniso. Nel mondo si ribadirebbero sia l’ambiguità di Apollo sia le contraddizioni di Dioniso, sia la loro unità sia la loro polarità.

Nell’apparenza si manifestano le due leggi: guerra-pace (πόλεμος-ειρήνη) nei loro atteggiamenti qualitativi, sazietà-fame (κόρος-λιμός) e quantitativi, giorno-notte.

 

Come si presentano queste alterazioni della stessa sostanza metafisica? Come “una trama di rovesciamenti, come quella dell’arco e della lira” (fr. 4). Giudicati metafisicamente gli accadimenti sono visti nella loro coincidentia oppositorum. Ma dal punto di vista rappresentativo sono visti nella loro individualità. Qui l’ostilità e la benevolenza di Apollo (vedi fr. 8, qui nota 3).

Difatti, viene ribadita anche la polarità esistente tra i due dèi. Ammettiamo l’identificazione suggerita da Colli (vedi nota a p.138), tra ciceone (droga), mondo e Dioniso, e leggiamo il fr. 6: “Il ciceone si disgrega se non è agitato”. Ci sarebbe una tendenza apollinea alla disgregazione che interviene sull’elemento dionisiaco. Tra l’altro per questa azione apollinea si forma la più bella delle trame (fr. 5); ricordiamo il fr. 107, che parla del più bello dei mondi come un mucchio di rifiuti gettati a caso. La dispersione sarebbe apollinea. L’azione dionisiaca invece sarebbe “convergente”. Il fr. 5 ci dice ancora che converge “ciò che si oppone” e che “tutte le cose sorgono secondo la contesa”.

L’azione dionisiaca è legata dunque alla lotta, alla guerra, ed è all’origine delle cose. Se Polemos è affine a Dioniso, significa che nel mondo si esprime l’intimo contrasto insito nella sua natura. “Polemos di tutte le cose è padre”, ma “di tutto poi è il re” (fr. 19); ciò significa che la contesa governa l’apparenza. Che “la guerra sia concatenataè necessario, dunque la contesa è giustizia (fr. 7). Ma se Polemos è all’origine della differenza individuale, manifesta e fa esistere gli uni come liberi altri come schiavi, significa che qui c’è già una divergenza, un intervento apollineo.

Le individualità in senso apollineo resisterebbero nella loro solitaria bellezza, nel senso che dalla lotta vorrebbero un distacco? Ma è necessario che tutto sia concatenato, e che dunque ci sia una convergenza degli opposti. Questa convergenza degli opposti è la contesa. Come l’agitazione del ciceone. Senza questa agitazione non ci sarebbe vita (cfr. fr. 127).

Il fr. 27 dovrebbe chiarirci il meccanismo di flusso e riflusso. Se gli opposti convergono vuol dire che tra di loro c’è una differenza qualitativa, altrimenti non sarebbero opposti. Ma questa opposizione è anche “consonante”, dunque è necessario, nel logos e nell’apparenza, che ciò avvenga. Questa opposizione costituisce una “totalità”: dal punto di vista quantitativo infatti “fuori da tutte le cose ne sorge una sola”.

All’inverso, costituisce una “non totalità” ciò che “diverge” o è “dissonante” –  e qui, allora, il caso è da attribuire ad Apollo e non a Dioniso – e dunque fuori da una cosa sola, per disgregazione, potremmo dire, sorgono tutte.

Che a ciò che diverge verso l’individualità si riconosca un carattere positivo (sazietà, giorno, pace) dipende soltanto da un logos parziale. Poiché questa individualità, per l’azione di polemos, convergerà su qualcos’altro.

 

L’ambiguità[3] e la contraddittorietà di questo schema metafisico si coglie nel fr. 34:

Mutando riposa”.

Qui tutte le opposizioni, qualitative, quantitative e modali, relative all’apparenza, si annullano in un punto, nel contatto metafisico, che dovrebbe essere il momento in cui il logos si interiorizza nello ξυνόν.

 

Dire e fare cose vere.

Anzitutto significa: scindere ciascuna cosa secondo il suo nascimento, manifestarla così come è, vederla in ciò in cui si concatenano tutte le cose (frr. 9, 13-15).

“All’anima tocca un logos che accresce se stesso” (fr. 10). Significa che se la conoscenza, l’espressione dell’anima si arricchisce, dipende dalla sua natura. I confini dell’anima non si possono scoprire, neppure percorrendo tutte le strade: così profondo è il suo logos (fr. 55).

Ecco perché dice “tentai di decifrare me stesso” (fr. 37).

La qualità interiore umana, a differenza di quella divina, non possiede gli strumenti del conoscere (fr. 40). Difatti di fronte alla divinità, l’uomo risulta infantile (fr. 41).

Tuttavia “a tutti gli uomini può toccare la sorte di riconoscere se stessi e sentire l’immediatezza” (fr. 50). Il fr. 63 allude alla casualità dell’intuizione: “Chi non spera l’insperabile, non lo scoprirà, poiché è chiuso alla ricerca, e a esso non porta nessuna strada”. Mentre che la ricerca della verità sia ardua lo sappiamo dal fr. 64: “Quelli che cercano di scoprire l’oro, invero, scavano molta terra e trovano poco”.

 

Contro i più.

Il fr. 77 è interessante per comprendere l’atteggiamento aristocratico di Eraclito: “una cosa sola invero, in luogo di tutte le altre, scelgono gli eccellenti: la gloria sempre fluente dei mortali. Ma i più si riempiono sino a saziarsi, proprio come le bestie d’armento”.

Fr. 105: “Uno solo, per me, è diecimila”.

Vedi gli altri frammenti sui dormienti.

 

La sapienza come “separata da tutte le cose” del fr. 17, contrasta con la sapienza che consiste nel riconoscere la ragione, in quanto governa tutte le cose, del fr. 73. La sapienza di Apollo è separata, quella del sapiente cerca di ricupere la legge divina che governa le cose.

Ambiguo è il fr. 84: “Una cosa sola, la sapienza, non vuole e vuole essere chiamata con il nome di Zeus”.



[1] Ricostruzione del suo pensiero in base alla traduzione di G. Colli, La sapienza greca, III, Eraclito, Milano, Adelphi 1980.

[2] Cfr. il fr. 64.

[3] Cfr. fr.8: “Dell’arco, invero, il nome è vita, ma l’opera è morte”.

 
 
 

Eraclito

Post n°16 pubblicato il 17 Novembre 2012 da profilorossi

Eraclito di Efeso

 

Prima parte[1]

Apparenza e teoria della conoscenza

Secondo Colli la molteplicità per Eraclito ha un valore reale e non apparente. Anzitutto, citando la seconda parte del fr. 9, indica qual è l’atteggiamento del sapiente:

E riguardo a questo logos che è vero, sempre gli uomini si mostrano privi di intendimento, sia prima di porgevi orecchio, sia una volta che l’hanno ascoltato.

Difatti, anche se tutte le cose sorgono in conformità di questo logos, essi tuttavia assomigliano a chi è senza esperienza, quando si cimentano a sperimentare tali parole e opere, quali vado spiegando, io che scindo ciascuna cosa secondo il suo nascimento e la manifesto così come è.

Ma gli altri uomini non si accorgono di tutto quello che fanno, una volta desti, proprio come si dimenticano di tutto quello che fanno quando dormono.

Lo scopo vitale del filosofo è espresso dallo “scindere ciascuna cosa secondo la sua natura”; sta nello sceverare la natura nei suoi elementi costitutivi, attraverso l’intima struttura di ogni cosa.

Duplice è il campo della realtà che si tratta di indagare, e duplice il compito del filosofare, determinato a raggiungere l’individualità essenziale ed a comunicare la verità in una forma stabile.

Notevole è inoltre il riferimento agli uomini, i quali pur possedendo i mezzi per cogliere questa molteplicità di espressioni, non traggono frutto da quanto sperimentano.

Alla molteplicità accenna anche il fr. 48:

Se tutte le cose che sono diventassero fumo, le narici le riconoscerebbero come distinte l’una dall’altra.

In esso bisogna vedere la resistenza della molteplicità ad ogni unificazione; qui il “riconoscerebbero come distinte” richiama il precedente “io scindo”. Cosa significa che “tutte le cose che sono” continuano ad essere tali anche se unificate? Nel caso concreto: se le cose cessassero di essere visibili, si dovrebbe dire che per una esperienza più intima (l’olfatto rispetto alla vista avverte gli oggetti nelle sue sensazioni come assai più vicini al centro conoscente[2]) esse persistono nella loro molteplicità.

Il confronto con il fr. 36 serve a chiarire:

Occhi e orecchie sono cattivi testimoni per gli uomini che abbiano anime barbare.

Che significa: l’esperienza sensibile acquista il suo valore dall’interiorità che le sta dietro. Se rileggiamo il fr. 48, il significato più profondo voluto da Eraclito è il seguente: se anche la realtà fosse sottomessa a un principio unificatore (un denominatore comune rispetto a cui ogni pluralità apparisse come accidentale) la nostra più intima esperienza ci rivelerà sempre un molteplice ancor più essenziale.

Notevole è la prima parte del fr. 44:

A coloro che entrano negli stessi fiumi continuano ad affluire acque sempre differenti[3].

Anche qui l’accento è posto sulla molteplicità; se pure l’apparenza ci rivela un’unità, il reale è discreto. L’antitesi stessi fiumi-acque diverse è parallela a quella del fr. 48 fumo-riconoscerebbero come distinte. “Fumo” e “fiumi” sono parole, realtà fissate. Le distinzioni olfattive e le acque diverse richiamano una esperienza più intima e immediata, sempre nuova di fronte a un’apparenza cristallizzata e monotona.

Una conferma del pluralismo eracliteo sta nel fr. 6: anche il ciceone si disgrega se non è agitato.

“Anche” indica il valore metaforico[4]. Il movimento in questo frammento è qualcosa di accidentale, che cessando rivela gli elementi che stanno alla base della realtà.

L’esperienza che conduce a queste essenze discrete, attraverso l’immediatezza sensibile, si fonda sull’interiorità del soggetto conoscente.

In un contesto polemico, si accenna all’esperienza quotidiana, che può essere fonte di conoscenza ma non è sfruttata dagli uomini. Esempio: il fr. 95: …e le cose in cui si imbattono ogni giorno sono quelle che a essi appaiono straniere. “Straniero” è l’opposto di intimo.

Stilisticamente affine è il fr. 93:

Tali cose, invero, non le sentono con immediatezza i più, tutti quelli che in esse si imbattono; né le riconoscono, una volta che le hanno apprese direttamente, bensì le rappresentano a se stessi.

“Conoscere nella loro essenza” e “sperimentare direttamente”, alludono a due gradi della conoscenza. L’esperienza viva, conduce alla conoscenza ma non basta a costituirla[5].

I frammenti 102 e 67, ci indicano che l’esperienza vissuta è la condizione necessaria ma non sufficiente per essere filosofi:

Gli uomini che amano la sapienza, invero, è necessario che riescano a testimoniare proprio moltissime cose (fr. 102).

Ma al tempo stesso è sprezzante verso gli uomini soltanto vissuti:

Ricchezza di esperienza non insegna l’intuizione, poiché altrimenti l’avrebbe insegnata a Esiodo e a Pitagora, e d’altro canto sia a Senofane sia a Ecateo.

Dunque, ritornando al fr. 93, la conoscenza vera delle cose nella loro essenza, è una conoscenza interiore, fondata su una base intuitiva, di un oggetto nella sua essenza.

Un chiarimento può venire da “le rappresentano a se stessi”, che è da collegare al fr. 13:

i più vivono come se ciascuno avesse un senso suo proprio, e anche al fr. 96: non bisogna fare e dire proprio come i dormienti.

L’esperienza sensibile non è di per sé errata, ma ci dà un mondo chiuso, isolato, che non ci permette di uscire da noi stessi e riconoscere le cose nelle loro realtà. E l’errore gnoseologico è una stortura metafisica, che nel mondo umano si riflette come presunzione e violenza dell’individuo:

l’opinione, mal caduco (fr. 56); la tracotanza è necessario estinguerla ancor più che il divampare di un incendio (fr.75).

Costruire un mondo di oggetti accentrato e dislocato attorno al soggetto (ricchezza di esperienza), pur possedendo una sua validità fenomenica, è superata dalla conoscenza dei singoli oggetti in se stessi, nella loro realtà intrinseca e individuale, che si coglie attraverso i dati sensibili, ma per l’intervento di una facoltà interiore, che stabilisce un’affinità con le cose, avvicinandole e lasciandole sussistere nella loro pluralità.

Difficile è l’interpretazione della prima parte del  fr. 80:

            Cose apparenti conosce, custodisce, invero, colui che appare il più accettabile.

A “più accettabile” spetta un senso positivo, per quanto non possa identificarsi con il vero filosofo, come dimostra il seguito del frammento:

E certamente Dike piomberà addosso a coloro che foggiano e testimoniano menzogne.

A “conosce” va assegnato il significato detto sopra, senonché contrasta paradossalmente con “cose apparenti”. Siamo al punto cruciale della gnoseologia eraclitea. In sostanza: la stessa conoscenza della pluralità essenziale diventa qualcosa di illusorio. Chiarificatore è il successivo “custodisce”: dunque, conservare, fissare, cristallizzare come qualcosa di definitivo la conoscenza essenziale di un oggetto costituisce l’elemento debole di questo genere superiore di conoscenza.

Già si intuisce che il grado ulteriore di conoscenza, volendo superare la difficoltà, dovrà stabilire una connessione tra il molteplice, pur riconoscendolo come tale.

 

L’insoddisfazione nei confronti di una conoscenza (per quanto interiore) dell’essenza individuale, e derivante da una dispersione di una  realtà frantumata e isolata, verrebbe placata da questo nuovo conoscere, non più interiore, ma rappresentativo, che connette, unifica le realtà disperse: il congiungimento avviene tra termini antitetici. Fin qui Colli.



[1] Questa parte segue l’interpretazione di Colli (cfr. i testi: La sapienza greca III; Physis kryptesthai philei; Filosofia dell’espressione; La nascita della filosofia).

[2] Cfr. il fr. 47: “le anime annusano giù verso l’Ade”: l’olfatto caratteristico della ψυχή, che continua ad inferirle anche dopo la morte dell’individuo.

[3] Il frammento non prova il divenire (unità nel diverso) ma al contrario, la molteplicità nell’apparente diverso. Il fr. 44 è all’origine del travisamento di Eraclito come filosofo del divenire.

[4] “Agitato” fa pensare al movimento eterno, come “disgrega” fa pensare al pluralismo radicale contenuto nel fr. 1 di Anassimandro: “le cose fuor da cui è il nascimento alla cose che sono…”.

[5] Ai molti viene concesso il μανθάνειν ma non il γινώσκειν.

 
 
 

Platone

Post n°15 pubblicato il 14 Aprile 2012 da profilorossi

dal Fedro (245c-251a)

1.      La verità intorno alla natura dell’anima. L’anima è immortale, perché ciò che sempre si muove è immortale.

Ciò che provoca movimento in altro ed è esso stesso mosso da qualcos’altro, se subisce un arresto di movimento cessa di vivere. Solo ciò che muove se stesso in quanto non può abbandonare se stesso, mai cessa di essere in moto, anzi è principio di tutte le cose mosse; proprio in quanto principio non deve essere generato, dunque è immortale.

Dunque ciò che muove se stesso è principio di movimento; tutti ammettono che proprio questa è l’essenza e la definizione dell’anima. Ogni corpo che riceve il movimento dall’esterno è inanimato, ma ogni corpo che riceve il movimento dall’interno, da se stesso, è animato.

2.      La natura dell’anima. Una trattazione adeguata è possibile solo a un dio. Impresa più umana e breve è descrizione per immagini.

L’anima come potenza d’insieme è paragonata a una pariglia alata e un auriga.

Il cavallo bianco, nobile, ama la gloria temperata e pudica, è amico dell’opinione vera, lo si guida solo con l’incitamento e la ragione.

Il cavallo nero, volgare, compagno di insolenza e di vanità, sordo, dà retta alle sferzate della frusta.

Quando l’anima è perfetta e alata, essa spazia nell’alto e governa il mondo, ma quando perde le ali, precipita fino a che non si appiglia a qualcosa di solido, quindi assume un corpo di terra, che sembra si muova da solo, per merito della potenza dell’anima. Questa potenza di anima e corpo è l’essere vivente, poi definito mortale.

3.      La caduta. Perché le ali si staccano dall’anima? Compito delle ali è innalzarla là dove dimora la comunità degli dèi. Il divino è bellezza, sapienza, bontà e ogni altra virtù affine. Proprio di queste virtù si nutre l’ala dell’anima, mentre la turpitudine, la malvagità e altri vizi la corrompono.

L’anima segue la schiera degli dèi e dei demoni che varie e venerabili evoluzioni e visioni disegnano nel cielo.

  • Nel corteo celeste vanno solo coloro che lo vogliono e possono.

Difficile e faticosa (ma non per gli dèi) è la salita verso la sommità della volta celeste, perché il cavallo maligno fa peso e tira verso terra sforzando l’auriga che non l’abbia ben addestrato. Qui sta la grande fatica e la prova suprema dell’anima. Le anime immortali quando sono giunte al sommo della volta celeste, si spandono fuori e si librano sopra il dorso del cielo: qui contemplano quanto sta fuori del cielo. Qui dimora quella essenza incolore, informe e intangibile, contemplabile solo dall’intelletto, pilota dell’anima, quell’essenza che è l’origine della scienza.

Contemplando la verità, ne gode, si nutre e sta bene, fino a che la rivoluzione circolare non la riconduce allo stesso punto. Durante questo periplo essa contempla la giustizia in sé, vede la temperanza… la scienza (non quella legata al divenire, né quella che varia nei diversi enti), ma quella che è dell’essere che veramente è.

Fra le altre anime (non quelle degli dèi), quella che meglio è riuscita a tenersi stretta alle orme di un dio e ad assomigliarvi, eleva il capo nella regione sopraceleste. Ma essendo travagliata dai suoi corsieri, contempla a fatica le realtà che sono.

Altre desiderano quell’altezza ma non ne hanno la forza, sono sospinte qui e là, e cadendosi addosso si calpestano a vicenda nello sforzo di sopravanzarsi l’un l’altra… scompiglio, risse, estenuanti fatiche…per l’inettitudine dell’auriga molte rimangono sciancate, con le ali infrante. Stremate dallo sforzo senza aver goduto la visione dell’essere, se ne dipartono, e come se ne sono allontanate si cibano dell’opinione.

La ragione per cui le anime si affannano tanto per scoprire dove sia la pianura della verità è che lì in quel prato si trova il pascolo congeniale alla parte migliore dell’anima; e di questo si nutre la natura dell’ala, onde l’anima può innalzarsi.

Qualunque anima, trovandosi al seguito del dio, abbia contemplato qualche verità, fino a prossimo periplo rimane intocca di dolori, e se è in grado di fare sempre lo stesso rimane immune da mali.

Ma quando l’anima impotente a seguire questo volo non scopra nulla della verità, quando in conseguenza di qualche disgrazia, diventa gravida di smemoratezza e di vizio, si appesantisce… perde la ali e precipita a terra.

La legge di Adrastea (Nemesi), prescrive che l’anima che abbia più veduto si trapianti in un seme d’uomo destinato a diventare un ricercatore della sapienza e del bello o un musico, o un esperto d’amore; l’anima  seconda alla prima nella visione dell’essere si incarni in un re rispettoso della legge, esperto della guerra e capace di buon governo; la terza in un uomo di stato, o in un esperto di affari e di finanza; la quarta in un atleta incline alle fatiche o in un medico; la quinta abbia vita da indovino o da iniziato; la sesta le si datti un poeta o un altro artista di arti imitative; la settima in un operaio o in un contadino; l’ottava in un sofista o in un demagogo; la nona in un tiranno.

Fra tutti costoro, chi abbia vissuto con giustizia riceve in cambio una sorte migliore, chi senza giustizia, una sorte peggiore.

4.      Bisogna che l’uomo comprenda ciò che si chiama idea (eidos) passando da una molteplicità di sensazioni a una unità organizzata dal ragionamento.

Questa comprensione è reminiscenza delle verità che una volta l’anima nostra ha veduto, quando trasvolava al seguito d’un dio, e dall’alto piegava gli occhi verso quelle cose che ora chiamiamo esistenti, e levava il capo verso ciò che veramente è.

Per questo, solo il pensiero del filosofo è alato, perché per quanto gli è possibile sempre è fisso sul ricordo di quegli oggetti, per la cui contemplazione la divinità è divina. Se un uomo usa giustamente tali ricordi e si inizia di continuo ai perfetti misteri, diviene, egli solo, veramente perfetto. E poiché si allontana dalle faccende umane,  e si volge al divino, è accusato dal volgo di essere fuori di sé, ma il volgo non sa che egli è posseduto dalla divinità.

Tra le idee la bellezza ha avuto il privilegio di essere la più percepibile dai sensi (dalla vista che è il più luminoso dei nostri sensi) e la più amabile di tutte. Nelle imitazioni terrene non traspare neppure un raggio di giustizia, di temperanza e di altri beni preziosi dell’anima.

Non per tutte le anime è facile, partendo dalle cose terrene, far affiorare nella memoria il vero essere: è difficile per coloro che ebbero una visione rapidissima di quelle realtà; sia per coloro che stravolte verso l’ingiustizia da certe compagnie, dimenticano quanto allora videro.

Quando si scorge qualche imitazione delle cose del cielo, vanno in estasi; quando si scorge un volto d’apparenza divina, o una qualche forma corporea che ben riproduca la bellezza, allora rabbrividisce, e si smarrisce, e la venera come una divinità


Nel Fedro si parla anche di “quattro tipi di delirio, attribuiti a quattro dèi: l’ispirazione profetica ad Apollo; quella mistica a Dioniso; quella poetica alle Muse e quella definita il più alto, il delirio d’amore, ad Afrodite ed Eros” (265a-b). E si parla anche dell’importanza della follia per i Greci:

“I più grandi doni ci provengono proprio da quello stato di delirio (mania), datoci per dono divino. Perché appunto la sacerdotessa di Delfi, le sacerdotesse di Dodoma, proprio in quello stato di esaltazione, hanno ottenuto per la Grecia tanti benefici… ma quando erano in sé fecero poco o nulla” (244a-b).

“Ma chi giunga alle soglie della poesia senza il delirio delle Muse, convinto che la sola abilità lo renda poeta, sarà un poeta incompiuto e la poesia del savio sarà offuscata da quella dei poeti in delirio” (245a).

 

 

 

 

 

 

 
 
 

Empedocle, secondo i frammenti

Post n°14 pubblicato il 12 Marzo 2012 da profilorossi

Sulla natura

Deboli poteri conoscitivi sono diffusi nelle membra dell’uomo, soggette a molti mali repentini che ottundono il pensiero. Gli uomini, nella loro vita di breve destino, riescono a scorgere della vita solo una misera parte, e credendo soltanto alle cose in cui si imbattono si vantano di scoprire il tutto.

Queste cose [che Empedocle spiegherà] non sono vedute né udite dagli uomini, né abbracciate con la mente.

Occorre anzitutto considerare in quale modo ciascuna cosa è chiara, con ogni potere, senza accordare più fiducia alla vista che all’udito o all’orecchio oltre la chiara fede del gusto, e nemmeno bisogna negare fiducia alle altre membra, dove sono vie per conoscere, ma conoscere ogni cosa per quanto è chiara.

 Quattro sono le radici[1] di tutte le cose: Zeus splendente [fuoco], Era [aria], Edoneo [terra] e Nesti [acqua]. Di nessuna delle cose mortali vi è nascita, e fine alcuna di morte funesta, ma c’è soltanto mescolanza e separazione di cose mescolate.

Il nome di nascita per queste cose è usato dagli uomini, che hanno pensieri di fanciulli: essi si aspettano che nasca ciò che prima non è o che qualcosa muoia e si distrugga del tutto. Ma, da ciò che non è, è impossibile che nasca qualcosa; e il tutto [ciò che è] è sempre là ed è irrealizzabile che possa distruggersi. Nel tutto, nulla vi è di vuoto né di sovrabbondante: da dove qualcosa potrebbe sopraggiungere?

Un uomo saggio non suppone che gli uomini siano nulla prima che siano fatti uomini e che essi sono solo quando vivono la vita.

Duplice è la genesi dei mortali e duplice è la morte, l’una è generata dalle unioni di tutte le cose, l’altra è prodotta quando di nuovo esse si separano. E queste cose continuamente mutando non cessano mai, una volta ricongiungendosi tutte nell’uno per l’Amicizia, un’altra volta portate in direzioni opposte dall’inimicizia della Contesa.

Tutte queste cose (fuoco, acqua, terra e aria) sono uguali e della stessa età, ma ciascuna ha la sua differente prerogativa e il suo carattere, e a vicenda predominano nel volgere del tempo.

Contesa e Amicizia comandano a vicenda sugli uomini e sugli altri esseri viventi. Questo conflitto è ben visibile nella massa delle membra mortali: una volta stringendosi per l’Amicizia nell’uno tutte le membra, che formano il corpo, al sommo della vita fiorente; altre volte invece separate dalle infauste contese vagano ciascuna separatamente alla sponda della vita.

Le forme immortali, nell’Odio esse sono tutte diverse di forma e separate, ma si riuniscono nella Concordia e si desiderano reciprocamente. E da queste quante cose furono, sono e saranno, germinarono, gli alberi, gli uomini e le donne, le belve, gli uccelli e i pesci, e gli dèi dalla lunga vita, massimamente onorati. Sono queste dunque le cose che sono e passano le une attraverso le altre, divengono varie di aspetto: tanto mescolandosi mutano.

 Come i pittori che, grazie alla loro sapienza dopo aver preso in mano tinte multicolori armonicamente mescolate secondo misure, compongono forme simili a tutte le cose, alberi, uomini, donne, fiere, uccelli, divinità, così e non altrimenti è l’origine degli esseri mortali, i quali in numero infinito sono diventati manifesti.

 Amici sono tutti questi (elementi) delle loro parti, quante di essi negli esseri mortali errano disgiunte.

Quante sono disposte alla mescolanza reciprocamente si amano rese simili ad opera di Afrodite. Massimamente nemiche sono invece tutte quelle cose che più differiscono tra loro per generazione, per mescolanza, completamente estranee ad ogni unione e il loro dolore nasce dall’ordine imposto dalla Contesa.

 Lo Sfero circolare, che gode della solitudine che tutto l’avvolge, sta saldo nei compatti recessi di Armonia. Quando non si scorgono del sole le agili membra, né la potenza della vellosa terra, né il mare.

Nelle sue membra non vi è discordia, né la lotta che consuma. Ma è dappertutto uguale a se stesso e assolutamente infinito.

Allorché di nuovo comincia il predominio della Contesa, allora di nuovo si produce il movimento dello Sfero: infatti, tutte, l’una dopo l’altra, vibrano le membra del dio.

Quando la Contesa giunge al più profondo abisso del vortice, e l’Amicizia invece sta al centro del turbine, allora in esso tutte queste cose convergono in una sola unità, gradualmente.

Unendosi queste cose, all’estremo limite si pone la Contesa .

Di quanto essa si ritraeva, di tanto sempre sopraggiungeva l’eterno e dolce impulso della perfetta Amicizia. E subito diventavano mortali, quelle cose che prima avevano conosciuto l’immortalità, e prima non miste si mescolavano mutando i loro sentieri.

 Mescolandosi queste cose, infinite stirpi di mortali si effondono, ma molte cose rimangono non mescolate alternativamente con quelle mescolate, quante cioè la Contesa tratteneva ancora in alto (non ancora si era ritirata perfettamente da esse agli estremi confini del ciclo, ma in alcune delle membra rimaneva).

In questa condizione, “membra solitarie erravano” per la separazione della Contesa, cercando la mescolanza reciproca. Sotto il regno dell’Amicizia nascono come capita membra dei primi esseri viventi: teste, mani e piedi; poi queste si congiungono (molti esseri nacquero con due volti e con due petti, stirpi bovine con volti umani…), ma sopravvivono quando hanno raggiunto una condizione  stabilità, un composto armonico, altrimenti si estinguono.   

 Dall’acqua, dalla terra, dall’etere e dal sole, insieme mescolati, nacquero specie e colori di esseri mortali, tanti quanti ora ne nascono resi armoniosi da Afrodite.

La terra benevola nel suo ampio seno accolse due delle otto parti della splendida Nesti (acqua), quattro parti di Efesto (fuoco): e nacquero le bianche ossa, connesse per i mirabili legami di Armonia.

La terra si incontrò in parti uguali al massimo, con Efesto, con la pioggia e l’etere luminoso, ormeggiando nei  porti perfetti di Cipride, in quantità sia poco maggiore sia minore rispetto agli altri di maggior misura, onde nacque il sangue ed ogni specie di carne.

Nei flutti del sangue pulsante è nutrito (il cuore), dove principalmente è ciò che gli uomini chiamano pensiero; per gli uomini, il sangue che circonda il cuore è il pensiero

Così a tutti gli esseri tocco  respiro ed odorato, e per volontà della sorte tutte le cose sono assennate.

Da questi “elementi” tutte le cose risultano connesse e armonizzate, e per essi pensano, godono e soffrono.

Con la terra vediamo la terra, l’acqua con l’acqua, con l’aria l’aria divina, e poi col fuoco il fuoco distruttore, con amore l’amore e la contesa con la contesa funesta.

 Occorre stare saldamente appoggiati a un forte senno e contemplare con attenzione non contaminata, allora tutte queste cose, per tutta la vita, saranno presenti, e molte altre ancora da queste si acquisteranno. Queste cose infatti si accrescono per sé secondo il carattere individuale, ove a ciascuno è la sua vera natura. Ma se desideriamo altre cose, quali sono solite fra gli uomini, infiniti dolori si presenteranno, che offuscano il pensiero. Esse immediatamente con il volgere del tempo ci abbandoneranno, desiderose come sono di raggiungere la loro propria origine: sappi infatti che tutte le cose hanno conoscenza e la parte destinata di pensiero.



[1] Da Platone chiamati poi elementi.

 
 
 

Ferecide di Siro

Post n°12 pubblicato il 23 Ottobre 2009 da profilorossi

Da La sapienza greca, I, di G. Colli

2. Ferecide di Siro

 

Unità e polarità tra Apollo e Dioniso: tale è ancora la chiave per tentare un avvicinamento a un altro sapiente misterioso, Ferecide di Siro. Attraverso una differente commistione di doti naturali, anche lui, come Epimenide, si presenta a pri­ma vista come personaggio apollineo. Di Ferecide infatti viene testimoniata l'eccellenza divinatoria, e Aristotele stesso gli attribuisce una miracolosa pratica di magia, qualità ricorrente nello sciamanesimo iperboreo. Nello stesso qua­dro rientrano le testimonianze, secondo cui Pitagora sarebbe stato discepolo di Ferecide: Pitagora invero è personalità decisamente apollinea. Infine la celebre enigmaticità di Fere­cide, ossia l'uso della parola per accennare - nasconden­dolo - a un messaggio che viene dagli dèi, è un carattere che lo accosta ancora una volta ad Apollo: la carica reli­giosa dell'enigma rimanda difatti a questo dio.

Quello che ha conosciuto, del resto, Ferecide lo esprime attraverso un mito culminante. Ci furono sempre Zas, Ctonie e Tempo; ma ecco che Zas si congiunge con Ctonie, e dandole in dono la Terra, ella prende questo nome. C‘è una novità rispetto a Orfeo, a Museo, a Epimenide: il mito non si espri­me in un canto, bensì in parole scritte, in prosa. La bel­lezza dell'apparenza non è più sostitutiva, evocativa, di una mistica esperienza interiore: Apollo sembra ora sopraffatto. Forse è il lampeggiamento, l'intensità della conoscenza istantanea, a spezzare il flusso dell'espressione. Quest'ultima rimane inchiodata alla pura immagine simbolica, dove il quadro stesso del mito deve alludere al distacco dall'indi­cibile, deve dichiarare la nullità di ogni figura sensibile. Manca qui quella sciolta inversione dall'interiorità alla poe­sia, che era toccata a Orfeo: ogni spinta vitale che si conce­desse all'apparenza attenuerebbe la comunicazione di ciò che più preme, dell'al di là dell'apparenza.

Alla base si deve perciò presupporre un evento dionisiaco. Di Ferecide Plotino esalta la dote intuitiva, noetica;  e Aristotele ci spiega che la folgorazione noetica sgorga - come passione - nell'estasi misterica di Eleusi.  Ma l'esperienza eleusina si fonda su Dioniso, è l'identificazione con lui. Il mito ferecideo, tuttavia, non riproduce direttamente il lam­peggiamento misterico, è soltanto l'inaudita propagazione visionaria di un'esperienza senza nome né figura. È un Apollo subalterno, che plasma il mito ferecideo: l'Apollo Dioni­sodote, che restituisce Dioniso. Un matrimonio sacro, uno hieros gamos, questa è l'immagine del mito. La concentra­zione della grande esperienza mistica - che in sé raccoglie e scioglie tutta la realtà - si traduce, si manifesta in questo supremo quadro metafisico, con un irradiamento di impli­cazioni suscitate da un'unica immagine. Così del resto si comunica la più alta sapienza di Dioniso, col rappresentare l'arresto di un'azione in un'istantaneità sconvolgente, in un quadro culminante.

La stessa rivelazione si ritrova nella poesia orfica, ma avvolta nelle pieghe del canto, nascosta nel suo flusso, da cui bisogna saper estrarre la gemma. Un esempio è la descrizione del­l'attimo in cui Core fu rapita.  Verso un narciso di miraco­losa bellezza si precipita sbigottita “la fanciulla il cui sguardo è un fiore sbocciante”, protendendosi: “ed ecco, mentre essa vuole strapparlo con le mani, proprio allora si dice che la terra si spalancasse” e Aidoneo balza fuori ad afferrarla. Nell’istante si manifesta allo sguardo la contraddizione meta­fisica di Dioniso: bellezza e violenza coincidono.  La con­templazione esaltante è una cosa sola con lo strazio per l'assalto della potenza: la suprema antitesi è vissuta senza incrinatura. Così si spiega la ciclicità dell'evento eleusino: l'immagine che traduce l'estasi epoptica - il possesso di Dioniso - è la stessa destinata a suscitare una nuova estasi, nella futura esperienza: l'attimo del ratto di Core - nelle rappresentazioni mimiche di Eleusi - doveva manifestare immediatamente il vertice conoscitivo, e doveva per contro costituire l'ultimo stadio dell'iniziazione che lo preparava . Altrove ho parlato di una seconda immagine culminante, quella di Dioniso trucidato dai Titani mentre si guarda allo specchio, e vi vede riflesso il mondo.  C'è una profonda affinità con il caso precedente, per l'identica indicazione di una coincidenza tra conoscenza estasiata e atto di violenza: proprio perché è immerso e rapito nella contemplazione, i Titani possono assalire il fanciullo divino. Quest'immagine orfica per contro si accosta anche al mito di Ferecide nel riferimento all'illusorietà del mondo. Ciò che avvince Dio­niso difatti, nel contemplarsi, è il vedere che la fantasma­goria di forme e di colori, nelle cose del mondo, non è che la parvenza di sé riflessa in uno specchio.

In Ferecide l'immagine culminante non emerge dal tessuto poetico di miti, è fornita nel suo isolamento, da principio. Per contro la mancanza di suggestioni progressive poteva far apparire più impervio il simbolismo da lui usato. Il tema stesso delle nozze sacre conferma l'indicazione dionisiaca. L'iniziale presentarsi dell'antitesi tra Zas celeste e Ctonie sotterranea si addice peraltro a una formulazione enigma­tica. L'attimo culminante è quello del rito nuziale: Ctonie si toglie il velo e Zas la riveste con il mantello che lui stesso ha ricamato. Ciò risponde all'uso nuziale greco, secondo cui, quando la sposa si toglie il velo, lo sposo le offre i suoi regali. Ma con il mantello Zas ricopre colei che si è spogliata: denu­dandosi, la Sotterranea ha mostrato le sue profondità. E si ricordi che in greco il risultato del “disvelamento” si dice aletheia, “verità”. È la verità, dunque, l'abissale, la nudità di Ctonie, che non possono mostrarsi. Ma in quest'attimo Zas si è congiunto con Ctonie: “e tu con me congiungiti”. Nel ricevere il manto, infatti, il rito è già compiuto, e la congiunzione avvenuta. Tre elementi convergono nell'attimo: la profonda non può rimanere nuda e il mantello la ricopre mentre si disvela, ma in mezzo c'è già stata la congiunzione. Zas precipita nell'abisso che si apre, e il due diventa uno; se la sotterranea perde il suo velo, il cielo più non se ne distingue, e nell'abisso cade anche la conoscenza, che sul due e sul distinto si regge. Ma attenzione: sul mantello sono ricamati Terra e Ogeno e il palazzo di Ogeno, cioè il mondo che ci circonda, monti e valli e mari e città degli dèi e degli uomini. Nello hieros gamos è caduta la dualità e la cono­scenza, ma ciò che ne rimane - per Tempo che continua la sua corsa - è soltanto il mantello, cioè un'altra conoscenza, la conoscenza dal di fuori. La conoscenza e la vita come semplici illusioni, perché noi non riconosciamo il man­tello, ma pensiamo che si tratti di montagne e di fiumi e di palazzi. Questo, e non altro, è quello che vediamo noi. Pure, dietro quel mantello c'è ancora Ctonie. È ciò che Ferecide dice graziosamente, ed enigmaticamente assieme: “ma a Ctonie toccò il nome di Terra, dopo che Zas la onorò dandole la terra in dono”.

 

 
 
 
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