Creato da: ruconcon il 25/07/2005
Sul ritmo della pachanga i ricordi di un giovane 'rivoluzionario'

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Allucinazione.

Post n°29 pubblicato il 23 Novembre 2005 da ruconcon

Maturando le parole del bravo, indimenticabile compagno peruviano, e poi la scossa dell’indignazione di Jacometti, dopo qualche tempo la mia mente si riordinò, liberandosi  dall’allucinazione rivoluzionaria ispirata dal grande discorso di Fidel. Purtroppo l’accoppiata rivoluzione - violenza ha inquinato la linea politica di una forte minoranza di giovani, in Italia ed Europa, che ci ha dato il 68, il 77, le B.R., i noglobal… fino ai giorni nostri, e purtroppo la vicenda ‘rivoluzionaria’ continua ancora. Abbiamo di fronte dei delinquenti, spesso assassini; se proprio li si vuole definire sotto l'aspetto politico, l’unica etichetta applicabile è quella di estremisti violenti - valere a dire fascisti - non di rivoluzionari.
In America Latina il messaggio di Castro produsse un danno immane per più generazioni, non ancora risolto. Dalla Colombia all’Argentina, dal Perù all’Uruguay, in tutto il continente, sull’esempio e con l’appoggio di Cuba si alzarono movimenti di lotta, azioni terroristiche, attacchi armati. Le risposte del potere furono dittatura, violenza, prigione e morte.
Migliaia di giovani cubani furono mandati a combattere e morire in America latina ed Africa, poveri strumenti e vittime della guerra che l’Unione Sovietica non poteva permettersi di combattere direttamente e per questo venne definita ‘fredda’.

 
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Entusiasmo.

Post n°28 pubblicato il 09 Novembre 2005 da ruconcon

Avevo vissuto il primo approccio della sinistra verso la rivoluzione cubana; per sostenerla -  credevo allora - o per inglobarla nel sistema comunista e controllarne l’allargamento, per imitazione, al continente sudamericano, come mi suggerisce il senno critico del poi? Qualcuno ha scritto che un ventenne deve essere rivoluzionario, sennò non sarebbe veramente giovane. Io ero giovane e mi sentivo rivoluzionario, come avevo imparato dal compagno Alberto Jacometti: noi socialisti siamo rivoluzionari perché vogliamo abbattere il capitalismo e cambiare la società, ma la rivoluzione non implica lotta armata e tanto meno dittatura, socialismo e democrazia sono inscindibili; il marxismo è la base teorica della lotta rivoluzionaria e il leninismo invece mira solo alla conquista del potere del partito comunista.
L’età giovane può giustificare il non saper vedere, o essere attenuante della colpa di non aver voluto capire? Perché l’entusiasmo rivoluzionario non consente di sviluppare l’analisi dei punti critici percepiti? Ma è giusto così e non è possibile diversamente; l’analisi vuole calma, distacco, freddezza e la giovinezza è invece calore, passione, sentimento, magari anche dolore. Chi nota tutti i difetti della persona amata e li pesa e li giudica, non è giovane, o non è davvero innamorato.
Nella fabbrica metallurgica dove avevo portato il mio sentimento di amicizia e solidarietà non era comparso il sindacato; capisco - ora - che era un chiaro, brutto segnale.
Cosi, col senno di oggi, vedo l’inutilità del gesto di salutare a pugno chiuso al comizio di Castro, dimostrata dall’indifferenza dei comunisti presenti. Ma provo anche pena per loro, che le scuole di partito privavano del calore di un cuore giovane.

 

 
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I contadini.

Post n°27 pubblicato il 07 Novembre 2005 da ruconcon

Ho ricordato il cinese ed il cubano che concordavano sulla forza contadina delle loro due rivoluzioni. A pochi decenni di distanza, la Cina vive uno sviluppo economico ipercapitalistico che sfrutta ed emargina i contadini e Cuba è ben avviata a tornare ad essere l’isola di turismo e prostituzione.

Si ritrovassero i due, potrebbero ancora vantare la funzione rivoluzionaria della classe lavoratrice delle loro campagne?

 

 
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Revolución con pachanga.

Post n°26 pubblicato il 03 Novembre 2005 da ruconcon
Foto di ruconcon

Nel 1998 nei negozi di dischi dell’Avana non trovai copia della Pachanga, né alcuna traccia nella memoria delle persone interpellate; solo un anziano elemento di un complessino musicale se ne ricordava, ma poi non si combinò per eseguirla. In tutto il mondo i motivi musicali passano di moda, ma a Cuba la musica è vita, è cultura che conserva precisa traccia delle evoluzioni avvenute da oltre un secolo; non proprio di tutte, però. Oggi sui siti cubani di musica trovo rare citazioni della Pachanga. Il buco è forse conseguenza dell’esodo verso gli Stati Uniti, prodotto dall’instaurarsi del regime comunista, dei gusanos (vermi) i dissidenti - o semplice gente che pensava a campare - compresi tanti musicisti. E’ stato in pratica cancellato dalla memoria musicale collettiva, così importante per i cubani, quanto è legato ai gusanos. Pachanga è divenuto sinonimo di festa, carnevale, baldoria.
Di un certo Andrés Sorel, scrittore spagnolo, trovo un’affermazione del 2003, in polemica con gli intellettuali che si erano pronunciati contro la repressione a Cuba: sono gli stessi che negli anni ’60 appoggiavano incondizionatamente la Rivoluzione cubana, dicendo “aquella es diferente, es una revolución con pachanga, aquella es muy bonita”.

Difficile trovare nella Storia rivoluzioni con esito bonito, che abbiano cioè portato libertà al popolo nel cui nome furono combattute. Di solito viene anzi citato un solo esempio, quello che diede vita agli Stati Uniti d’America; ma non fu, a mio parere, una rivoluzione bensì una guerra d’indipendenza dal dominio coloniale. A mia cognizione si possono invece citare (consultare Enciclopedia) le rivoluzioni del 1915 in Messico (Pancho Villa); del 1923 in Turchia (Atatürk); quella sandinista in Nicaragua (anni 1970), quest’ultima costretta alla democrazia dalla pressione USA. Purtroppo non riesco ad aggiungerne altre: la costante storica è che le rivoluzioni danno presto luogo a regimi dittatoriali, più o meno sanguinari - in primis contro i loro propri esponenti - e la Pachanga non poté certo rendere diversa la rivoluzione castrista.

 

 
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Grazie, Comandante.

Post n°25 pubblicato il 02 Ottobre 2005 da ruconcon
Foto di ruconcon

A Cuba, Ciudad Escolar Camilo Cienfuegos, 1960, ho avuto l’onore di una stretta di mano dal Comandante Ernesto Guevara.

Faccio solo un breve accenno alle vicende finali della sua vita. Aveva già portato soldati cubani a combattere in Congo (altri furono poi mandati in Angola), conoscendo delusione e sconfitta. “Altre terre del mondo reclamano l’intervento dei miei modesti sforzi”, scrisse poi a Fidel Castro, e andò nuovamente a combattere, in Bolivia. Nelle sue intenzioni la tappa successiva sarebbe stato il suo Paese, l’Argentina.
Il Comandante fu invece nuovamente sconfitto; arresosi con la speranza di aver salva la vita, fu invece fucilato, in un villaggio sulle montagne boliviane, il 9 ottobre del 1967.

Dalla sua morte divenne un mito romantico, un fenomeno estetico. A lui sono stati dedicati, in tutto il mondo, poemi, canzoni, opere d'arte. Non mi sento all’altezza di confrontarmi col mito, vorrei solo che non lo si considerasse a sproposito, come spesso avviene oggi.
E’ assurdo evocare il Che nelle manifestazioni pacifiste, lui che, nell’addio ai genitori, scrive “Non sono diventato un buon medico, e non me ne importa, ma come soldato non sono tanto male. Credo nella lotta armata come unica soluzione per i popoli che lottano per liberarsi e sono conseguente alle mie convinzioni”.
E’ sbagliato pensarlo come uomo democratico e popolare, era semmai uno spirito aristocratico che aveva scelto di mettere la sua capacità intellettuale - che a ragione autostimava di altissimo livello - ed il suo coraggio al servizio del popolo, per quello che lui stesso aveva deciso essere il bene del popolo. Erano da aristocratico il suo distacco dal denaro – la firma Che sulle banconote valeva uno gesto di scherno – e la romantica ricerca di avventura, presente in tutta la sua vita. “Molti mi chiameranno avventuriero e lo sono”, continua nella stessa lettera, “e di quelli che lanciano la sfida per dimostrare la propria verità”. L’addio: “Ricordatevi di tanto in tanto di questo piccolo condotieri del XX secolo”.
Che Guevara non era un ‘animo buono’. Credeva nella pena di morte come necessità scontata. Dopo il trionfo della Rivoluzione negò ogni revisione dei giudizi di condanna a morte pronunciati sommariamente contro 600 prigionieri nella fortezza de La Cabana, che forse non erano tutti criminali batistiani. Nel 1962 diede l’ordine di fucilazione immediata di un gruppo di anticastristi catturati a Camagüey. Un sito anticastrista titola “Morì come meritava, come lui mise al muro i suoi nemici”.
Tutta la vita lottò contro lo sfruttamento, per la liberazione dei popoli dall’imperialismo e per la libertà dei poveri dal bisogno, ma non fu libertario. Non spese mai una parola per la libertà di espressione a Cuba, una delle “garanzie che sogliono adornare le costituzioni” (Guerra de Guerrillas). La Rivoluzione, come processo di definitiva trasformazione sociale, di costruzione dell’uomo nuovo, non può trovare ostacoli, può richiedere – imporre – rinunce e sacrifici. “Ricordate”, scrive nell’addio ai cinque figli, “che l’importante è la Rivoluzione e che ognuno di noi, da solo, non vale nulla”.
Credo sia assolutamente infondata la tesi di contrasti o gelosie personali con Castro, impossibili per chi, come rivoluzionario e soldato, sosteneva – ed applicava a se stesso – la più rigida disciplina. La lettera di commiato a Castro è di un aiutante disciplinato, “mi sono sempre identificato con la politica estera della nostra Rivoluzione e continuo ad esserlo”, che si preoccupa di non creare problemi internazionali al suo Comandante in Capo, “libero Cuba da qualsiasi responsabilità, salvo quella che emana dal suo esempio”, ma esprime anche un grande affetto. “Ti dico che se arriva la mia ora definitiva sotto un altro cielo, il mio ultimo pensiero sarà per questo popolo e specialmente per te. Che ti rendo grazie per i tuoi insegnamenti ed il tuo esempio al quale vorrò essere fedele fino alle ultime conseguenze delle mie azioni.”
Ho sentito una volta in TV un aiutante di Guevara, convinto che siano stati i sovietici a creare in Bolivia le condizioni della sua sconfitta e morte, per sbarazzarsi di un elemento che turbava i piani di coesistenza. Penso che la tesi abbia un fondamento obiettivo, anche se credo improbabile un piano per venderlo alla CIA. Come Trotzkij fu eliminato da Stalin, forse Guevara lo fu da Breznev. E d’altra parte servì più da morto che da vivo, un combattente ormai “dalle gambe fiacche ed i polmoni stanchi”, scrive ai genitori, “sostenuto solo da una volontà limpida”.
Non posso dunque nutrire devozione al mito del Che, anche se mi inchino alla memoria del rivoluzionario comunista; sono grato per l’esempio di coraggio, capacità e spirito di sacrificio del soldato; mantengo immutata l’ammirazione per l’uomo politico di splendida intelligenza, interamente dedicata al suo ideale. Mi dà  anche fastidio che tutti lo chiamino solo per soprannome, come un cantante pop o un calciatore brasiliano.

L’onore dell’incontro col Comandante Ernesto Che Guevara e la grande emozione della sua stretta di mano sono il mio più caro ricordo di gioventù. Quando sono stato a visitarne il mausoleo a Santa Clara, per rendere un omaggio commosso alla sua memoria, ho sostato un momento da solo e gli ho detto ancora “Grazie, Comandante”.
Grazie per l’esempio di vita che mi hai dato.
Ma non ho potuto pronunciare il suo saluto “¡Hasta la victoria, siempre!”. Non ero più il ventenne, pieno dell’entusiasmo rivoluzionario che mi faceva apparire così bella la sua utopia e mi impediva di capire che la sua vittoria avrebbe invece significato la sconfitta dei valori, veri, di libertà e democrazia, che lui mai ha inteso affermare.

 
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Conquistare gli obiettivi.

Post n°23 pubblicato il 30 Settembre 2005 da ruconcon
Foto di ruconcon

Fatte le dovute proporzioni di livello politico e di personalità, a tratti l’incontro ha anche un po’ il tono delle riunioni di Partito con Amministratori che illustrano gli alti programmi della Giunta comunale; una volta mi era piaciuto il compagno Mezzalama: “Va ben l’urbanistica e il piano regolatore, ma in che anno al Torrione ci sarà la fogna?”. Allora alzo la manina, per la mia domanda dubbiosa: “In quanti anni si potrà realizzare il piano di sviluppo? Ci sarà sufficiente denaro?”. Mi guarda - non come il Sindaco al Mezzalama - ma con un sorriso davvero cordiale, forse la domanda gli è piaciuta, e mi risponde. “Il controllo di Santa Clara era fondamentale per mettere in rotta totale l’esercito di Batista. Fidel mi ordinò di prenderla in cinque giorni. Il primo giorno con gli uomini della mia Colonna distruggemmo il treno blindato che ci avevano mandato contro; con le armi e munizioni catturate prendemmo la città dopo ancora due giorni di combattimento, e lui non se l’aspettava”. Ride, “ora il Comandante in Capo non mi ordina più un termine; lavoriamo per conquistare gli obiettivi, quando l’avrò fatto telefono a Fidel”.
Applaudo con tutti e lui ride ancora, poi torna il serio Ministro e spiega, con dati, le risorse disponibili e le difficoltà che prevede nella finanza internazionale a causa del bloqueo.
Saremo lì a discutere da più di due ore, quando vengono a chiamarlo, perché si avvicina la sera e l’elicottero non può rischiare il buio. Il sole basso mi consente di scattare la foto - che ho perso - mentre il Comandante conclude coi saluti; torno al tavolo per levare il microfono e l’impiccio dei fili.
Lui è in piedi: “Da dove vieni tu, di che Paese sei?”, mi chiede sorridendo. E poi, “Salutiamo l’Italia. Grazie di essere qui, compagno”. Mi stringe la mano e con la sinistra mi batte la spalla, con gesto d’amico.
“Grazie, Comandante”.

 
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Trabajar, producir, ahorrar.

Post n°22 pubblicato il 29 Settembre 2005 da ruconcon
Foto di ruconcon

Guevara esordisce con i complimenti al Capitano per la sua opera alla Ciudad; ha voluto l’incontro per conoscerci e ringraziarci per il lavoro che stiamo facendo; ha portato in regalo due scatole di un suo libriccino ‘Guerra de Guerrillas’, appena stampato, dedicato a Camilo Cienfuegos. Descrive lo scopo per il quale è stata ideata la Ciudad Escolar, perché è intitolata a Camilo e gli obiettivi che la Rivoluzione si è fissata per l’istruzione del popolo. Passa ad illustrare le conquiste rivoluzionarie ed invita infine a fargli domande.
Un argentino, cui tocca l’onore della prima, gli si rivolge chiamandolo “Comandante”, lui ne riconosce la cadenza – un po’ simile al genovese - e l’interrompe ridendo e con la stessa parlata, “Si, sono Comandante, che, ma qui mi chiaman tutti Che e non mi offendo certo se un argentino mi chiama così, che”. Si rompe così il ghiaccio con un personaggio che, oltre a rivestire il massimo grado militare con fama di combattente eroico, è il più potente Ministro – dell’Economia – del Governo rivoluzionario e Presidente della Banca Nazionale, che si diverte a firmare le banconote col suo solo soprannome, Che. Noto, poi, che parla un normale castillano, colto, senza accento né intercalare argentino.
Uno gli chiede se è comunista, aspettandosi la conferma. Arriva invece una risposta di bassa retorica: “Se stare con i lavoratori che chiedono lavoro e giusto salario è essere comunista, io lo sono. Se stare con le madri che chiedono pane, casa… eccetera”. Sono deluso, non capisco perché sfugga nell’arte del dire e non dire, da uomo di governo che non vuole turbare equilibri politici. Mi piace molto di più quando spiega lo slogan che ha lanciato: Trabajar - Producir  - Ahorrar. Migliorare la produttività attraverso l’organizzazione. Aumentare la produzione con la pianificazione. Puntare al risparmio di beni di consumo, per investire. Tenendo conto delle condizioni del Paese, occorre diversificare le colture e sviluppare alcune industrie di base. Esistono a Cuba giacimenti di ferro sufficienti al fabbisogno di acciaio; sarà acquistato dall’URSS un impianto, con credito di un milione di dollari. Trovo annotato, checché voglia dire, che  ‘come riduttore si pensa di utilizzare il bagazo di canna’ . Ci parla dell’industria chimica, legata a quella dello zucchero; delle miniere di nichel; del petrolio che forse c’è a Cuba. Spiega i casi e le modalità di intervento dello Stato sulle imprese di almeno 20 lavoratori, e quando si procede all’esproprio.
Applaudo quando dice che sono allo studio, con la cooperazione di esperti sovietici, macchine per il taglio della canna, con l’obiettivo finale di eliminare un lavoro da schiavi, e quello graduale di liberare disponibilità di mano d’opera per altre produzioni, sia agricole che industriali. C’è già un piano per costruire case per i lavoratori, non solo in città; la Riforma Agraria darà ai campesinos le risorse per sostituire i bohìos con case civili, con acqua potabile e illuminazione, e fare presidi sanitari nei centri di campagna. E poi sottolinea l’importanza del lavoro volontario, come il nostro; la zafra non dovrà più pesare solo sui campesinos, tutti saranno chiamati a prendervi parte; va cancellata la distinzione tra lavoro manuale ed intellettuale, si dovrà cominciare dai giovani: nelle scuole superiori gli studenti faranno a turno le proprie pulizie, non servono bidelli. Tutto quel che sentii allora: lavoro, istruzione, salute, a Cuba lo si può vedere realizzato oggi, pur con i limiti della scarsità di risorse ed i gravi difetti del sistema politico e burocratico. Ignoro la sorte dei Bidelli.
La chiarezza di esposizione, accompagnata da una precisione di dati, la linearità logica del discorso, l’esposizione degli obiettivi e delle motivazioni, sono proprie di un politico di alto livello, che sa quel che dice e soprattutto ci crede. Di un politico che applica coerentemente un suo schema ideologico; l’analisi ed anche i termini usati sono propri del marxista. Castro è ben fortunato ad avere al suo fianco un uomo così - un giovane di 32 anni! - che sa tradurre in obiettivi economici e strumenti operativi i disegni politici della Rivoluzione.
Dovendo manovrare il mio registratore, per risparmiare spazio sulla bobina, mi sono seduto un metro a lato del tavolo. Ho già abbastanza esperienza di riunioni di partito per saper riconoscere l’atteggiamento di un relatore che non vede il momento di andarsene: quando maneggia la biro, consulta l’orologio sul tavolo, volta in giro gli occhi mentre gli fanno domande ovvie o sgradite, sistema carte… Sono quasi a contatto del Comandante, che ha uno sguardo sempre attento; sorride spesso; ascolta con attenzione le domande; si lascia andare a qualche battuta e ci ride sopra.  Percepisco dunque che sta volentieri con noi, forse perché può trasmettere il suo pensiero politico ad altri, poco più giovani di lui.
Uno chiede, in tono scherzoso, “Come può il lavoratore cubano aumentare la produzione, se Fidel chiama ogni momento un’assemblea popolare e tiene alzati fino a notte coi suoi discorsi?”. Ride e risponde con una battuta, che non ricordo, comunque a giustificazione di Castro.

(segue domani)

 
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Il Comandante Ernesto Guevara.

Post n°21 pubblicato il 28 Settembre 2005 da ruconcon
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Una domenica mattina un elicottero discese verso la radura centrale e ne scese un uomo dalla corporatura massiccia e dalla chioma abbondante raccolta disordinatamente sotto il baschetto nero: era il Comandante Ernesto Guevara”. Così Guizzardi descrive l’arrivo del Comandante a Las Minas del Frìo, per una visita durata “poco più di mezzora”, alla quale era seguita un’altra sosta a Las Vegas de Jibacoa. Qui gli avevano fatto trovare il suo cavallo del tempo di guerra, ed a cavallo si era diretto, assieme ad altri militari, alla Ciudad Escolar. Ci avvisano di trovarci nell’edificio dove c’è il locale riunioni, perché vuole incontrarci.
Il gruppo di cavalieri sale la collinetta dalla quale si può vedere l’intero complesso, il Comandante Guevara ed il nostro Capitano fino alla sommità – e dall’alto si additano riferimenti di lavori fatti o in corso – gli altri si fermano più in basso. Il Comandante monta un bel cavallo dal manto tutto nero, che scalpita e lui lo trattiene. E’ una vista che dà l’emozione di un quadro risorgimentale: è come osservare Nino Bixio che ispeziona lo schieramento dei Mille prima della battaglia. La reminiscenza scolastica mi ha fatto pensare a Nino Bixio, perché a Giuseppe Garibaldi ho già associato Fidel Castro; io mi sento uno dei Mille, pronto ai suoi ordini.
Il gruppo si porta poi dove noi stiamo aspettando; Guevara smonta da cavallo, saluta amichevolme
nte i militari che l’hanno accompagnato ed entra a sedersi con noi in riunione. Il cinese balza subito a regalargli due vasi con relativo discorsetto.
Guevara si toglie la bohina – il basco – e accenna a metterla in testa ad un vaso, poi si fa Ministro serio e ce la posa accanto; si sistema la fondina col revolver al fianco, non è grasso, ma certo piuttosto robusto e l’arma lo infastidisce nella posizione seduta. Io lo ricordo allegro, non la triste immagine diventata di moda dopo la sua morte; la barba nera, a sprazzi disordinati, occhi vivacissimi (ho letto che erano azzurri, non so).
Ho già piazzato il microfono sul tavolo e inserito la spina, faccio partire il registratore. Prendo poi anche un po' di appunti ed è tutto quel che mi rimane di quell’incontro, oltre a qualche ricordo ed una grande emozione.
Da una lettera di Zilioli risulta infatti che “il nastro che mi hai spedito non è arrivato” e allora ricordo di averglielo mandato perché sul mio registratore la riproduzione risultava raaalleeentaataaa… e lui poteva trovare in RAI qualche tecnico che la rimediasse; non pensai – sono stato proprio stupido – che sarebbe stato facile, comunque, fare una trascrizione del contenuto. Un’altra cosa mi spiace molto, di aver smarrito la foto scattata durante il dibattito. Un fascio di sole, attraverso le lame di una persiana, illuminava solo il volto del Comandante, sul fondo scuro dell’interno. Ricordo l’effetto notevole della diapositiva proiettata e penso che oggi, elaborandola appena al computer, si sarebbe prodotto un bel ritratto di un Che sorridente, ben diverso dalla famosa icona di Korda. Ritrovo invece un’altra foto, sfocata, del Che in gruppo all’uscita, con in mano i vasi cinesi.

(segue domani)

 
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El Curandero.

Post n°20 pubblicato il 26 Settembre 2005 da ruconcon
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In tutti gli eserciti, chi ‘marca visita’ è un lazzarone imboscato, così tre giorni di infermeria son già troppi e veniamo dimessi. Siamo in quattro malandati, i sani sono partiti nel pomeriggio precedente ed hanno ricevuto l’attestato che li promuove tra ‘Los que subìron la Sierra’. Noi malati non l’abbiamo avuto ed è ingiusto. In italiano si traduce ‘salirono’, ma Giulio ed io affermeremo poi di essere gli unici che veramente abbiamo ‘subìto la Sierra’. Per scendere passiamo da una mulattiera, la cui esistenza ci era stata nascosta per farci salire per il sentiero dei Barbudos. Ci alterniamo a sostenere quello con la caviglia bendata; per fortuna sbucati dalla selva troviamo passaggi su camion e rientriamo alla Ciudad che è quasi buio.
Qualcuno decide di mandarmi a Manzanillo, all’ospedale, dove mi visitano e fanno prelievi.

Sono in corsia con altri quattro o cinque degenti; una sera si sente, dal corridoio, un battere di tamburo. “E’ …” - il nome l’ho dimenticato - “un vecchio negro, che dice di essere Curandero, capace di guarire tutti i mali”, mi spiega il vicino di letto, “viene dalla montagna e suona per dire qualcosa ai suoi spiriti che stanno là in cima”. Lo chiama, “vieni qui da noi” e lo sfotte, “Ma che carajo di curandero sei, se stai all’ospedale”. Il vecchio entra nella nostra stanza, portandosi il tamburo; sembra arrabbiato, gli sibila - è senza denti davanti - qualcosa, che non afferro. Dopo nuovi scambi di battute animose - ma gli altri, faccio caso, non lo prendono in giro - il mio vicino gli dice che sono straniero, che ho subìto la Sierra e che sto male.
El Curandero si avvicina; è vecchio e secco, ha i capelli e la barba non rasata grigi, mentre le sopracciglia sembrano cespugli bianchi. Posa a fianco del letto il tamburo (timbal, o tambòr, mi confondo sul nome di questi strumenti) che non è colorato e laccato come quelli delle orchestre, sul legno vecchio, lucido dall’uso sono tracciati filetti, stelle, altri segni.
Mi stringe la mano – ma in un modo strano, non solo come segno di saluto – trattenendola poi un momento, anche con le dita della sinistra. Mi fa un discorso che non capisco, non sembrano parole di castillano, però il tono – dopo quello astioso col vicino – è dolce, da amico. Si siede in fondo al letto, mette il tamburo tra le ginocchia e comincia a batterlo lievemente, quasi accarezzandolo. Muove la testa, pian piano, a ritmo, quando la gira verso di me accenna un sorriso senza denti; ogni tanto, guardandomi, socchiude gli occhi a fessura e alza i ciuffi bianchi delle sopracciglia. Me lo sento amico, un vecchio assennato e fidato, mi arriva in testa “ci penso io, tranquillo”. E continua a battere il tamburo, come sottovoce.
La testa mi pesa e non mi sento per niente bene; percepisco volentieri il ritmo disteso. Chiudo gli occhi; non so dopo quanto tempo ho l’impressione che il suono si allontani, ma sento il peso del Curandero sul lenzuolo, non si è mosso. Mi addormento e sogno che il tamburo se ne sta andando da solo; vola lieve, alto sulla selva, in montagna, torna dai suoi spiriti.

Il giorno dopo mi dimettono. Mai saputo la diagnosi, ma mi sento molto meglio.

 

 
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Chelo Alonso.

Post n°19 pubblicato il 20 Settembre 2005 da ruconcon
Foto di ruconcon

Una voce ed una mano mi scuotono dal torpore. Mi giro sul fianco e socchiudo gli occhi, vedo il pavimento di assi e… un paio di ciabattine con tacchetti, col pompon davanti, rosa. Sbatto gli occhi e vedo anche uno scampolo di gambe – femminili - che spuntano da una vestaglia, dello stesso rosa, poi una manina che mi porge un bicchiere. Sento una voce - gentile, soave, angelica, non so – che mi sollecita a bere. Ubbidiente, mi raddrizzo un po’ e la visione si completa: un volto bellissimo (rinuncio ad una descrizione dettagliata, anche qui rinvio a qualche opera letteraria, romantica); capelli neri raccolti dietro la nuca; pelle forse da mulatta, ma appena ambrata; la vestaglia lascia intravedere solo una maglietta, però il contenuto si indovina.
La riconosco, è Chelo Alonso! E’ la famosa cantante, ballerina, attrice cubana, definita una sex-bomb! L’ho vista al cinema e in TV in Italia, ma che ci fa quassù? Il sentimento patriottico l’avrà richiamata a Cuba, trovo la spiegazione.
 Naturalmente non è lei, ma una Maestra Volontaria in addestramento, mi racconterà poi. E’ da qualche giorno in infermeria – mi fa segno alla porta, la stanza accanto è il reparto donne - c’è anche un’altra ragazza. Si chiama Marta, ma per me il suo nome rimarrà Chelo.
Mi riprendo dal torpore, anche se ancora mi gira la testa. Arrivano altri infermi, la marcia di ieri è stata dura: uno con la caviglia slogata, un italiano con vesciche ai piedi; il mattino dopo arriva uno che sta peggio di me: lo portano di peso, è fuori conoscenza e tutto bagnato di pioggia. E’ strano come mi ricordi di particolari minimi ed abbia invece dimenticato tante cose importanti. Mi ricordo che era un belga, grande e grosso; qualcuno lo sveste e lo asciuga con la coperta. Il pomeriggio non si è ancora ripreso, gli fumiamo tutte le sigarette che ha nel taschino della camicia, “tanto lui non esce dal coma”, è la cinica scusa di Giulio Italiani, motivazione da tutti condivisa. Lo stanzino vicino alla mia branda è la ‘sala medicazione’ e vedo il soldato-infermiere intento ad una strana operazione: lima la punta degli aghi d’iniezione con la carta vetrata di una scatola di zolfanelli. Nota che lo guardo, e la mia faccia, “Non ho altro” – dice mostrando gli zolfanelli – “e se l’ago non entra subito, fa male”, indicando il sedere.
La ragazza ‘Chelo’ esce diverse volte dalla stanza delle donne, viene a portarmi da bere e mi racconta del suo addestramento. “Non pensavo che la vita sulla Sierra fosse così dura, ma ho fatto la scelta e devo finire quel che ho intrapreso”. Ha risposto all’appello di Fidel; il 30% della popolazione cubana è analfabeta, il 100% nelle campagne di Oriente, ed obiettivo primario della Rivoluzione è l’istruzione, a partire dall’alfabetizzazione di tutti. E’ lassù da un mese con circa duecento volontari; provano sulla propria pelle il peso del disagio e della povertà e così imparano come comprendere ed avvicinare le famiglie dei contadini, i ‘guajiros’, chiusi nell’isolamento dell’ignoranza e della miseria; apprendono metodi didattici adatti agli adulti. Studiano anche nozioni di medicina ed igiene e così azzarda una diagnosi dei miei malanni, “se hai tanta febbre è solo un poco di paludismo”, dice, pensando di farmi coraggio. Non c’è un dottore e quindi l’unica diagnosi che ricevo è quella, ma spero che sia sbagliata.
Cessato lo stupore per l’inattesa visione, prima osservo che è proprio una bella ragazza; non è esattamente una sex-bomb ma dopo poco la trovo più affascinante dell’attrice. Alla seconda volta che mi porta da bere la trovo bellissima e dolce. Sto lì in branda, incantato a guardarla e mi sento bene; si siede vicino su una cassetta e mi racconta di lei: ha quasi vent’anni, viene dalle parti di Santa Clara, ha fatto una scuola di ufficio – tipo Ragioneria – “Proprio come me”, le dico contento di aver già qualcosa da condividere; mi parla della sua famiglia, della casa, di fatterelli di ragazza e vorrei che non finisse mai. Quando mi bruciano gli occhi per la febbre mi giro sul fianco e sto ad ascoltarla, contemplando i suoi piedini coi pompon rosa, che mi diventano fiori bellissimi. E’ allegra, ha modi gentili e educati da buona famiglia; sarà stata la mamma a metterle nel bagaglio quella bella mise rosa da camera, inverosimile sulla Sierra. Mi accenna al malanno che l’ha portata in infermeria, “Ma ora sto bene e penso che domani rientrerò al reparto”, mi dice, e subito torno a sentirmi tanto malato.
Il pasto di mezzogiorno è il solito riso e fagioli e la nausea si fa più forte; mi durerà per parecchi giorni ancora. “Ci vorrebbe del riso in bianco”, rispondo all’infermiere preoccupato perché non mangio e, a miglior chiarimento, “senza fagioli”. Alla sera, sempre lo stesso vitto, ma Chelo prende il mio piatto ed uno per uno mi toglie tutti i fagioli, che buona e cara ragazza! Anche il soldato è veramente buono, il mattino mi porta due succhi di frutta “devi nutrirti e bere”. Altro particolare irrilevante che mi rigira in memoria: era succo di mango; ne bevo uno per compiacerlo, nonostante la nausea. Tanti anni dopo mi capitò di assaggiare ancora il succo di mango e di colpo fui ripreso dalla nausea di allora.Nella notte comincia a piovere, con un insistente brutto rumore sul tetto di lamiera e continua il mattino dopo; non mi alzo dalla branda, sto girato a guardare un’acqua che fila tra gli assi della parete. Chelo è andata via; mi ha salutato ed augurato buona fortuna. Ho contraccambiato, non sapevo cosa dirle.

Mi ha anche dato un bacino.

 

 
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Las Minas del Frìo.

Post n°18 pubblicato il 19 Settembre 2005 da ruconcon
Foto di ruconcon

Ci informano che, chi vuole, può salire sulla Sierra per stare qualche giorno alla Scuola Militare di Minas del Frìo; mi segno volontario e dopo qualche giorno arriva l’ordine: domani si parte. Riceviamo anche una coperta di lana, da inserire nel famoso zaino da formare col telo-amaca, con l’avvertenza che lassù fa freddo. Vero è che il nome significa Miniere del Freddo, ma sarà così per i cubani, che non conoscono basse temperature.
Una costante nei nostri spostamenti sono i ritardi; quando già siamo tutti sui camion, si resta fermi, non si sa perché non arrivi l’ordine di partenza e seguono poi altre soste senza motivo apparente. S’inganna l’attesa cantando e ritmando sulle sponde…
                                                        
la Pachanga!
                                                                  
 
Anche oggi è questa la routine che segue la sveglia all’alba; camion fino a Jibacoa; si sale su pista sterrata per pochi chilometri ancora, fino ad arrivare al limite che il sole è alto. Iniziamo finalmente la salita a piedi sotto il sole, ma subito siamo all’ombra della selva. Chi se l’è portate, mangiucchia delle gallette.
Si va in fila indiana lungo il sentiero che, ci han detto, è percorso giornalmente dalle squadre di reclute che portano, a spalla, i rifornimenti a Las Minas; potrebbero migliorarlo un po’: è piuttosto ripido ed a tratti scivoloso. Fa tanto caldo, anche se si cammina sempre al coperto della fitta vegetazione; la sete mi fa consumare presto l’acqua della bottiglia (di vetro, non esistevano ancora quelle di plastica – nota per i nipoti) infilata nello ‘zaino’ che minaccia sempre di sbrogliarsi. Attraversiamo spesso a guado dei ruscelli e l’acqua non manca; sono montagne disabitate e quindi non sarà certo inquinata...
Non è il caso che mi cimenti nella descrizione della selva: rinvio ad un qualsiasi romanzo di avventure in ambiente tropicale. Riporto invece la foto di una pattuglia, guidata da Fidel, su quello stesso sentiero.
Mi hanno detto che la cima massima della Sierra è il Pico Turquino, quasi 2000 metri; l’accampamento sarà quindi più in basso. Però non si finisce mai di salire, vuoi vedere che l’hanno messo proprio in cima? Un paio di militari allungano il passo, per dare l’avviso all’accampamento; la fila si allunga sempre più ed alla fine posso vantare di essere arrivato nel gruppo dei primi, pur incrociando lo sguardo ironico delle due staffette, che stanno già scendendo per recuperare i ritardatari.
Attorno ad uno spiazzo sorgono diverse baracche di legno e lamiera e numerosi capanni, formati dal solo tetto di paglia, sostenuto da una serie di pali. Servono da mensa, da scuola, per riunioni, ma soprattutto – quelle più arretrate – da dormitorio, poiché tra i pali sono sospese le amache dei soldati. Faccio tempo a mettermi in coda per il rancio serale. Gli ultimi salteranno anche la cena. Il cibo è il solito: riso con fagioli e pezzetti di carne, pollo o maiale, ma questa sera non ho fame. Sarà la fatica; mi sforzo di finire quel che ho nel piatto, anche se mi sale dallo stomaco una sensazione di nausea. Effettivamente quassù fa un bel fresco, voglio cambiarmi la camicia sudata, che ora sento fredda, appena sistemato per la notte. Già, ma dove sistemarci? Siamo una trentina circa, non sarà una cosa facile. All’Avana avevo rinviato al domani la preoccupazione di trovare due alberi, alla distanza giusta per appenderci l’amaca; ora è venuto il momento di farlo, inoltrandoci nella selva, fitta attorno all’accampamento, prima che sia troppo buio.
Sto per chiedere parere – anzi, ordini, poiché siamo aggregati all’esercito – al nostro ufficiale, quando arriva la bella notizia: questa mattina una compagnia è scesa al piano ed i soldati ci hanno gentilmente lasciato i loro alloggiamenti, con montate le amache e relative coperte. Ne prendiamo possesso e utilizzo subito il servizio igienico, una latrina costruita a norma del regolamento, uguale in tutti gli eserciti: un assito che lascia dei buchi e sotto scorre un rigagnolo d’acqua. Questa sera c’è un incontro con il Comandante della Scuola, ma sono troppo stanco, ho freddo e la nausea si fa più forte. Saluto quindi e vado a… letto; si è fatto buio ma ogni capanno è illuminato da una lampadina, appesa al palo centrale. Metto una coperta sul fondo dell’amaca, per migliorarne l’accoglienza; mi avvolgo nell’altra, cerco inutilmente di mettermi comodo e riesco comunque ad assopirmi. Presto mi sveglio e comincio l’andirivieni alle latrine; ho freddo, un bravo compagno mi cede una coperta e dice che forse ho la febbre.
All’alba ho ancora più freddo e mi gira la testa.  Poi qualcuno avverte l’ufficiale, che mostra dov’è la baracca infermeria; sostenuto da due compagni ci arrivo a fatica, entriamo in una stanza con qualche letto a castello, liberi; mi fanno stendere sulla branda in basso, non faccio a tempo a dire grazie che cado nel buio.

 

 

 
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Barbe bianche

Post n°17 pubblicato il 16 Settembre 2005 da ruconcon
Foto di ruconcon

Fidel Castro e tutti i leader della guerra rivoluzionaria cubana erano molto giovani; possiamo elencarli: i più anziani, nemmeno 40 anni, erano Huber Matos e Carlos Franqui: esiliati e cancellati dalla memoria cubana; Camilo Cienfuegos: morto (eliminato?) già nell’ottobre del 1959; Ernesto Guevara: caduto otto anni dopo; Raùl Castro è invece sempre dedito, all’ombra del fratello, a custodire il suo immenso potere di Ministro delle Forze Armate.
Che malinconia. Camilo è ancora onorato perché è morto giovane e il Che è diventato un mito perché è andato a morire, alla soglia dei quarant’anni; oggi solo i due fratelli Castro sono ancora lì, barbe bianche, vecchi burocrati della rivoluzione.
E che contraddizione: proprio a loro, che in gioventù ebbero il coraggio di combattere per prendere il potere, manca oggi la coerenza di passarlo in mani giovani.
 

 

 
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El Ejercito Rebelde.

Post n°16 pubblicato il 14 Settembre 2005 da ruconcon
Foto di ruconcon

Non basta la Pachanga, ora mi viene in mente anche una canzone colombiana - il ritornello è ‘Cuba sì, yanqui no’ - che fa:
…en Colombia las escuelas
se trasforman en quarteles,
en Cuba ya se acabaron
esos malos procederes…
Giustamente si esalta che i militari a Cuba non sono più impiegati per opprimere il popolo.
Nel 1960 l’esercito porta ancora la denominazione ‘Ribelle’, e mantiene la struttura organizzativa e gerarchica, l’armamento, la mentalità della guerra rivoluzionaria. Risveglio i ricordi delle settimane passate come ‘aggregato’ ad una unità militare per descriverne le caratteristiche, appoggiandomi anche ad un articolo scritto da Guizzardi, che per le sue capacità di bravo artigiano era stato impiegato alla formazione lavorativa di militari, nel laboratorio di falegnameria del comando.
Il servizio militare è volontario. Esistono pochissimi gradi, legati a livelli di responsabilità e senza distinzione di carriere: i termini di ‘Ufficiale’ e ‘Sottufficiale’ non esistono. Il massimo grado è Comandante, con responsabilità di una Columna – l’aggregazione che sosteneva un fronte di combattimento – o di struttura importante, come la Scuola Militare. Il Capitàn comanda una Compañia – assimilabile forse ad un battaglione – coadiuvato da Primer Tenientes e Segundo Tenientes. In spregio al Sargento Batista non esiste tale grado ed il livello minimo è occupato dal Cabo. La divisa è uguale per tutti ed i contrassegni di grado sono modesti.
Poco tempo dopo l’esercito cubano, riaddestrato da consiglieri cecoslovacchi, prese il nome di Forza Armata Rivoluzionaria ed una struttura militare di tipo tradizionale. Raùl Castro oggi ostenta gradi con una vistosità da Maresciallo sovietico.
Il nuovo reclutamento non ha ancora consentito di formare dei quadri ed i gradi sono tutti occupati da combattenti, che li hanno raggiunti grazie al coraggio dimostrato ed alla riuscita di azioni di guerra. Vi sono adolescenti, ora alla scuola militare, che a seguito di innumerevoli azioni di staffetta, hanno raggiunto il grado di Capitàn. Joel Iglesias, responsabile nazionale dell’organizzazione giovanile, aveva 18 anni alla fine della guerra ed aveva raggiunto il grado massimo di Comandante per il suo eroismo.
Vicino alla nostra Ciudad – in località Vegas de Jibacoa, dove fu combattuta un’importante battaglia – si trova l’unico centro di reclutamento
 dell’esercito, dove affluiscono i volontari, giovani di almeno 15 anni. Vi rimangono tre mesi dopo di che, superata la prova con profitto, passano alla Scuola Militare di Minas del Frìo dove completano il corso di dodici mesi. Le reclute possono liberamente rinunciare in qualsiasi momento. Circa un terzo se ne va dopo due o tre settimane, non reggendo la vita dura cui sono sottoposte. L’addestramento, infatti, riproduce le condizioni incontrate dai guerriglieri ‘barbudos’. Gli alloggiamenti sono baracche poste attorno ad una ‘piazza’ circolare, ma il termine ‘baracca’ è poco appropriato; esse sono formate, infatti, dal solo tetto sostenuto da tutta una serie di pali messi in modo che tra l’uno e l’altro ci si possa stendere un certo numero di amache, i letti delle giovani reclute.
La nostra unità comprende una compagnia femminile, intitolata a Mariana Grajales, eroina dell’indipendenza, con alloggiamento in una baracca separata. Non risultano ammesse donne tra le reclute, o forse non vi sono aspiranti. Guevara in Guerra de guerrillas, esemplare manuale organizzativo della guerra rivoluzionaria, afferma che la disciplina è fondamento essenziale dell’esercito, da mantenere con premi e punizioni. I premi consistono in attribuzione di punteggi per l’avanzamento di grado e responsabilità. La vita di guerriglia consente solo due forme di punizione, a parte la fucilazione: la privazione di sigarette o altri generi voluttuari oppure, nei casi gravi, al punito viene tolta l’arma, che dovrà riconquistare o rubare al nemico, o rimeritare portando a termine rischiose azioni di collegamento.  Non conosco l’impostazione del dopo guerra, ma Guizzardi nota come “scorre la più perfetta delle discipline poiché essa è sentita e non forzata come in qualsiasi altro esercito” e ciò è motivo d’orgoglio per i militari cubani. A Jibacoa come a Minas del Frìo, non c’è distinzione di vitto e alloggio tra ufficiali e reclute, né “è d’obbligo saluto alcuno, tanto meno chiamare gli ufficiali con il loro grado, è sufficiente chiamarli per nome”.
L’armamento individuale è abbastanza standardizzato, essendo quasi tutto di provenienza USA: fucili Garrand, carabine Winchester. La compagnia femminile ha in dotazione mitra italiani Beretta. Le pistole sono proprietà personale e se ne vedono infatti d’ogni tipo.
Un ufficiale della scuola militare, al momento della partenza, si sfila la sua smisurata Smith & Wesson con tanto di fondina e cinturone e ne cinge Guizzardi, in segno di ringraziamento e di affetto. Lo invidiamo tutti, ma effettivamente solo lui s’è veramente guadagnato un simile regalo.

 
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Al lavoro, compagni!

Post n°15 pubblicato il 12 Settembre 2005 da ruconcon
Foto di ruconcon

La Brigada si compone di oltre cento giovani, di molti Paesi. Una bella forza di lavoro, peccato che quelli che sanno davvero lavorare siano poche unità: l’italiano Guizzardi, qualcuno tra i cinesi, i russi, altri dell’Est europeo e tra i latinoamericani. Dopo averci censiti e suddivisi in squadre, un Tenente – siamo aggregati all’unità militare che lavora alla Ciudad – destina gli italiani al completamento di una palazzina nei pressi della strada. Destiamo la curiosità dei campesinos di passaggio a cavallo, ma il risultato produttivo è scarso e da allora siamo impiegati solo in compiti generici di picco, pala e carriola. La fatica è tanta ed il sole scotta assai, ma ce la metto tutta a scavare e poi a smuovere pietre, rastrellare, ripulire il terreno, con l’animo – non racconto storie – del volontario che lavora per realizzare un obiettivo rivoluzionario.  Lo stesso entusiasmo anima tutta la Brigada; i cinesi, addirittura, si stabiliscono delle mete di lavoro, piantando una bandiera rossa nel punto dove arrivare alla fine della giornata. Purtroppo il sole del Tropico è sfiancante anche per chi c’è nato, figurarsi per noi; così decidiamo di tutelare la nostra salute, stabilendo una sosta di dieci minuti per ogni ora di lavoro, che forse poi diventano quindici. D’altra parte i soldati e le soldate che vediamo lavorare nei pressi tengono un ritmo chiaramente adatto al clima ed alla loro umanità tropicale; chissà perché alla più carina (foto) tocca soltanto il compito di innaffiare. I cinesi ci copiano presto, pur mantenendo il sistema della bandiera.
Forse perché non ci si annoi a ripetere lo stesso lavoro il Tenente ha la bell’idea di farci sistemare a prato una vasta zona, trapiantando cotiche erbose ricavate dal terreno incolto fuori della Ciudad. Al picco ed alla pala si aggiunge così la zappa, per la squadra ‘esterna’, che si alterna – mattina e pomeriggio - con l’altra ‘interna’ nel compito di mettere a dimora le benedette zolle. Preleviamo anche e trapiantiamo qualche alberello e cespugli. Dicono che il Capitàn Peres è contento.
In meno di trenta giornate di effettivo lavoro la Brigada non potè costruire qualcosa che consentisse la posa di una targa commemorativa - d’altra parte la Ciudad era già tutta edificata - ma di lavoro di sistemazione ambientale ne fece parecchio, con tanta onesta volontà e con risultati di buona utilità. Il pensiero che alla ripresa della scuola i bambini avrebbero potuto correre sui  prati da noi formati, ci riempiva di legittima soddisfazione. La squadra internazionale di lavoratori dell’edilizia, veri, riuscì anche a finire la palazzina, destinata a centro di informazioni ed accoglienza.
                                           ♪ 

La vita alla Ciudad non era solo fatica. A parte le visite turistiche, vennero a intrattenerci un paio di complessini musicali (Pachanga!); ci riposavamo al fresco nei nostri alloggiamenti o andavamo alla Tienda, la tettoia dove c’erano bar-ristorante, televisione, jukebox e flipper. Era lo spaccio e circolo militare (truppa e ufficiali facevano vita comune), aperto ai campesinos di passaggio, che fermavano il cavallo legandolo all’apposita stanga, stile far-west. Non c’erano alcolici, anche la birra era analcolica, ma facevano dei frullati di frutta e dei frappè eccezionali; se ci entrassi ora saprei ancora cosa ordinare: un batido de fruta bomba oppure una leche malteada.

 

Un giorno, sono in squadra esterna, sento un fruscio e vedo un movimento vicino, nel folto d’erba. Qualcuno lancia urli, tutti mollano gli strumenti e saltano in là. Non so se anch’io faccio altrettanto, forse sì perché ad un paio di metri di distanza passa un serpentone: non ne vedo la testa, il corpo avrà una spanna di diametro; la lunghezza non so dire, non finisce mai di passare, ma certo qualche metro. Mi suonano ancora le allarmistiche voci sentite all’Avana sulle bestie pericolose d’Oriente, ma passando i giorni cessano le preoccupazioni ed in effetti dopo il serpente non vedo altri animali strani, salvo una povera iguana, portata al guinzaglio da un campesino.
Nella Ciudad c’è invece un’invasione di mosche, evidentemente attirate dall’agglomerato umano e relativi rifiuti; ma veramente malefici, non solo fastidiosi, sono i mosquitos che ci sono nella campagna, piccoli – quasi invisibili – ma terribili per le punture che mi riempiono di ponfi, soprattutto le gambe. Grattando, buttano sangue e pus. Nei momenti di riposo è un continuo sventolare sulle gambe per cacciare le mosche che, vigliacche, tendono a posarsi proprio sulle croste. Capisco perché i cubani lavorino sempre vestiti, nonostante il caldo. Un argentino, che chiama tutti hermano - fratello -  e così per tutti il suo nome diventa Hermano, s’investe del compito d’infermiere e gira negli alloggiamenti con cotone e disinfettante, bravo samaritano che ricordo con gratitudine.
Caldo, fatica e punture sono un sacrificio, che sopporto ricordando che in questa stessa zona tanti combattenti ne hanno passate di ben peggio, fino alla morte. Stringere i denti e lavorare. Questa zolla d’erba che mi fa faticare per staccarla – penso – è il mio piccolo contributo alla Rivoluzione, forza!
I cinesi cantano, anche, benedetti loro!
                                             
 

 

 

 

 
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La Ciudad Escolar Camilo Cienfuegos.

Post n°14 pubblicato il 10 Settembre 2005 da ruconcon
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Il 23 novembre del 1959”, dice un sito cubano, “si realizzò il primo Lavoro Volontario convocato in Cuba da parte del Che, a El Caney de Las Mercedes durante la costruzione della prima grande opera educativa costruita a Cuba dopo il trionfo della Rivoluzione.” Una foto, tratta dal sito delle Forze Armate, mostra il Che al lavoro ma nel testo non si fa riferimento al lavoro volontario. “Con la costruzione della Città Scuola ad El Caney de las Mercedes l’Esercito Ribelle avvalorò la sua partecipazione alle trasformazioni socioeconomiche del paese”.
Era frequente nei Paesi comunisti manipolare le vicende storiche, a favore del personaggio al potere. Qui troviamo stranamente due diverse enfatizzazioni: da una parte la costruzione della scuola è accreditata al lavoro volontario, a gloria del Che, e dall’altra si attribuisce tutto il merito all’Esercito, quale forza propulsiva della trasformazione sociale rivoluzionaria. Ministro delle Forze Armate è, da sempre, Raùl Castro. Meglio lasciar stare l’indagine storico-politica che mi ha ancora una volta attirato e ritornare ad esercitare la memoria.
Nell’agosto 1960 la Città Scuola è edificata e provvista delle dotazioni necessarie al funzionamento. Gli studenti residenti sono a casa per le vacanze; c’è una classe di bambini della zona. I cubani menano gran vanto del lavoro svolto dall’Esercito, per un’opera di vastissimo valore sociale. La buona qualità delle costruzioni denota però l’intervento qualificato d’impresa edile; nessuno accenna a lavoro volontario precedente a quello della Brigada Internacional. Non sentii mai citare il nome dell’architetto progettista, il che mi sembra ingiusto per un’opera di così notevole levatura innovativa.
La Brigada è alloggiata nei diversi edifici ad un piano che compongono la Ciudad; il piano terra destinato ad aule, mense o spazi collettivi. Al piano superiore gli alloggi, camere con tre letti a castello e armadi a muro, e servizi in comune. Tutte le finestre sono senza vetri, ma con persiane fisse a larghe lame, ideali nel clima tropicale. Di fatto, un collegio spartano, ma funzionale e senza l’aria da caserma o, peggio, da carcere che possono contrassegnare strutture d’accoglienza vincolata. Una bella comunità per i giovani ospiti, bambini e ragazzi provenienti dalla campagna circostante e dalle montagne della Sierra. Era – penso lo sia ancora – una zona scarsamente popolata, con case coloniche (spesso dei bohìos, capanne di paglia) sparse o riunite in agglomerati di poche unità, collegati solo da mulattiere. Per combattere l’analfabetismo, pressoché totale, della popolazione la Rivoluzione puntò su due strumenti: l’impiego di Maestros Voluntarios per gli adulti e l’accoglimento in collegio, la Ciudad Escolar, per i giovani.
La Ciudad Escolar Camilo Cienfuegos ha messo i bambini della campagna, addirittura della Sierra, in condizione di istruirsi alla pari degli altri, di essere nutriti e curati adeguatamente e di uscire dall’isolamento fisico e sociale di un ambiente naturale difficile. Ha rappresentato un’opera veramente rivoluzionaria; è una di quelle realtà che ti fanno rispettare la Rivoluzione cubana, anche con tutti i suoi limiti di democrazia e libertà! Ed è con orgoglio sincero che posso vantare che alla sua realizzazione ha contribuito anche il sudore di Ruggero Concone, giovane socialista italiano.

Nel 1998 m’informai ed appresi che esisteva ancora. Sono oggi ancora più contento – mi sono già commosso abbastanza – di trovare su Internet che non solo funziona, ma che si stanno facendo interventi di lavoro volontario per il suo miglioramento.

 
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Rane Toro

Post n°13 pubblicato il 07 Settembre 2005 da ruconcon
Foto di ruconcon

Partiamo in treno nel pomeriggio. Le vetture sono di fabbricazione americana, sembra di essere in un film anni ’40. Anche il controllore indossa una divisa da film americano. Un vagone postale è riservato alla nostra comitiva, con scatole di viveri e bevande e i bagagli di qualche delegazione (particolarmente ingombrante quello dei cinesi). Il treno fa tante fermate, con soste prolungate; sembra che anche gli orari dei treni a Cuba seguano il calmo ritmo di vita tropicale. Per circa 900 chilometri c’impiegheremo più di 24 ore! Di giorno si vede l’affascinante campagna cubana, con zone coltivate a riso e altra roba sconosciuta, seguite da enormi piantagioni di canna, da vastissimi pascoli e da incolti. Belle le coltivazioni di ananas, sembrano tante piante da appartamento in fila. M’incuriosisce vedere che le recinzioni di filo di ferro sono sorrette da alberi, anziché pali; mi spiegano che per sostegno sono piantati rami ancora verdi, che mettono radici diventando alberi. E’ ancora presto per il raccolto della canna da zucchero. Fa caldo e non si riesce a dormire; con un altro compagno ci viene la brillante idea di collaudare le nostre amache, appendendole a dei ganci nel vagone postale. Ci saliamo; il movimento del treno ci fa dondolare, sembra proprio una bella pensata ed altri ci imitano. Dopo poco dobbiamo però rinunciare, perché il dondolìo non induce per niente il sonno, ma la nausea. Peccato, però l’esperimento è servito a dimostrare che il telo ricevuto in dotazione può davvero servire come amaca, anche se stretta, corta e scomoda, e che le corde reggono.
Il principale mezzo di locomozione in campagna sembra essere il cavallo; se ne vedono, belli, al pascolo e, vicino ai paesi attraversati, elegantemente montati da campesinos dall’aria fiera.
Nel 1998 il cavallo è ancora una risorsa importante, non solo per il movimento in campagna; anche in città corrono carri e calessi di varia foggia.
Fa ancora più caldo e il viaggio diventa sempre più lungo e noioso. In una stazione, era forse Holguìn, staccano i nostri vagoni e proseguiamo su una linea normalmente non usata per il traffico passeggeri, ma solo all’epoca del raccolto della canna. Finalmente arriviamo in un piccolo scalo, senza nome, probabilmente uno zuccherificio. E’ ormai notte, piove e si vedono molti lampi lontani del temporale passato. Saliamo su alcuni camion scoperti, da movimento terra, che saranno nelle settimane successive il nostro normale mezzo di trasporto. Percorriamo pochi chilometri di strada sterrata che alla luce dei fari si trasforma poi in pista, di recente spianata e acciottolata per costruire una nuova strada, che sale in collina. Finalmente ci fermiamo davanti una costruzione di legno con tettoia di lamiera, sotto di cui sostano dei militari. Con i fari s’intravedono, a poca distanza sul dosso, degli edifici bassi, in muratura.
Tutto attorno è nero assoluto e ricominciano a cadere goccioloni, ma non ci faccio caso: dal buio vengono, a tratti, forti strepiti, a mezzo tra il ruggito ed il boato. Oppure tra il bramito e il mugghio o… Sono sicuro che si tratti di qualcosa vivo, animale, e che mette timore, ma cosa? Non mi vengono in mente altri urli animaleschi adattabili al rumore cupo che si sente. Che siano gli animali pericolosi di cui ci hanno parlato all’Avana?
Sollecitati dagli ordini dei militari che ci vengono incontro, saltiamo giù dai camion. Sprofondo nel fango fin sopra i begli scarponi nuovi. “Benvenuti all’accampamento della Ciudad Estudiantil Camilo Cienfuegos. Sono il Capitàn Rafaèl
Perez Rivas” dice un tale che indossa una specie di divisa. “L’Ejercito Rebelde è lieto di accogliervi. Mi spiace, siamo al buio perché il fortunale ha interrotto la linea elettrica.” Ho trovato il nome del Capitàn in un articolo di Guizzardi, che ne fa anche la descrizione. “Il Capitano è un tipo curioso di civile militarizzato: la sua divisa infatti è un vero mosaico di indumenti più strani; porta lunghi e infangatissimi stivaletti di foggia americana; un largo sombrero messicano, dalle falde rivolte all’insù e unite tra loro da un pezzo di spago, gli copre un testone rapato; maglietta verde-oliva, come quella delle reclute.”
 

Una volta intruppati ci mettiamo in marcia nel fango verso gli edifici, guidati da alcuni soldati con torce elettriche. Non solo io, tutti siamo impressionati dal baccano che continua. Un soldato se n’accorge e ci fa “Tranquilli, sono le rane toro, ci sono sempre, ma quando piove si fanno sentire di più!”.

 
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Brigada Internacional de Trabajo Voluntario.

Post n°12 pubblicato il 06 Settembre 2005 da ruconcon
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I viaggi in delegazione organizzati dalla Federazione Mondiale della Gioventù si svolgevano nell’Europa orientale comunista; in Italia erano conosciuti come viaggi-premio ai giovani del PCI e del PSI più meritevoli. Tra mangiare, bere e andare a spasso, pare che qualcuno, regalando calze di nylon, riuscisse anche a ‘cuccare’ tra le compagne del Paese visitato. A Cuba è la prima volta che la Federazione mette piede, con l’obiettivo politico di cui ho già detto. A parte che le cubane sono davvero belle e simpatiche, ma non portano calze e non hanno intenzione di farsi cuccare, fino ad ora il viaggio ha avuto soprattutto belle qualità turistiche.
Un giorno ci annunciano che siamo stati inseriti nella Brigada Internacional de Trabajo Voluntario, con destinazione la Provincia di Oriente, dove si sta costruendo una città-scuola ai piedi della Sierra Maestra. Oggi un’iscrizione ‘d’ufficio’ a qualcosa mi desterebbe qualche contrarietà, allora mi riempie d’orgoglio l’essere registrato come volontario. Sarà stato forse anche il nome, che richiama le gloriose Brigate Internazionali della Guerra di Spagna.
Andiamo in una sede della Milicia Obrera, per ricevere la dotazione di vestiario; ho ancora la distinta:
- due paia di pantaloni di tela blu, con tasconi laterali uso militare (sono quelli della divisa della Milicia Campesina)
due camicie azzurre (quelle della Milicia Obrera)
magliette, mutande, calzettoni
scarponi militari
un telo di canapa con cordame, per appenderlo come amaca; opportunamente piegato serve anche come zaino (ci provo, sembra impossibile)
-
  un telo di plastica e apposite cordicelle, da stendere quale tetto sopra l’amaca a difesa dalla pioggia e dall’umidità della notte.
L’amaca e relativa plastica – mi spiegano – fanno parte della dotazione essenziale di ogni soldato dell’Ejercito Rebelde, che può appenderla ovunque e riposare con qualsiasi tempo. Più dell’idea di dormire nella selva mi preoccupo di non riuscire a trovare due alberi alla distanza giusta per appendere l’amaca, ma rinvio il pensiero, non attuale.
Indosso la divisa: con i pantaloni infilati a sbuffo negli scarponi faccio la mia bella figura, proprio da Brigata Internazionale. Così vestiti partecipiamo agli ultimi incontri nella capitale; il saluto, non ricordo da parte di quale autorità, avviene in un teatro, con ripresa televisiva. Le persone con cui parlo non sono mai state in Oriente, non hanno alcuna intenzione di andarci e ci ammirano molto per lo spirito con cui affrontiamo le difficoltà presenti da quelle parti: caldo terribile, selva folta, montagne irte e terre incolte, insetti, animali (serpenti, coccodrilli…), malattie (quali? Chiedo un poco preoccupato; paludismo, la prognosi). “E’ povera gente poco civile”, mi dice uno, “tutti negri”.
Se il sole tropicale dell’Avana mi ha già scottato, chissà come sarà laggiù! Il paludismo potrebbe essere la malaria, ma si è parlato di Città-scuola, non di bonifica di paludi; non credo poi che ci faranno mangiare dai coccodrilli! Il tono dei discorsi è - in fondo - appena più pesante di quello usato da noi per commiserare i giovani sfortunati, mandati in Sicilia in servizio di leva militare. Semplicemente, la provincia di Oriente dev’essere la zona arretrata del Paese. Vedremo.
Dicono che ci daranno anche una paga: cinque pesos la settimana, non è poco.

 

 

 
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Turismo e solidarietà intrnazionale.

Post n°11 pubblicato il 05 Settembre 2005 da ruconcon
Foto di ruconcon

L’assenza di turisti consente di alloggiarci nientemeno che all’Hotel Nacional, il migliore e più grande dell’Avana, lusso anni ‘30. A Cuba da turista nel 1998, voglio ritornare al Nacional; pur con qualche strappo alle moquettes è ancora lussuoso. E’ stato dichiarato monumento nazionale; un pannello ricorda le personalità che vi sono passate. La mia foto non c’è.
Que viva la Pachanga… ♪ 

Ricordo momenti in cui compare la Pachanga: un complessino musicale paesano alla Sierra, soldati allegri, un gruppo di lavoratori neri, la Brigada in viaggio sul camion. Momenti che non corrispondono alle immagini di spettacolo musicale latino che ho scaricato da internet. Non mi viene in mente quando l’ho sentita suonare la prima volta. Poi ritrovo una fotografia che ritrae la delegazione italiana al completo seduta ad un tavolo di night e mi ricordo del Tropicana.
“Il Tropicana è uno dei locali top nel mondo, al livello di quelli parigini e più, ci andiamo?”, avevo proposto. Il locale è davvero all’altezza della sua fama; la sala degli spettacoli è veramente grandiosa.
Sulla scena suona una grande orchestra ed il corpo di ballo è eccezionale, per bravura d’esecuzione e per la bellezza delle ballerine. E’ qui al Tropicana, sono sicuro, che ho sentito la Pachanga per la prima volta, in esecuzione da grande orchestra, da ‘charanga’. Il giorno dopo ci annunciano che è nel programma di intrattenimento una serata al Tropicana e si apre una discussione, che sembra di essere all’ONU. I cinesi, chiarito di che si tratta, rifiutano con indignazione una tipica espressione dell’immoralità della classe capitalistica che, evidentemente, ancora domina a Cuba. Con loro si schierano nord-coreani e tedeschi; i russi ed altri li seguono con qualche perplessità, mi sembra mal volentieri. Il resto del mondo accetta invece con entusiasmo; l’Italia può considerarsi astenuta, perché si sarebbe preferito un altro locale – senza dire che per noi il Tropicana era una replica – ma si adegua. E così, ancora Pachanga!

Alla faccia della morale comunista, il Tropicana è rimasto tale e quale, ancora oggi!

  ♫Que viva la Pachanga...

Pare che oggi Varadero sia un grande vacanzificio, dedicato in particolare al turismo sessuale. Nel 1960 c’erano pochi alberghi ed il lussuoso Sporting Club Cubanacan. Proprio qui ci portano al mare, anche per mostrarci che il governo rivoluzionario ha aperto al popolo il club non più esclusivo per ricchi, che ha preso il nome di ‘Circulo Obrero Cubanacan’. E’ davvero un bel posto, spiaggia finissima con palme, Club House notevole. Ragazzi e ragazze cubani cordialissimi ed amichevoli, coi quali passiamo una bella giornata.

I giorni all’Avana non sono solo da turista, ci portano ad assolvere il nostro compito di testimoni della solidarietà internazionale. Faccio la mia parte con piena convinzione, dico alla gente come da noi si ammira la rivoluzione cubana, quanto è popolare Fidel, come sono contento di essere qui. “Dopo essere riusciti ad abbattere il vecchio potere”, accenno con un gruppo del 26/7 che sembra voler approfondire il discorso politico, “i rivoluzionari si devono ora impegnare a costruire la società nuova, che è la vera rivoluzione. La guerra è finita e il valore militare dimostrato nella lotta forse non serve più, dovreste scegliere uomini nuovi sulla base della loro capacità tecnica e dell’impegno politico.” Ottengo per risposta un cortese silenzio e qualche aggrottar di ciglia. Troppo tardi capisco che i miei interlocutori sono stati combattenti, che non hanno alcuna intenzione di mollare posti di potere e che magari sono preoccupati dalle avances dei comunisti (si chiamava Partido Socialista Popular) per entrare nel governo dopo essere stati totalmente assenti nella guerra.Il giorno dopo la visita ed i festeggiamenti in una fabbrica metallurgica leggo su un quotidiano che il potere rivoluzionario ha estromesso il preteso rappresentante dei lavoratori, perché legato ad una organizzazione sindacale americana. Realizzo che nella fabbrica visitata si era incontrata una strana assenza, quella del sindacato. Capisco - ora - che era un chiaro, brutto segnale.L’Università funziona anche d’estate, per recuperare l’anno di chiusura imposta da Batista per impedire dimostrazioni degli studenti. Abbiamo un incontro col Directorio del Movimiento 13 Marzo - altra data di scontro armato, perso - che pare sia di ispirazione trotzkista.Mi presento con in testa il berretto goliardico, allora tanto in voga da noi; mi chiedono che roba è. “Lo portiamo noi universitari, in ricordo del berretto indossato dagli studenti che combatterono per l’indipendenza d’Italia nel 1848”, spiego e cerco di illustrare una vicenda nazionale. Una voce, sottotono ma non tanto, mormora “pagliacciate” o qualcosa di simile. Mi rendo conto che sto parlando con gente che ha davvero combattuto per la rivoluzione, che ha visto cadere tanti compagni, e mi vergogno un po’. Mi regalano comunque un distintivo – la civetta di Minerva che stringe negli artigli un fucile – del gruppo rivoluzionario universitario.

 

Arriba la Pachanga…

 

In un cantiere edile di costruzione di case popolari, nuovo incontro con la Pachanga. Tre o quattro operai neri si mettono a cantarla, sembrerebbe in nostro onore, usando come strumenti una cassa, un bidone e simili. E’ la prima volta che noto l’ineguagliabile capacità, propria dei neri, di suonare musica ritmica alla perfezione anche senza strumenti, o meglio usando mani, piedi, voce.

 

 

 
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Il bloqueo

Post n°10 pubblicato il 02 Settembre 2005 da ruconcon
Foto di ruconcon

Ritorno quindi a Cuba, 1960. Al saccente compagno francese si contrappongono i fatti, operati dai cubani. Hanno subito mantenuto la promessa ai campesinos ed avviato una radicale riforma agraria; per l’attuazione dell’altra promessa, di indipendenza dal potere economico yanqui, procedono alla nazionalizzazione di imprese americane. E qui alla temerarietà di Castro si somma la grettezza di visione politica dei governanti USA.

Cuba, ultima colonia spagnola in America, dopo anni di rivolta sanguinosa ottenne l’indipendenza agli inizi del XX secolo. Fu in effetti il risultato della guerra vinta dagli Stati Uniti contro la Spagna, qui e nelle Filippine. Da allora gli americani sono stati padroni delle risorse e dei governi di Cuba, come già erano di tutti gli Stati caribici; la Repubblica di Panama, ad esempio, fu creata al solo scopo di consentire la costruzione del Canale senza interferenze. A dettar legge non era spesso nemmeno il governo ma le compagnie; tale era il potere della United Fruit Co. che quei Paesi erano chiamati Banana Republic.

Castro non è comunista, definisce la sua politica Humanismo Revolucionario, il suo modello storico sono Martì, Bolìvar ed altri rivoluzionari e Padri della Patria del Caribe. Non credo abbia mai letto Marx e Lenin.

Lo vedo in televisione parlare all’ONU; prospetta agli USA di pagare con i proventi delle esportazioni gli espropri delle terre, degli zuccherifici, dei telefoni e di qualche raffineria. Propone in pratica una lunga rateazione. E’ un’offerta dal sapore di transazione commerciale, che sembrerebbe accettabile per un governo di potere imperiale ed anche per colossi economici come le compagnie espropriate. Il governo USA invece rifiuta, minaccia e pone ultimatum. Fa intervenire a suo sostegno l’Organizzazione degli Stati Americani (OEA), che taglia a Cuba le quote di esportazione di zucchero. Il governo USA, Presidente Eisenhower, è certo che una debole piccola isola che è di fatto da 50 anni una sua dipendenza coloniale finirà per cedere, come sempre è avvenuto fino ad allora.

Ma Castro non cede, forse non si rende ancora conto di cosa potrà significare il blocco economico.

¡Con OEA o sin OEA, ganaremos la pelea!

La mia impressione di allora, sul posto, fu che non pensasse di contare su ingenti aiuti sovietici, anche se il Ministro Guevara aveva già avviato contatti. Non ho mai letto ricostruzioni diverse, che dopo la caduta dell’URSS sarebbero state possibili.

Primi di agosto. Partecipo ad una manifestazione anti USA che celebra il funerale dell’imperialismo yanqui. Tranne lo zucchero, il tabacco, il caffè e le banane, tutto a Cuba arriva dall’estero; io non lo so ed i centomila dimostranti non ci pensano.

¡Patria o Muerte!  ¡Venceremos!

Il governo USA proclama il blocco economico totale.

Cuba è offerta in regalo al blocco comunista.

Primi di ottobre. Sono tornato all’Avana dopo due mesi alla Sierra; tira aria di guerra imminente. Le auto circolano, l’elettricità non si interrompe, evidentemente il petrolio arriva ancora; gli alimentari non sembrano mancare. C’è carenza di carta igienica, fatico a trovare in vendita lamette da barba, non si sviluppano più foto diapositive: prima si mandavano i rullini a Miami.

L’URSS non può rifiutare il regalo.

In porto all’Avana ci sono due navi mercantili russe – non so cosa trasportino - ed una unità militare in visita di amicizia. Dicono che le puttane sono arrabbiatissime; ce l’hanno con Fidel ed a morte con i russi. Evidentemente capiscono come andrà a finire, meglio di Eisenhower e di Castro.

Il bloqueo – il blocco economico - è cominciato davvero.

¡Patria o Muerte!

Venceremos?

 

 

 
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...fare la rivoluzione!

Post n°9 pubblicato il 01 Settembre 2005 da ruconcon
Foto di ruconcon

Il discorso di Castro è stato forte. Possiamo – no, dobbiamo! – fare la rivoluzione anche in Italia. Dobbiamo trovare il coraggio di combattere, vincere o morire, se ci vogliamo vantare di essere rivoluzionari. Gli insegnamenti di Jacometti sono lontani, un ricordo appannato, ben altro maestro è Fidel!

Discutiamone compagni. Forte della scuola FGCI il capo della nostra delegazione dà una pronta risposta: lo scontro in Italia si vince mobilitando le masse nella lotta democratica e di classe, non con il ricorso alle armi – come ben ci ha insegnato il compagno Togliatti… eccetera. Un compagno comunista francese sviluppa un lungo discorso per dire che la Révolution del 1789, quella sovietica e quella cinese hanno esaurito la capacità della Storia di produrre rivoluzioni; dopo la vittoria armata, cosa stanno facendo di veramente rivoluzionario questi cubani?
Continuo per giorni a rigirare entusiasmo e dubbi, a pormi domande e cercare risposte. Ma ci sono da noi in Italia le condizioni? - Nemmeno a Cuba c’erano. Perchè la rivoluzione non l’hanno fatta i partigiani, che già avevano le armi e la struttura combattente? - Il fascismo era sconfitto e bisognava lavorare per il socialismo in democrazia.

E quel che è stato in Grecia, dove i partigiani comunisti ci hanno provato? - E’ stata la logica di divisione del mondo, che assegnava la Grecia al blocco capitalista, a causare la loro sconfitta sanguinosa.

“Allora andiamo in Spagna, lì bisogna ancora abbattere il fascismo”, dico al compagno Contini di Bologna, spagnolo per parte di madre, che è nato in Spagna quando c’era la Repubblica ed i suoi sono esuli dalla sua caduta. “L’anno scorso sono andato per la prima volta a trovare i miei parenti”, mi risponde, “sarebbe impossibile, gli spagnoli dopo la guerra civile non ce la farebbero proprio più a sostenere altra violenza.”
Era questo il tipo di discorsi, i confronti, i dubbi che i giovani di sinistra facevano negli anni ’60; di contenuti molto opinabili, ma di livello che mi sembra più impegnato di oggi, con i bla bla su quanto è ladro Berlusconi e come è cattivo Bush.
Purtroppo l’accoppiata rivoluzione – violenza ha
inquinato la linea politica di una forte minoranza di giovani, che ci ha dato il 68, il 77, le B.R., i noglobal… fino ai giorni nostri, e purtroppo la vicenda ‘rivoluzionaria’ continua ancora. In America Latina il messaggio di Castro produsse un danno immane per più generazioni, non ancora risolto. Dalla Colombia all’Argentina, dal Perù all’Uruguay, in tutto il continente, sull’esempio e con l’appoggio di Cuba si alzarono movimenti di lotta, azioni terroristiche, attacchi armati. Le risposte del potere furono dittatura, violenza, prigione e morte. Migliaia di giovani cubani furono mandati a morire in America latina e soprattutto in Africa, poveri strumenti e vittime della guerra fredda, che l’Unione Sovietica non poteva permettersi di combattere direttamente ed apertamente.

Maturando le parole di un bravo, indimenticabile compagno peruviano, e poi la scossa  dell’indignazione di Jacometti, che racconterò, dopo qualche tempo la mia mente si riordinò, liberandosi  dall’allucinazione rivoluzionaria ispirata dal grande discorso di Fidel.
Ma voglio solo cercare nella mia memoria, sull’onda della Pachanga, e non scrivere un saggio che richiederebbe ricerche storiche, economiche, politiche, sulle quali non ho alcuna voglia di esercitarmi.

 
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