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Processo a Marcello Dell'utri: sentenza di appello e Cassazione

Post n°909 pubblicato il 01 Agosto 2012 da laura561

Processo a Marcello Dell'utri: sentenza di primo grado

La sentenza di appello integrale si trova al Link:

http://antimafia.altervista.org/sentenze2/dellutri/dellutri_motivazione_secondo_grado.pdf

pg 191 e ss. "Ed invece, per ammissione dello stesso imputato, l’assunzione di
Vittorio Mangano nella tenuta di Arcore avvenne proprio per l’interessamento del Dell’Utri dovendo pertanto ritenersi che la relativa
richiesta, a lui rivolta dal Berlusconi, fosse originata da ben altre esigenze
che non quelle della semplice ricerca di un fattore o di un responsabile della
villa e dei terreni circostanti.
L’obiettivo reale era invece quello di assumere un soggetto dotato di
adeguato e notorio spessore criminale la cui presenza sui luoghi avrebbe
dovuto porre al riparo da minacce ed attentati l’imprenditore milanese il
quale era entrato evidentemente nel mirino di organizzazioni malavitose
operanti in quel periodo ed in quella zona, attratte dal suo crescente successo
ed arricchimento personale.
Tale conclusione del Tribunale, che la Corte ritiene di condividere"

Conclusioni:


Così esaurita la disamina delle risultanze processuali la Corte rileva che
le conclusioni cui è pervenuta la sentenza appellata sono dunque solo
parzialmente condivisibili per le ragioni analiticamente sin qui esposte.
Quanto all’imputato Gaetano Cinà, deceduto il 23 febbraio 2006 dopo
la pronuncia della sentenza di primo grado, rileva la Corte che alla stregua
delle argomentazioni svolte e delle risultanze probatorie acquisite, non
emerga dagli atti la prova della sua estraneità agli addebiti, ovvero
dell’infondatezza degli stessi, nei termini richiesti dall’art.129 c.p.p..
Ne consegue pertanto che deve dichiararsi l’improcedibilità dell’azione
penale nei confronti di Gaetano Cinà in ordine ai reati ascrittigli perché
estinti per morte del reo.
Va confermata invece, ancorchè solo parzialmente, la condanna di
Marcello Dell’Utri in ordine all’unico reato di concorso esterno in
associazione di tipo mafioso nei limiti temporali e giuridici appresso esposti
(assorbita l’imputazione ascritta al capo A) della rubrica in quella di cui al
capo B) e limitatamente alle condotte commesse sino al 1992).

Risulta in conclusione provato, come in precedenza già osservato, che

egli ha svolto, ricorrendo all’amico Gaetano Cinà ed alle sue “autorevoli

conoscenze e parentele, un’attività di “mediazione” quale canale di
collegamento tra l’associazione mafiosa cosa nostra, in persona del suo più
influente esponente dell’epoca Stefano Bontate, e Silvio Berlusconi, così
apportando un consapevole rilevante contributo al rafforzamento del
sodalizio criminoso al quale ha procurato una cospicua fonte di guadagno
illecito rappresentata da una delle più affermate realtà imprenditoriali di quel
periodo, divenuta nel volgere di pochi anni un vero e proprio impero finanziario ed economico.
Va riaffermato che l’imputato non ha svolto solo un ruolo di
collaborazione con l’imprenditore estorto al fine esclusivo di trovare
soluzione ai suoi problemi, ma ha invece coscientemente mantenuto negli
anni amichevoli rapporti con coloro che erano gli aguzzini del suo amico e
datore di lavoro, incontrando e frequentando sia Gaetano Cinà che Vittorio
Mangano, pranzando con loro ed a loro ricorrendo ogni qualvolta sorgevano
problemi derivanti da attività criminali rispetto ai quali i suoi amici ed
interlocutori avevano una sperimentata ed efficace capacità di intervento.
Non dunque un reato di “amicizia” per avere frequentato un soggetto
dalle parentele “ingombranti” ed un esponente mafioso in ascesa, bensi il
consapevole sfruttamento di quell’amicizia e di quel rapporto che gli consentivano di porsi in diretto collegamento con i vertici della potente
mafia siciliana.

Marcello Dell’Utri ha così oggettivamente fornito un rilevante
contributo all’associazione mafiosa cosa nostra consentendo ad essa, con
piena coscienza e volontà, di perpetrare un’intensa attività estorsiva ai danni
del facoltoso imprenditore milanese imponendogli sistematicamente per
quasi due decenni il pagamento di ingenti somme di denaro in cambio di
“protezione” personale e familiare.
Infatti, anche dopo la morte di Stefano Bontate nell’aprile del 1981 e
l’ascesa in seno all’associazione mafiosa di Salvatore Riina, l’imputato ha
mantenuto i suoi rapporti con cosa nostra specificamente adoperandosi, fino
agli inizi degli anni ’90, affinchè il gruppo imprenditoriale facente capo a
Silvio Berlusconi continuasse a pagare cospicue somme di danaro a titolo
estorsivo al sodalizio mafioso in cambio di “protezione” a vario titolo
assicurata.
Ciò Dell’Utri ha potuto fare proprio perché ha mantenuto negli anni,
mai rinnegandoli ed anzi alimentandoli, amichevoli e continuativi rapporti
con i due esponenti mafiosi in contatto con i vertici di cosa nostra i quali
hanno accresciuto nel tempo il loro peso criminale in seno al sodalizio
proprio in ragione del fatto che l’imputato ha loro consentito di accreditarsi
come tramiti per giungere a Silvio Berlusconi, destinato a diventare uno dei
più importanti esponenti del mondo economico-finanziario del paese, prima
di determinarsi anche verso un impegno personale anche in politica.

Marcello Dell’Utri, dunque, per circa due decenni, ogni volta che
l’amico imprenditore Silvio Berlusconi subiva attentati ed illecite richieste
ad opera della criminalità organizzata, si è proposto come soggetto capace,
in forza delle sue risalenti conoscenze, di risolvere il problema con l’unico
sistema che conosceva, ovvero favorire le ragioni di cosa nostra inducendo
l’amico a soddisfarne le pressanti pretese estorsive.
Egli è divenuto dunque costante ed insostituibile punto di riferimento
sia per Silvio Berlusconi, che lo ha interpellato ogni volta che ha dovuto
confrontarsi con minacce, attentati e richieste di denaro sistematicamente
subite negli anni, sia soprattutto per l’associazione mafiosa cosa nostra che,
sfruttando il rapporto preferenziale ed amichevole con lui intrattenuto dai
suoi due membri, Gaetano Cinà e Vittorio Mangano, sapeva di disporre di
un canale affidabile e proficuo per conseguire i propri illeciti scopi non
rischiando denunce ed interventi delle forze dell’ordine, quanto piuttosto con
la garanzia di un esito positivo e dell’accoglimento delle proprie pretese
estorsive.
Tale condotta dell’imputato, che anche per la sua sistematicità va
fondatamente ritenuto abbia consapevolmente contribuito al consolidamento
ed al rafforzamento dell’associazione mafiosa, integra dunque il contestato
concorso nel reato associativo che deve tuttavia ritenersi sussistente solo
fino ad epoca in cui, in forza delle risultanze acquisite, può ritenersi inconfutabilmente provato il pagamento da parte di Silvio Berlusconi delle
somme richiestegli in favore di cosa nostra.
E’ stato evidenziato come la critica ed approfondita disamina delle
dichiarazioni dei collaboratori imponga di ritenere certamente provata la
corresponsione, da parte del Berlusconi per il tramite di Dell’Utri, di somme
di denaro a cosa nostra, fino al 1992, difettando invece elementi certi per
affermare che ciò sia avvenuto anche negli anni successivi ed in particolare
dopo la strage di Capaci e nel periodo in cui, dalla fine del 1993,
l’imprenditore Berlusconi decise di assumere il ruolo a tutti noto nella
politica del paese.
Mancano infatti per il periodo successivo al 1992 prove inequivoche e
certe di concrete e consapevoli condotte di contributo materiale ascrivibili a
Marcello Dell’Utri aventi rilevanza causale in ordine al rafforzamento
dell’organizzazione criminosa.
Se infatti la giurisprudenza della Suprema Corte a Sezioni Unite
impone che la prova da acquisìre ai fini della configurabilità del reato di
concorso esterno in associazione mafiosa debba riguardare ogni singolo
contributo apportato dall’agente ed alla sua portata agevolativa rispetto agli
scopi dell’associazione, risultando insufficiente ad integrare il reato una
condotta che configuri mera “disponibilità” o “vicinanza”, deve concludersi
che per Marcello Dell’Utri il contributo penalmente rilevante apportato agli
scopi dell’associazione è stato rappresentato, per le ragioni esposte, dalla comprovata condotta di mediazione, consapevolmente svolta per circa due
decenni consentendo a cosa nostra di estorcere denaro a Berlusconi, con
certezza protrattasi solo sino al 1992.
In difformità a quanto ritenuto dal primo Giudice, osserva infatti la
Corte, all’esito dell’approfondita ed obiettiva analisi delle risultanze
acquisite, che non sussiste alcun concreto elemento ancorchè indiziario
comprovante l’esistenza di contatti o rapporti, diretti o indiretti, tra Marcello
Dell’Utri ed i fratelli Filippo e Giuseppe Graviano, essendo risultato
sostanzialmente inconsistente anche il contributo offerto nel presente
giudizio di appello da Gaspare Spatuzza, le cui dichiarazioni, al di là del
risalto mediatico oggettivamente assunto, si sono palesate prive di ogni
effettiva valenza probatoria, sia per l’inutilizzabilità processuale delle mere
deduzioni ed inammissibili congetture che hanno caratterizzato l’esame del
predetto, sia soprattutto per la manifesta genericità dell’unico concreto
riferimento alla persona dell’imputato.
La Corte infine ribadisce che l’obiettivo e rigoroso esame dei dati
processuali acquisiti, costituiti prevalentemente da plurime dichiarazioni di
collaboratori di giustizia, non ha evidenziato prove certe idonee a supportare
la grave accusa contestata a Marcello Dell’Utri di avere stipulato nel 1994
un accordo politico-mafioso con cosa nostra nei termini richiesti per la
configurabilità della fattispecie di cui agli artt.110 e 416 bis c.p. nel caso paradigmatico del patto di scambio tra l’appoggio elettorale da parte della
associazione e l’appoggio promesso a questa da parte del candidato.
Non risulta infatti provato né che l’imputato Marcello Dell’Utri abbia
assunto impegni nei riguardi del sodalizio mafioso, né che tali pretesi
impegni, il cui contenuto riferito da taluni collaboranti (generica promessa di
interventi legislativi e di modifiche normative) difetta di ogni specificità e
concretezza, siano stati in alcun modo rispettati ovvero abbiano comunque
efficacemente ed effettivamente inciso sulla conservazione e sul
rafforzamento del sodalizio mafioso.
L’imputato va dunque assolto dall’imputazione ascritta, relativamente
alle condotte contestate come commesse in epoca successiva al 1992, perché
il fatto non sussiste.
Passando alle statuizioni concernenti la condanna dell’imputato, ritiene
la Corte che debba essere accolta la richiesta subordinata della difesa di
assorbimento in un unico reato associativo di natura permanente dei due
contestati reati di cui agli artt.416 e 416 bis c.p., escludendosi pertanto la
continuazione ed il conseguente aumento di pena.
Secondo la giurisprudenza della Suprema Corte, infatti, qualora la
condotta sia stata posta in essere fin da prima dell'entrata in vigore della
legge 13 settembre 1982 n.646, che ha introdotto la fattispecie criminosa di
cui all’art.416 bis c.p., si configura un unico reato associativo di natura
permanente, con esclusione della continuazione fra i reati previsti dagli artt.416 e 416 bis c.p. ed applicazione, anche per il periodo precedente
all'entrata in vigore della predetta legge 646/1982, della pena prevista
dall'art.416 bis c.p. (Cass. Sez. II sentenza n.2963 dell’8/2/1996).
Il reato di associazione per delinquere di tipo mafioso, invero, pur
autonomo rispetto a quello dell'associazione per delinquere previsto
dall'art.416 c.p., ne costituisce un'ipotesi specifica, in quanto la finalità
perseguita con la pratica del metodo mafioso è pur sempre quella di
commettere delitti, analogamente a quanto avviene nel delitto di
associazione per delinquere.
Ne consegue che, stante la natura permanente del reato associativo,
tutta la condotta incriminata, se cessata in epoca successiva all'entrata in
vigore della norma speciale, è soggetta alla disciplina da questa dettata.
L'applicabilità dell'art.416 bis c.p. si estende pertanto anche a condotte
che, pur inquadrabili nelle previsioni di detta norma, siano state poste in
essere prima della sua entrata in vigore e proseguite come nel caso in esame
anche in epoca successiva, senza che ciò comporti la violazione dell'art.2
c.p., non verificandosi in tal caso il fenomeno della retroattività, ma solo
quello della naturale operatività della nuova specificante qualificazione di
una medesima condotta la quale altrimenti, per la parte pregressa,
rimarrebbe autonomamente sanzionabile, con svantaggio per l'imputato, in
base alla più generica norma incriminatrice preesistente, costituita
dall'art.416 c.p. (cfr. Cass. Sez. I sentenza n.80 del 30/1/1992). Resta pertanto assorbito nel delitto di cui all’art.416 bis, quale reato
progressivo permanente, il reato meno grave di associazione per delinquere
eventualmente in precedenza già sussistente.
Giova inoltre rilevare come il momento consumativo dell’unico reato
progressivo permanente, che in generale si verifica all'atto del recesso
volontario del partecipe all'associazione, nel caso del concorso esterno in
associazione mafiosa, integrato dai singoli contributi apportati dall’agente
agli scopi del sodalizio, deve individuarsi, anche per quanto rileva ai fini del
decorso del termine di prescrizione, nella data dell’ultimo contributo fornito
dall’agente e dunque, per l’imputato Marcello Dell’Utri, nell’anno 1992.
Ritiene la Corte che all’imputato non possano riconoscersi le invocate
circostanze attenuanti generiche in ragione sia del precedente penale da cui
risulta gravato, sia soprattutto avuto riguardo all’estrema gravità della
condotta criminosa addebitata concretatasi nell’avere apportato un
contributo sistematico protrattosi nel tempo per circa due decenni
all’associazione mafiosa cosa nostra, tra le più pericolose e ramificate
organizzazioni criminali operanti nel nostro paese.
Ritiene la Corte che la pena da infliggere all’imputato, considerando
l’esclusione della continuazione e la pronuncia parzialmente assolutoria,
debba pertanto determinarsi in anni sette di reclusione che, pur superiore ai
minimi edittali previsti dal reato aggravato ai sensi dei commi 4 e 6
dell’art.416 bis c.p., risulta conforme ai parametri di cui all’art.133 c.p. ed adeguata in particolare alla rilevante gravità dei fatti contestati costituiti
dall’instaurazione e dal mantenimento di stabili ed illeciti rapporti criminosi,
dal 1974 al 1992, con l’associazione mafiosa cosa nostra e con alcuni dei
suoi esponenti di maggiore rilievo.
Non merita accoglimento invece la richiesta di aggravamento della pena
formulata con l’atto di appello incidentale proposto dal Procuratore della
Repubblica di Palermo e reiterata dal P.G. nel presente giudizio di appello.
Il sostanziale e tutt’affatto irrilevante ridimensionamento, anche sotto il
profilo del tempus commissi delicti, delle condotte criminose per le quali è
stata confermata la penale responsabilità dell’imputato, assolto invece per
insussistenza del fatto da quella parte dell’imputazione, contestata e ritenuta
provata dalla sentenza appellata, che addebitava a Marcello Dell’Utri la
stipula con l’associazione mafiosa di un patto politico-mafioso, impone di
non accogliere la richiesta di aggravamento del trattamento sanzionatorio
formulata dal P.G. procedendo invece ad una pur contenuta riduzione della
pena.
La sentenza appellata va confermata nel resto condannandosi l’imputato
Marcello Dell’Utri alla refusione delle spese sostenute dalle parti civili
costituite Provincia Regionale di Palermo e Comune di Palermo nei termini
di cui al dispositivo.
La particolare complessità del processo, avuto riguardo alla gravità
delle imputazioni ed alla rilevante mole degli atti processuali da esaminare e valutare, contenuti in oltre 140 faldoni, ha imposto la fissazione del termine
massimo (90 giorni) per il deposito della motivazione della sentenza. P.Q.M.
Visti gli artt. 150 c.p., 530, 531 e 605 c.p.p.;
in riforma della sentenza del Tribunale di Palermo dell’11 dicembre
2004 appellata da Cinà Gaetano e Dell’Utri Marcello ed incidentalmente dal
Procuratore della Repubblica di Palermo;
dichiara non doversi procedere nei confronti di Cinà Gaetano in ordine
ai reati ascrittigli perché estinti per morte del reo;
assorbita l’imputazione ascritta al capo A) della rubrica in quella di cui
al capo B), assolve Dell’Utri Marcello dal reato ascrittogli, limitatamente
alle condotte contestate come commesse in epoca successiva al 1992, perché
il fatto non sussiste e per l’effetto riduce la pena allo stesso inflitta ad anni
sette di reclusione.
Conferma nel resto l’appellata sentenza.
Condanna Dell’Utri Marcello alla refusione delle spese sostenute dalle
parti civili costituite Provincia Regionale di Palermo e Comune di Palermo
che si liquidano per ciascuna di esse in complessivi euro 7.000,00 oltre spese
generali, IVA e CPA come per legge.
Indica in giorni 90 il termine per il deposito della motivazione.
Palermo, 29 giugno 2010
Il Cons. estensore Il Presidente
Dott. Salvatore Barresi Dott. Claudio Dall’Acqua

L’intera sentenza della Cassazione del processo Dell'utri, divisa in 4 parti è a questi link:

Prima parte

Seconda parte

Terza parte

Quarta parte

pqm

Dichiara inammissibile il ricorso del Procuratore generale presso la Corte di appello di Palermo. Annulla la sentenza impugnata nel capo relativo al reato del quale l'imputato è stato dichiarato colpevole e rinvia,per nuovo giudizio su di esso, ad altra sezione della Corte di Appello di Palermo.

Così deciso, 9 marzo 2012

 

 
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