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Rivista di approfondimento culturale e politico dell'Associazione SocialismoeSinistra
 

 

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La sinistra che verrà che non è quella che è “andata”, di Felice Carlo Besostri

Post n°403 pubblicato il 19 Aprile 2014 da socialismoesinistra


Non possiamo riscrivere la storia, neppure la cronaca del passato più recente. Eppure non è sbagliato chiedersi cosa sarebbe successo se nella sinistra non ci fossero state due scissioni che indebolirono le sue componenti non comuniste proprio nei primi decisivi anni della Repubblica: la scissione di Palazzo Barberini del Partito Socialista Italiano (1947) e quella del Teatro Italia del Partito d’Azione (1946).

Scissioni inevitabili, basta pensare al retaggio linguistico che hanno lasciato nella sinistra dove “socialdemocratico” e “azionista” non erano semplici aggettivi ma insulti, i socialdemocratici traditori della classe operaia e gli azionisti astratti intellettuali borghesi, quindi senza salde radici nella classe operaia, nel proletariato: un proletariato che aveva vinto in Russia e che presto avrebbe vinto nel mondo intero.

In Italia  quei fatti produssero un fenomeno unico nei paesi, che si trovavano nella parte occidentale dell’Europa, cioè l’egemonia a sinistra di un partito comunista, saldamente parte del movimento comunista mondiale e fedele al paese guida, l’URSS.

Invero anche in Francia ci fu qualcosa di analogo, cioè un partito comunista più forte di quello socialista, ma con due grandi differenze, cioè la mancanza di un partito democristiano interclassista e di un patto di unità azione tra socialisti e comunisti.

La divisione del mondo tra Est e Ovest, che in concreto significava la divisione tra  economia di mercato ed economia  pianificata e collettivizzata, tra NATO e Patto di  Varsavia, relegava la sinistra, tutta la sinistra all’opposizione.

Tale condizione impediva alla sinistra di elaborare un proprio modello di sviluppo, di essere una forza di governo, cioè di essere in grado di pretendere la guida del paese con propri uomini e programmi, al più poteva denunciare le storture, quando non le vere e proprie ingiustizie prodotte dallo sviluppo capitalistico.

Accanto ad un forte partito democristiano interclassista, che nel 1948 conquistò da solo la maggioranza assoluta, la sinistra italiana, a differenza di quella francese, doveva fare i conti con la Chiesa Cattolica, la sua gerarchia ed il Vaticano.

In Francia i valori repubblicani e laici erano, invece, condivisi  anche da gran parte della destra conservatrice.

Malgrado i suoi limiti la sinistra è stata capace di rappresentare nel governo locale un’alternativa di governo, con il suo sindacato la CGIL un soggetto affidabile della contrattazione e con il movimento cooperativo un soggetto economico solidale, in altre parole di essere su questi terreni, amministrativo, sindacale e cooperativo come la sinistra socialista socialdemocratica e laburista nel resto d’Europa, senza ammetterlo e senza dar seguito ed un processo di revisione ideologica, neppure sotto la spinta di avvenimenti quali i fatti ungheresi del 1956, la primavera di Praga del 1968, la nascita di Solidarnosc e il golpe polacco del 1981.

Soltanto il crollo del muro di Berlino del 1989 e la dissoluzione dell’URSS nel 1991 convinsero una parte, ma neppure tutta, della sinistra ad arrendersi all’evidenza del fallimento di un’utopia, ma come stato di necessità, da superare con il minimo sforzo necessario: un cambiamento di nome ed una forte rimozione del passato.

L’Italia è (o lo era? ) un paese europeo, cioè parte di un continente in via di integrazione dalla C.E.C.A. alla Comunità Economica Europea, alle Comunità Europee fino all’Unione Europea eppure lo scenario europeo non è mai stato quello principale dell’interesse internazionale della sinistra italiana nel suo complesso.

Basta paragonare il tempo e le energie dedicate a Cuba, al Vietnam,  all’Africa Australe o l’infatuazione maoista al sostegno delle opposizioni  spagnole,  portoghesi e greche, per non parlare della dissidenza nell’Europa Orientale.

In questo panorama due eccezioni, sia pure per motivi opposti: la riflessione sui fatti cileni del 1973 e l’entusiasmo per l’abbattimento del regime salazarista portoghese ad opera di un gruppo di militari rivoluzionari nel 1974

Nel primo caso per trarne la conseguenza che nella parte occidentale del mondo non bastava conquistare la maggioranza dell’elettorato, quindi  prudenza.

Nel secondo che, invece, era possibile una via  rivoluzionaria con un partito comunista non egemone, la forza era dei militanti, ma almeno protagonista.

La sinistra italiana, nel suo complesso, si è separata dall’Europa, compresa quella già appartenente al campo sovietico. Nell’Europa Centrale e Orientale dissolta l’URSS, la sinistra si è ristrutturata secondo il modello europeo, cioè con un  partito socialista/socialdemocratico dominante, anche quando i suoi quadri erano in prevalenza provenienti dall’antico partito guida di ispirazione comunista, quale che fosse il suo nome (POSU in Ungheria o POUP in Polonia o SED in DDR).

La sinistra italiana dopo i rovesci del 2008 e del 2009 ed in attesa dei risultati delle regionali del 2010 è la più debole d’Europa sia in termini assoluti che relativi. Un segno della sua debolezza è rappresentato dal fatto, che non è stata capace di capitalizzare le perdite del PD a differenza del Partito Socialista in Olanda o della Linke in Germania, che hanno raccolto, sia pure  parzialmente le perdite  rispettivamente del PdvA (Partito del Lavoro) e della SPD.

Nelle Europee c’è stato un recupero del 50%, se calcoliamo la somma dei voti di Sinistra Arcobaleno e di PS del 2008, ma si tratta pur sempre di poco  più di un 6% (calcolato su un minor numero di elettori) complessivo e diviso ed ulteriormente frammentato,  se pensiamo alle vicende di Sinistra e Libertà, che ha perso per strada la maggioranza dei Verdi e dei socialisti del PSI  e che con il nuovo nome di Sinistra Ecologia  e Libertà deve scommettere tutto sulla popolarità e telegenia del suo leader Vendola a prescindere da una capacità di elaborazione programmatica innovativa, di insediamento territoriale e di radicamento sociale.

Nel panorama politico italiano un modello si è ormai affermato, quello di lista con un leader nel logo dopo Berlusconi, Bonino e Pannella ( qui sono due come Dolce e Gabbana), Di Pietro e Sgarbi, ora abbiamo un Vendola, senza dubbio l’unico spendibile dopo il successo nelle primarie pugliesi. Soltanto grazie  alle sconfitte elettorali ed organizzative del PD abbiamo evitato che nascesse un partito con abbinato il nome di Veltroni.

La mancanza di una sinistra, come in Europa, cioè socialista, autonoma, democratica e laica se spiegasse da sola la debolezza della sinistra italiana, darebbe indicazioni della strada da percorrere per ricostruirla o almeno per provarci, ma ogni processo deve avere un protagonista, ancorché minoritario all’inizio, che funga da catalizzatore o punto di coagulo.

Se si tratta di condurre la sinistra nell’alveo del socialismo europeo, sia pure in modo critico e originale, (il PSE non è un partito europeo, ma una confederazione di partiti socialisti nazionali) il compito avrebbe dovuto essere di un partito socialista. Un partito socialista con questa funzione e con questa ambizione non c’é, neppure potenzialmente, dopo il fallimento della Costituente Socialista ed in mancanza di una chiara collocazione a sinistra del PSI.

Le scadenze elettorali hanno finora imposto scelte tecniche e tattiche, ma che, proprio per questo, si sono rivelate finora di scarsa capacità attrattiva  come la Federazione della Sinistra e persino Sinistra e Libertà, che pure rappresentava una novità, quando non un fallimento come Sinistra Arcobaleno.

La sinistra italiana ed in senso più largo il centrosinistra sono impegolati nella crisi più vasta del sistema politico italiano, che è percepito come inefficiente  e a protezione della “casta”

Né può essere diversamente, quando, anche in queste regionali, alleanze si sono fatte o rotte in base alla pura convenienza elettorale dei candidati, nobile criterio, se il problema principale della sinistra fosse quello di salvare la propria  nomenklatura.

E’ giocoforza constatare che a sinistra siamo pieni di buoni sentimenti, ma non sono sufficienti perché  <> (Beniamino Placido, Quando sognavamo GIUSTIZIA e LIBERTA’, La Repubblica, 8 febbraio 2010) e perché <> (Saint-Just).

Non si costruisce una società giusta con i buoni sentimenti – come ci ricorda ancora Beniamino Placido – ma con le articolazioni istituzionali. Men che meno si può costruire una società giusta se persino i dirigenti della sinistra hanno una scarsa  conoscenza dei meccanismi istituzionali e non posseggono la virtù dei pochi.

Nel 2001 si sono perse le elezioni per salvare una decina di personaggi con le liste civetta alla Camera, consentendo a Berlusconi di vincere anche al Senato. Nel 2006,  invece, dimenticando che siamo un sistema bicamerale perfetto, l’Unione ha infarcito il Senato di oppositori interni, rendendo ancor più precaria la risicata maggioranza di Prodi.

Due elaborazioni sono necessarie per ricostituire una sinistra:

1)      un progetto istituzionale che rompa con il bipolarismo ed il mito dell’elezione diretta dei vertici degli esecutivi e la mera difesa della Costituzione dopo averla alterata con le leggi elettorali e la riforma del titolo V della Parte II;

2)      un progetto di sviluppo economico e di  uscita dalla crisi con scelte nette e radicali per eliminare le crescenti diseguaglianze, ma senza  nostalgia per l’intervento pubblico buono e salvifico di per sé, a prescindere da come, da chi e a favore di chi sia fatto.

Occorre abbandonare il sinistrismo per ritrovare il socialismo, se non come progetto di società, come sistema di valori guida: uguaglianza, libertà, giustizia, rispetto della dignità umana, solidarietà nazionale ed internazionale.

Nella nuova Sinistra, per un socialismo nel XXI secolo, dobbiamo portare le nostre radici, cioè il nostro passato con tutte le sue luci ed ombre, ma senza nostalgie recriminazioni, rimozioni o identità autoreferenziali e senza aver timore delle contraddizioni, se siamo interessati a progettare insieme il futuro.

I morti, tanto per fare un esempio, non a caso , Craxi  e Berlinguer, non dovrebbero afferrare i vivi. Se proprio dobbiamo costruirci un altarino comune dovremmo metterci, rimanendo in Italia, piuttosto Nenni e Gramsci, Di Vittorio e Buozzi, Trentin e Colorni, Lama e Santi, Terracini e Giolitti con Riccardo Lombardi e Altiero Spinelli: ciascuno si faccia poi il suo come culto privato. [Nel mio metterei Gaetano Arfé, Francesco De Martino, Ignazio Silone, Giuseppe Saragat, Giorgio Amendola, Vittorio Foa e Lelio Basso. I “santini” provenienti dal PCI sono tuttora felicemente in vita].

La divisione storica del XX secolo tra socialismo e comunismo deve essere superata: le ragioni teoriche ed ideologiche sono venute meno e nel frattempo si sono incorporati nella sinistra l’ambientalismo, il femminismo, la difesa radicale dei diritti umani e delle libertà fondamentali, l’umanesimo laico e l’ispirazione religiosa della compassione e della solidarietà.

Abbiamo il dovere di riprendere e sviluppare il progetto originario di Sinistra e Libertà, che non solo è “possibile”, anzi è necessario. Bisogna agire a tutto campo senza preclusioni a priori, né nei confronti del PD, che dei soggetti componenti la Federazione della Sinistra, di tutti i settori di democrazia laica e men che meno dei socialisti, unico collegamento con una dimensione  europea e socialista della sinistra.


Felice Carlo Besostri



 

 
 
 
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