CUBA ASPETTAMI.....

Post n°102 pubblicato il 23 Settembre 2008 da gorgonietta75

Voglio partire per Cuba e realizzare un altro mio sogno...lo aspetto da tempo

Cuba aspettami

forse inizio 2009

chissa'.....

 
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Post N° 101

Post n°101 pubblicato il 23 Settembre 2008 da gorgonietta75
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Il grido d'accusa dello scrittore dopo la strage di Castel Volturno
"Davvero pensate che nulla di ciò che accade dipenda dal vostro impegno?" Saviano, lettera a Gomorra
tra killer e omertà
di ROBERTO SAVIANO

Saviano, lettera a Gomorra tra killer e omertà

Un segnale stradale a Casal di Principe

I RESPONSABILI hanno dei nomi. Hanno dei volti. Hanno persino un'anima. O forse no. Giuseppe Setola, Alessandro Cirillo, Oreste Spagnuolo, Giovanni Letizia, Emilio di Caterino, Pietro Vargas stanno portando avanti una strategia militare violentissima. Sono autorizzati dal boss latitante Michele Zagaria e si nascondono intorno a Lago Patria. Tra di loro si sentiranno combattenti solitari, guerrieri che cercano di farla pagare a tutti, ultimi vendicatori di una delle più sventurate e feroci terre d'Europa. Se la racconteranno così.

Ma Giuseppe Setola, Alessandro Cirillo, Oreste Spagnuolo, Giovanni Letizia, Emilio di Caterino e Pietro Vargas sono vigliacchi, in realtà: assassini senza alcun tipo di abilità militare. Per ammazzare svuotano caricatori all'impazzata, per caricarsi si strafanno di cocaina e si gonfiano di Fernet Branca e vodka. Sparano a persone disarmate, colte all'improvviso o prese alle spalle. Non si sono mai confrontati con altri uomini armati. Dinnanzi a questi tremerebbero, e invece si sentono forti e sicuri uccidendo inermi, spesso anziani o ragazzi giovani. Ingannandoli e prendendoli alle spalle.

E io mi chiedo: nella vostra terra, nella nostra terra sono ormai mesi e mesi che un manipolo di killer si aggira indisturbato massacrando soprattutto persone innocenti. Cinque, sei persone, sempre le stesse. Com'è possibile? Mi chiedo: ma questa terra come si vede, come si rappresenta a se stessa, come si immagina? Come ve la immaginate voi la vostra terra, il vostro paese? Come vi sentite quando andate al lavoro, passeggiate, fate l'amore? Vi ponete il problema, o vi basta dire, "così è sempre stato e sempre sarà così"?

Davvero vi basta credere che nulla di ciò che accade dipende dal vostro impegno o dalla vostra indignazione? Che in fondo tutti hanno di che campare e quindi tanto vale vivere la propria vita quotidiana e nient'altro. Vi bastano queste risposte per farvi andare avanti? Vi basta dire "non faccio niente di male, sono una persona onesta" per farvi sentire innocenti? Lasciarvi passare le notizie sulla pelle e sull'anima. Tanto è sempre stato così, o no? O delegare ad associazioni, chiesa, militanti, giornalisti e altri il compito di denunciare vi rende tranquilli? Di una tranquillità che vi fa andare a letto magari non felici ma in pace? Vi basta veramente?

Questo gruppo di fuoco ha ucciso soprattutto innocenti. In qualsiasi altro paese la libertà d'azione di un simile branco di assassini avrebbe generato dibattiti, scontri politici, riflessioni. Invece qui si tratta solo di crimini connaturati a un territorio considerato una delle province del buco del culo d'Italia. E quindi gli inquirenti, i carabinieri e poliziotti, i quattro cronisti che seguono le vicende, restano soli. Neanche chi nel resto del paese legge un giornale, sa che questi killer usano sempre la stessa strategia: si fingono poliziotti. Hanno lampeggiante e paletta, dicono di essere della Dia o di dover fare un controllo di documenti. Ricorrono a un trucco da due soldi per ammazzare con più facilità. E vivono come bestie: tra masserie di bufale, case di periferia, garage.

Hanno ucciso sedici persone. La mattanza comincia il 2 maggio verso le sei del mattino in una masseria di bufale a Cancello Arnone. Ammazzano il padre del pentito Domenico Bidognetti, cugino ed ex fedelissimo di Cicciotto e' mezzanotte.

Umberto Bidognetti aveva 69 anni e in genere era accompagnato pure dal figlio di Mimì, che giusto quella mattina non era riuscito a tirarsi su dal letto per aiutare il nonno. Il 15 maggio uccidono a Baia Verde, frazione di Castel Volturno, il sessantacinquenne Domenico Noviello, titolare di una scuola guida. Domenico Noviello si era opposto al racket otto anni prima. Era stato sotto scorta, ma poi il ciclo di protezione era finito. Non sapeva di essere nel mirino, non se l'aspettava. Gli scaricano addosso 20 colpi mentre con la sua Panda sta andando a fare una sosta al bar prima di aprire l'autoscuola. La sua esecuzione era anche un messaggio alla Polizia che stava per celebrare la sua festa proprio a Casal di Principe, tre giorni dopo, e ancor più una chiara dichiarazione: può passare quasi un decennio ma i Casalesi non dimenticano.

Prima ancora, il 13 maggio, distruggono con un incendio la fabbrica di materassi di Pietro Russo a Santa Maria Capua Vetere. È l'unico dei loro bersagli ad avere una scorta. Perché è stato l'unico che, con Tano Grasso, tentò di organizzare un fronte contro il racket in terra casalese. Poi, il 30 maggio, a Villaricca colpiscono alla pancia Francesca Carrino, una ragazza, venticinque anni, nipote di Anna Carrino, la ex compagna di Francesco Bidognetti, pentita. Era in casa con la madre e con la nonna, ma era stata lei ad aprire la porta ai killer che si spacciavano per agenti della Dia.

Non passa nemmeno un giorno che a Casal di Principe, mentre dopo pranzo sta per andare al "Roxy bar", uccidono Michele Orsi, imprenditore dei rifiuti vicino al clan che, arrestato l'anno prima, aveva cominciato a collaborare con la magistratura svelando gli intrighi rifiuti-politica-camorra. È un omicidio eccellente che fa clamore, solleva polemiche, fa alzare la voce ai rappresentanti dello Stato. Ma non fa fermare i killer.

L'11 luglio uccidono al Lido "La Fiorente" di Varcaturo Raffaele Granata, 70 anni, gestore dello stabilimento balneare e padre del sindaco di Calvizzano. Anche lui paga per non avere anni prima ceduto alle volontà del clan. Il 4 agosto massacrano a Castel Volturno Ziber Dani e Arthur Kazani che stavano seduti ai tavoli all'aperto del "Bar Kubana" e, probabilmente, il 21 agosto Ramis Doda, venticinque anni, davanti al "Bar Freedom" di San Marcellino. Le vittime sono albanesi che arrotondavano con lo spaccio, ma avevano il permesso di soggiorno e lavoravano nei cantieri come muratori e imbianchini.

Poi il 18 agosto aprono un fuoco indiscriminato contro la villetta di Teddy Egonwman, presidente dei nigeriani in Campania, che si batte da anni contro la prostituzione delle sue connazionali, ferendo gravemente lui, sua moglie Alice e altri tre amici.

Tornano a San Marcellino il 12 settembre per uccidere Antonio Ciardullo ed Ernesto Fabozzi, massacrati mentre stavano facendo manutenzione ai camion della ditta di trasporti di cui il primo era titolare. Anche lui non aveva obbedito, e chi gli era accanto è stato ucciso perché testimone.

Infine, il 18 settembre, trivellano prima Antonio Celiento, titolare di una sala giochi a Baia Verde, e un quarto d'ora dopo aprono un fuoco di 130 proiettili di pistole e kalashnikov contro gli africani riuniti dentro e davanti la sartoria "Ob Ob Exotic Fashion" di Castel Volturno. Muoiono Samuel Kwaku, 26 anni, e Alaj Ababa, del Togo; Cristopher Adams e Alex Geemes, 28 anni, liberiani; Kwame Yulius Francis, 31 anni, e Eric Yeboah, 25, ghanesi, mentre viene ricoverato con ferite gravi Joseph Ayimbora, 34 anni, anche lui del Ghana. Solo uno o due di loro avevano forse a che fare con la droga, gli altri erano lì per caso, lavoravano duro nei cantieri o dove capitava, e pure nella sartoria.

Sedici vittime in meno di sei mesi. Qualsiasi paese democratico con una situazione del genere avrebbe vacillato. Qui da noi, nonostante tutto, neanche se n'è parlato. Neanche si era a conoscenza da Roma in su di questa scia di sangue e di questo terrorismo, che non parla arabo, che non ha stelle a cinque punte, ma comanda e domina senza contrasto.

Ammazzano chiunque si opponga. Ammazzano chiunque capiti sotto tiro, senza riguardi per nessuno. La lista dei morti potrebbe essere più lunga, molto più lunga. E per tutti questi mesi nessuno ha informato l'opinione pubblica che girava questa "paranza di fuoco". Paranza, come le barche che escono a pescare insieme in alto mare. Nessuno ne ha rivelato i nomi sino a quando non hanno fatto strage a Castel Volturno.

Ma sono sempre gli stessi, usano sempre le stesse armi, anche se cercano di modificarle per trarre in inganno la scientifica, segno che ne hanno a disposizione poche. Non entrano in contatto con le famiglie, stanno rigorosamente fra di loro. Ogni tanto qualcuno li intravede nei bar di qualche paesone, dove si fermano per riempirsi d'alcol. E da sei mesi nessuno riesce ad acciuffarli.

Castel Volturno, territorio dove è avvenuta la maggior parte dei delitti, non è un luogo qualsiasi. Non è un quartiere degradato, un ghetto per reietti e sfruttati come se ne possono trovare anche altrove, anche se ormai certe sue zone somigliano più alle hometown dell'Africa che al luogo di turismo balneare per il quale erano state costruite le sue villette. Castel Volturno è il luogo dove i Coppola edificarono la più grande cittadella abusiva del mondo, il celebre Villaggio Coppola.

Ottocentosessantatremila metri quadrati occupati col cemento. Che abusivamente presero il posto di una delle più grandi pinete marittime del Mediterraneo. Abusivo l'ospedale, abusiva la caserma dei carabinieri, abusive le poste. Tutto abusivo. Ci andarono ad abitare le famiglie dei soldati della Nato. Quando se ne andarono, il territorio cadde nell'abbandono più totale e divenne tutto feudo di Francesco Bidognetti e al tempo stesso territorio della mafia nigeriana.

I nigeriani hanno una mafia potente con la quale ai Casalesi conveniva allearsi, il loro paese è diventato uno snodo nel traffico internazionale di cocaina e le organizzazioni nigeriane sono potentissime, capaci di investire soprattutto nei money transfer, i punti attraverso i quali tutti gli immigrati del mondo inviano i soldi a casa. Attraverso questi, i nigeriani controllano soldi e persone. Da Castel Volturno transita la coca africana diretta soprattutto in Inghilterra. Le tasse sul traffico che quindi il clan impone non sono soltanto il pizzo sullo spaccio al minuto, ma accordi di una sorta di joint venture. Ora però i nigeriani sono potenti, potentissimi. Così come lo è la mafia albanese, con la quale i Casalesi sono in affari.

E il clan si sta slabbrando, teme di non essere più riconosciuto come chi comanda per primo e per ultimo sul territorio. Ed ecco che nei vuoti si insinuano gli uomini della paranza. Uccidono dei pesci piccoli albanesi come azione dimostrativa, fanno strage di africani - e fra questi nessuno viene dalla Nigeria - colpiscono gli ultimi anelli della catena di gerarchie etniche e criminali. Muoiono ragazzi onesti, ma come sempre, in questa terra, per morire non dev'esserci una ragione. E basta poco per essere diffamati.

I ragazzi africani uccisi erano immediatamente tutti "trafficanti" come furono "camorristi" Giuseppe Rovescio e Vincenzo Natale, ammazzati a Villa Literno il 23 settembre 2003 perché erano fermi a prendere una birra vicino a Francesco Galoppo, affiliato del clan Bidognetti. Anche loro furono subito battezzati come criminali.

Non è la prima volta che si compie da quelle parti una mattanza di immigrati. Nel 1990 Augusto La Torre, boss di Mondragone, partì con i suoi fedelissimi alla volta di un bar che, pur gestito da italiani, era diventato un punto di incontro per lo spaccio degli africani. Tutto avveniva sempre lungo la statale Domitiana, a Pescopagano, pochi chilometri a nord di Castel Volturno, però già in territorio mondragonese. Uccisero sei persone, fra cui il gestore, e ne ferirono molte altre. Anche quello era stato il culmine di una serie di azioni contro gli stranieri, ma i Casalesi che pure approvavano le intimidazioni non gradirono la strage. La Torre dovette incassare critiche pesanti da parte di Francesco "Sandokan" Schiavone. Ma ora i tempi sono cambiati e permettono di lasciar esercitare una violenza indiscriminata a un gruppo di cocainomani armati.

Chiedo di nuovo alla mia terra che immagine abbia di sé. Lo chiedo anche a tutte quelle associazioni di donne e uomini che in grande silenzio qui lavorano e si impegnano. A quei pochi politici che riescono a rimanere credibili, che resistono alle tentazioni della collusione o della rinuncia a combattere il potere dei clan. A tutti coloro che fanno bene il loro lavoro, a tutti coloro che cercano di vivere onestamente, come in qualsiasi altra parte del mondo. A tutte queste persone. Che sono sempre di più, ma sono sempre più sole.

Come vi immaginate questa terra? Se è vero, come disse Danilo Dolci, che ciascuno cresce solo se è sognato, voi come ve li sognate questi luoghi? Non c'è stata mai così tanta attenzione rivolta alle vostre terre e quel che vi è avvenuto e vi avviene. Eppure non sembra cambiato molto. I due boss che comandano continuano a comandare e ad essere liberi. Antonio Iovine e Michele Zagaria. Dodici anni di latitanza. Anche di loro si sa dove sono. Il primo è a San Cipriano d'Aversa, il secondo a Casapesenna. In un territorio grande come un fazzoletto di terra, possibile che non si riesca a scovarli?

È storia antica quella dei latitanti ricercati in tutto il mondo e poi trovati proprio a casa loro. Ma è storia nuova che ormai ne abbiano parlato più e più volte giornali e tv, che politici di ogni colore abbiano promesso che li faranno arrestare. Ma intanto il tempo passa e nulla accade. E sono lì. Passeggiano, parlano, incontrano persone.

Ho visto che nella mia terra sono comparse scritte contro di me. Saviano merda. Saviano verme. E un'enorme bara con il mio nome. E poi insulti, continue denigrazioni a partire dalla più ricorrente e banale: "Quello s'è fatto i soldi". Col mio lavoro di scrittore adesso riesco a vivere e, per fortuna, pagarmi gli avvocati. E loro? Loro che comandano imperi economici e si fanno costruire ville faraoniche in paesi dove non ci sono nemmeno le strade asfaltate?

Loro che per lo smaltimento di rifiuti tossici sono riusciti in una sola operazione a incassare sino a 500 milioni di euro e hanno imbottito la nostra terra di veleni al punto tale di far lievitare fino al 24% certi tumori, e le malformazioni congenite fino all'84% per cento? Soldi veri che generano, secondo l'Osservatorio epidemiologico campano, una media di 7.172,5 morti per tumore all'anno in Campania. E ad arricchirsi sulle disgrazie di questa terra sarei io con le mie parole, o i carabinieri e i magistrati, i cronisti e tutti gli altri che con libri o film o in ogni altro modo continuano a denunciare? Com'è possibile che si crei un tale capovolgimento di prospettive? Com'è possibile che anche persone oneste si uniscano a questo coro? Pur conoscendo la mia terra, di fronte a tutto questo io rimango incredulo e sgomento e anche ferito al punto che fatico a trovare la mia voce.

Perché il dolore porta ad ammutolire, perché l'ostilità porta a non sapere a chi parlare. E allora a chi devo rivolgermi, che cosa dico? Come faccio a dire alla mia terra di smettere di essere schiacciata tra l'arroganza dei forti e la codardia dei deboli? Oggi qui in questa stanza dove sono, ospite di chi mi protegge, è il mio compleanno. Penso a tutti i compleanni passati così, da quando ho la scorta, un po' nervoso, un po' triste e soprattutto solo.

Penso che non potrò mai più passarne uno normale nella mia terra, che non potrò mai più metterci piede. Rimpiango come un malato senza speranze tutti i compleanni trascurati, snobbati perché è solo una data qualsiasi, e un altro anno ce ne sarà uno uguale. Ormai si è aperta una voragine nel tempo e nello spazio, una ferita che non potrà mai rimarginarsi. E penso pure e soprattutto a chi vive la mia stessa condizione e non ha come me il privilegio di scriverne e parlare a molti.

Penso ad altri amici sotto scorta, Raffaele, Rosaria, Lirio, Tano, penso a Carmelina, la maestra di Mondragone che aveva denunciato il killer di un camorrista e che da allora vive sotto protezione, lontana, sola. Lasciata dal fidanzato che doveva sposare, giudicata dagli amici che si sentono schiacciati dal suo coraggio e dalla loro mediocrità. Perché non c'era stata solidarietà per il suo gesto, anzi, ci sono state critiche e abbandono. Lei ha solo seguito un richiamo della sua coscienza e ha dovuto barcamenarsi con il magro stipendio che le dà lo stato.

Cos'ha fatto Carmelina, cos'hanno fatto altri come lei per avere la vita distrutta e sradicata, mentre i boss latitanti continuano a poter vivere protetti e rispettati nelle loro terre? E chiedo alla mia terra: che cosa ci rimane? Ditemelo. Galleggiare? Far finta di niente? Calpestare scale di ospedali lavate da cooperative di pulizie loro, ricevere nei serbatoi la benzina spillata da pompe di benzina loro? Vivere in case costruite da loro, bere il caffè della marca imposta da loro (ogni marca di caffè per essere venduta nei bar deve avere l'autorizzazione dei clan), cucinare nelle loro pentole (il clan Tavoletta gestiva produzione e vendita delle marche più prestigiose di pentole)?

Mangiare il loro pane, la loro mozzarella, i loro ortaggi? Votare i loro politici che riescono, come dichiarano i pentiti, ad arrivare alle più alte cariche nazionali? Lavorare nei loro centri commerciali, costruiti per creare posti di lavoro e sudditanza dovuta al posto di lavoro, ma intanto non c'è perdita, perché gran parte dei negozi sono loro? Siete fieri di vivere nel territorio con i più grandi centri commerciali del mondo e insieme uno dei più alti tassi di povertà? Passare il tempo nei locali gestiti o autorizzati da loro? Sedervi al bar vicino ai loro figli, i figli dei loro avvocati, dei loro colletti bianchi? E trovarli simpatici e innocenti, tutto sommato persone gradevoli, perché loro in fondo sono solo ragazzi, che colpa hanno dei loro padri.

E infatti non si tratta di stabilire colpe, ma di smettere di accettare e di subire sempre, smettere di pensare che almeno c'è ordine, che almeno c'è lavoro, e che basta non grattare, non alzare il velo, continuare ad andare avanti per la propria strada. Che basta fare questo e nella nostra terra si è già nel migliore dei mondi possibili, o magari no, ma nell'unico mondo possibile sicuramente.

Quanto ancora dobbiamo aspettare? Quanto ancora dobbiamo vedere i migliori emigrare e i rassegnati rimanere? Siete davvero sicuri che vada bene così? Che le serate che passate a corteggiarvi, a ridere, a litigare, a maledire il puzzo dei rifiuti bruciati, a scambiarvi quattro chiacchiere, possano bastare? Voi volete una vita semplice, normale, fatta di piccole cose, mentre intorno a voi c'è una guerra vera, mentre chi non subisce e denuncia e parla perde ogni cosa. Come abbiamo fatto a divenire così ciechi? Così asserviti e rassegnati, così piegati? Come è possibile che solo gli ultimi degli ultimi, gli africani di Castel Volturno che subiscono lo sfruttamento e la violenza dei clan italiani e di altri africani, abbiano saputo una volta tirare fuori più rabbia che paura e rassegnazione? Non posso credere che un sud così ricco di talenti e forze possa davvero accontentarsi solo di questo.

La Calabria ha il Pil più basso d'Italia ma "Cosa Nuova", ossia la ?ndrangheta, fattura quanto e più di una intera manovra finanziaria italiana. Alitalia sarà in crisi, ma a Grazzanise, in un territorio marcio di camorra, si sta per costruire il più grande aeroporto italiano, il più vasto del Mediterraneo. Una terra condannata a far circolare enormi capitali senza avere uno straccio di sviluppo vero, e invece ha danaro, profitto, cemento che ha il sapore del saccheggio, non della crescita.

Non posso credere che riescano a resistere soltanto pochi individui eccezionali. Che la denuncia sia ormai solo il compito dei pochi singoli, preti, maestri, medici, i pochi politici onesti e gruppi che interpretano il ruolo della società civile. E il resto? Gli altri se ne stanno buoni e zitti, tramortiti dalla paura? La paura. L'alibi maggiore. Fa sentire tutti a posto perché è in suo nome che si tutelano la famiglia, gli affetti, la propria vita innocente, il proprio sacrosanto diritto a viverla e costruirla.

Ma non avere più paura non sarebbe difficile. Basterebbe agire, ma non da soli. La paura va a braccetto con l'isolamento. Ogni volta che qualcuno si tira indietro crea altra paura, che crea ancora altra paura, in un crescendo esponenziale che immobilizza, erode, lentamente manda in rovina.

"Si può edificare la felicità del mondo sulle spalle di un unico bambino maltrattato?", domanda Ivan Karamazov a suo fratello Aljo?a. Ma voi non volete un mondo perfetto, volete solo una vita tranquilla e semplice, una quotidianità accettabile, il calore di una famiglia. Accontentarvi di questo pensate che vi metta al riparo da ansie e dolori. E forse ci riuscite, riuscite a trovare una dimensione in cui trovate serenità. Ma a che prezzo?

Se i vostri figli dovessero nascere malati o ammalarsi, se un'altra volta dovreste rivolgervi a un politico che in cambio di un voto vi darà un lavoro senza il quale anche i vostri piccoli sogni e progetti finirebbero nel vuoto, quando faticherete ad ottenere un mutuo per la vostra casa mentre i direttori delle stesse banche saranno sempre disponibili con chi comanda, quando vedrete tutto questo forse vi renderete conto che non c'è riparo, che non esiste nessun ambito protetto, e che l'atteggiamento che pensavate realistico e saggiamente disincantato vi ha appestato l'anima di un risentimento e rancore che toglie ogni gusto alla vostra vita.

Perché se tutto ciò è triste la cosa ancora più triste è l'abitudine. Abituarsi che non ci sia null'altro da fare che rassegnarsi, arrangiarsi o andare via. Chiedo alla mia terra se riesce ancora ad immaginare di poter scegliere. Le chiedo se è in grado di compiere almeno quel primo gesto di libertà che sta nel riuscire a pensarsi diversa, pensarsi libera. Non rassegnarsi ad accettare come un destino naturale quel che è invece opera degli uomini.

Quegli uomini possono strapparti alla tua terra e al tuo passato, portarti via la serenità, impedirti di trovare una casa, scriverti insulti sulle pareti del tuo paese, possono fare il deserto intorno a te. Ma non possono estirpare quel che resta una certezza e, per questo, rimane pure una speranza. Che non è giusto, non è per niente naturale, far sottostare un territorio al dominio della violenza e dello sfruttamento senza limiti. E che non deve andare avanti così perché così è sempre stato. Anche perché non è vero che tutto è sempre uguale, ma è sempre peggio.

Perché la devastazione cresce proporzionalmente con i loro affari, perché è irreversibile come la terra una volta per tutte appestata, perché non conosce limiti. Perché là fuori si aggirano sei killer abbrutiti e strafatti, con licenza di uccidere e non mandato, che non si fermano di fronte a nessuno. Perché sono loro l'immagine e somiglianza di ciò che regna oggi su queste terre e di quel che le attende domani, dopodomani, nel futuro. Bisogna trovare la forza di cambiare. Ora, o mai più.

Copyright 2008
by Roberto Saviano
Published by arrangement
of Roberto Santachiara
Literary Agency

(22 settembre 2008)

 
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OFELIA

Post n°99 pubblicato il 27 Marzo 2008 da gorgonietta75
Foto di gorgonietta75

 
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Da La Repubblica : VERGOGNA ITALIANA

Post n°98 pubblicato il 19 Marzo 2008 da gorgonietta75

di GIUSEPPE D'AVANZO/

> C'ERA anche un carabiniere "buono", quel giorno. Molti "prigionieri"
> lo ricordano. "Giovanissimo". Più o meno ventenne, forse "di leva".
> Altri l'hanno in mente con qualche anno in più. In tre giorni di
> "sospensione dei diritti umani", ci sono stati dunque al più due
> uomini compassionevoli a Bolzaneto, tra decine e decine di poliziotti,
> carabinieri, guardie di custodia, poliziotti carcerari, generali,
> ufficiali, vicequestori, medici e infermieri dell'amministrazione
> penitenziaria. Appena poteva, il carabiniere "buono" diceva ai
> "prigionieri" di abbassare le braccia, di levare la faccia dal muro,
> di sedersi. Distribuiva la bottiglia dell'acqua, se ne aveva una a
> disposizione. Il ristoro durava qualche minuto. Il primo ufficiale di
> passaggio sgridava con durezza il carabiniere tontolone e di buon
> cuore, e la tortura dei prigionieri riprendeva.
>
> Tortura. Non è una formula impropria o sovrattono. Due anni di
> processo a Genova hanno documentato - contro i 45 imputati - che cosa
> è accaduto a Bolzaneto, nella caserma Nino Bixio del reparto mobile
> della polizia di Stato nei giorni del G8, tra venerdì 20 e domenica 22
> luglio 2001, a 55 "fermati" e 252 arrestati. Uomini e donne. Vecchi e
> giovani. Ragazzi e ragazze. Un minorenne. Di ogni nazionalità e
> occupazione; spagnoli, greci, francesi, tedeschi, svizzeri, inglesi,
> neozelandesi, tre statunitensi, un lituano.
>
> Studenti soprattutto e disoccupati, impiegati, operai, ma anche
> professionisti di ogni genere (un avvocato, un giornalista...). I
> pubblici ministeri Patrizia Petruzziello e Vittorio Ranieri Miniati
> hanno detto, nella loro requisitoria, che "soltanto un criterio
> prudenziale" impedisce di parlare di tortura. Certo, "alla tortura si
> è andato molto vicini", ma l'accusa si è dovuta dichiarare impotente a
> tradurre in reato e pena le responsabilità che hanno documentato con
> la testimonianza delle 326 persone ascoltate in aula.
> Il reato di tortura in Italia non c'è, non esiste. Il Parlamento non
> ha trovato mai il tempo - né avvertito il dovere in venti anni - di
> adeguare il nostro codice al diritto internazionale dei diritti umani,
> alla Convenzione dell'Onu contro la tortura, ratificata dal nostro
> Paese nel 1988. Esistono soltanto reatucci d'uso corrente da gettare
> in faccia agli imputati: l'abuso di ufficio, l'abuso di autorità
> contro arrestati o detenuti, la violenza privata. Pene dai sei mesi ai
> tre anni che ricadono nell'indulto (nessuna detenzione, quindi) e
> colpe che, tra dieci mesi (gennaio 2009), saranno prescritte (i tempi
> della prescrizione sono determinati con la pena prevista dal reato).
>
> Come una goccia sul vetro, penosamente, le violenze di Bolzaneto
> scivoleranno via con una sostanziale impunità e, quel che è peggio,
> possono non lasciare né un segno visibile nel discorso pubblico né,
> contro i colpevoli, alcun provvedimento delle amministrazioni
> coinvolte in quella vergogna. Il vuoto legislativo consentirà a tutti
> di dimenticare che la tortura non è cosa "degli altri", di quelli che
> pensiamo essere "peggio di noi". Quel "buco" ci permetterà di
> trascurare che la tortura ci può appartenere. Che - per tre giorni -
> ci è già appartenuta.
>
> Nella prima Magna Carta - 1225 - c'era scritto: "Nessun uomo libero
> sarà arrestato, imprigionato, spossessato della sua indipendenza,
> messo fuori legge, esiliato, molestato in qualsiasi modo e noi non
> metteremo mano su di lui se non in virtù di un giudizio dei suoi pari
> e secondo la legge del paese". Nella nostra Costituzione, 1947,
> all'articolo 13 si legge: "La libertà personale è inviolabile. È
> punita ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte
> a restrizione di libertà"
>
> La caserma di Bolzaneto oggi non è più quella di ieri. Con un'accorta
> gestione, si sono voluti cancellare i "luoghi della vergogna",
> modificarne anche gli spazi, aprire le porte alla città, alle autorità
> cittadine, civili, militari, religiose coltivando l'idea di farne un
> "Centro della Memoria" a ricordo delle vittime dei soprusi. C'è un
> campo da gioco nel cortile dove, disposti su due file, i "carcerieri"
> accompagnavano l'arrivo dei detenuti con sputi, insulti, ceffoni,
> calci, filastrocche come "Chi è lo Stato? La polizia! Chi è il capo?
> Mussolini!", cori di "Benvenuti ad Auschwitz".
>
> Dov'era il famigerato "ufficio matricole" c'è ora una cappella
> inaugurata dal cardinale Tarcisio Bertone e nei corridoi, dove nel
> 2001 risuonavano grida come "Morte agli ebrei!", ha trovato posto una
> biblioteca intitolata a Giovanni Palatucci, ultimo questore di Fiume
> italiana, ucciso nel campo di concentramento di Dachau per aver
> salvato la vita a 5000 ebrei.
>
> Quel giorno, era venerdì 20 luglio, l'ambiente è diverso e il clima di
> piombo. Dopo il cancello e l'ampio cortile, i prigionieri sono
> sospinti verso il corpo di fabbrica che ospita la palestra. Ci sono
> tre o quattro scalini e un corridoio centrale lungo cinquanta metri. È
> qui il garage Olimpo. Sul corridoio si aprono tre stanze, una sulla
> sinistra, due sulla destra, un solo bagno. Si è identificati e
> fotografati. Si è costretti a firmare un prestampato che attesta di
> non aver voluto chiamare la famiglia, avvertire un avvocato. O il
> consolato, se stranieri (agli stranieri non si offre la traduzione del
> testo).
>
> A una donna, che protesta e non vuole firmare, è mostrata la foto dei
> figli. Le viene detto: "Allora, non li vuoi vedere tanto presto...". A
> un'altra che invoca i suoi diritti, le tagliano ciocche di capelli.
> Anche H. T. chiede l'avvocato. Minacciano di "tagliarle la gola". M.
> D. si ritrova di fronte un agente della sua città. Le parla in
> dialetto. Le chiede dove abita. Le dice: "Vengo a trovarti, sai". Poi,
> si è accompagnati in infermeria dove i medici devono accertare se i
> detenuti hanno o meno bisogno di cure ospedaliere. In un angolo si è,
> prima, perquisiti - gli oggetti strappati via a forza, gettati in
> terra - e denudati dopo. Nudi, si è costretti a fare delle flessioni
> "per accertare la presenza di oggetti nelle cavità".
>
> Nessuno sa ancora dire quanti sono stati i "prigionieri" di quei tre
> giorni e i numeri che si raccolgono - 55 "fermati", 252 "arrestati" -
> sono approssimativi. Meno imprecisi i "tempi di permanenza nella
> struttura". Dodici ore in media per chi ha avuto la "fortuna" di
> entrarvi il venerdì. Sabato la prigionia "media" - prima del
> trasferimento nelle carceri di Alessandria, Pavia, Vercelli, Voghera -
> è durata venti ore. Diventate trentatré la domenica quando nella notte
> tra 1.30 e le 3.00 arrivano quelli della Diaz, contrassegnati
> all'ingresso nel cortile con un segno di pennarello rosso (o verde)
> sulla guancia.
>
> È saltato fuori durante il processo che la polizia penitenziaria ha un
> gergo per definire le "posizioni vessatorie di stazionamento o di
> attesa". La "posizione del cigno" - in piedi, gambe divaricate,
> braccia alzate, faccia al muro - è inflitta nel cortile per ore, nel
> caldo di quei giorni, nell'attesa di poter entrare "alla matricola".
> Superati gli scalini dell'atrio, bisogna ancora attendere nelle celle
> e nella palestra con varianti della "posizione" peggiori, se
> possibile. In ginocchio contro il muro con i polsi ammanettati con
> laccetti dietro la schiena o nella "posizione della ballerina", in
> punta di piedi.
>
> Nelle celle, tutti sono picchiati. Manganellate ai fianchi. Schiaffi
> alla testa. La testa spinta contro il muro. Tutti sono insultati: alle
> donne gridato "entro stasera vi scoperemo tutte"; agli uomini, "sei un
> gay o un comunista?" Altri sono stati costretti a latrare come cani o
> ragliare come asini; a urlare: "viva il duce", "viva la polizia
> penitenziaria". C'è chi viene picchiato con stracci bagnati; chi sui
> genitali con un salame, mentre steso sulla schiena è costretto a
> tenere le gambe aperte e in alto: G. ne ricaverà un "trauma
> testicolare". C'è chi subisce lo spruzzo del gas
> urticante-asfissiante. Chi patisce lo spappolamento della milza. A.
>
> D. arriva nello stanzone con una frattura al piede. Non riesce a stare
> nella "posizione della ballerina". Lo picchiano con manganello. Gli
> fratturano le costole. Sviene. Quando ritorna in sé e si lamenta, lo
> minacciano "di rompergli anche l'altro piede". Poi, gli innaffiano il
> viso con gas urticante mentre gli gridano. "Comunista di merda". C'è
> chi ricorda un ragazzo poliomielitico che implora gli aguzzini di "non
> picchiarlo sulla gamba buona". I. M. T. lo arrestano alla Diaz. Gli
> viene messo in testa un berrettino con una falce e un pene al posto
> del martello. Ogni volta che prova a toglierselo, lo picchiano. B. B.
> è in piedi.
>
> Gli sbattono la testa contro la grata della finestra. Lo denudano. Gli
> ordinano di fare dieci flessioni e intanto, mentre lo picchiano
> ancora, un carabiniere gli grida: "Ti piace il manganello, vuoi
> provarne uno?". S. D. lo percuotono "con strizzate ai testicoli e
> colpi ai piedi". A. F. viene schiacciata contro un muro. Le gridano:
> "Troia, devi fare pompini a tutti", "Ora vi portiamo nei furgoni e vi
> stupriamo tutte". S. P. viene condotto in un'altra stanza, deserta. Lo
> costringono a denudarsi. Lo mettono in posizione fetale e, da questa
> posizione, lo obbligano a fare una trentina di salti mentre due agenti
> della polizia penitenziaria lo schiaffeggiano. J. H. viene picchiato e
> insultato con sgambetti e sputi nel corridoio. Alla perquisizione, è
> costretto a spogliarsi nudo e "a sollevare il pene mostrandolo agli
> agenti seduti alla scrivania". J. S., lo ustionano con un accendino.
>
> Ogni trasferimento ha la sua "posizione vessatoria di transito", con
> la testa schiacciata verso il basso, in alcuni casi con la pressione
> degli agenti sulla testa, o camminando curvi con le mani tese dietro
> la schiena. Il passaggio nel corridoio è un supplizio, una forca
> caudina. C'è un doppia fila di divise grigio-verdi e blu. Si viene
> percossi, minacciati.
>
> In infermeria non va meglio. È in infermeria che avvengono le doppie
> perquisizioni, una della polizia di Stato, l'altra della polizia
> penitenziaria. I detenuti sono spogliati. Le donne sono costrette a
> restare a lungo nude dinanzi a cinque, sei agenti della polizia
> penitenziaria. Dinanzi a loro, sghignazzanti, si svolgono tutte le
> operazioni. Umilianti. Ricorda il pubblico ministero: "I piercing
> venivano rimossi in maniera brutale. Una ragazza è stata costretta a
> rimuovere il suo piercing vaginale con le mestruazioni dinanzi a
> quattro, cinque persone". Durante la visita si sprecano le battute
> offensive, le risate, gli scherni. P.
>
> B., operaio di Brescia, lo minacciano di sodomizzazione. Durante la
> perquisizione gli trovano un preservativo. Gli dicono: "E che te ne
> fai, tanto i comunisti sono tutti froci". Poi un'agente donna gli si
> avvicina e gli dice: "È carino però, me lo farei". Le donne, in
> infermeria, sono costrette a restare nude per un tempo superiore al
> necessario e obbligate a girare su se stesse per tre o quattro volte.
> Il peggio avviene nell'unico bagno con cesso alla turca, trasformato
> in sala di tortura e terrore. La porta del cubicolo è aperta e i
> prigionieri devono sbrigare i bisogni dinanzi all'accompagnatore. Che
> sono spesso più d'uno e ne approfittano per "divertirsi" un po'.
>
> Umiliano i malcapitati, le malcapitate. Alcune donne hanno bisogno di
> assorbenti. Per tutta risposta viene lanciata della carta da giornale
> appallottolata. M., una donna avanti con gli anni, strappa una
> maglietta, "arrangiandosi così". A. K. ha una mascella rotta.
> L'accompagnano in bagno. Mentre è accovacciata, la spingono in terra.
> E. P. viene percossa nel breve tragitto nel corridoio, dalla cella al
> bagno, dopo che le hanno chiesto "se è incinta". Nel bagno, la
> insultano ("troia", "puttana"), le schiacciano la testa nel cesso, le
> dicono: "Che bel culo che hai", "Ti piace il manganello".
>
> Chi è nello stanzone osserva il ritorno di chi è stato in bagno. Tutti
> piangono, alcuni hanno ferite che prima non avevano. Molti rinunciano
> allora a chiedere di poter raggiungere il cesso. Se la fanno sotto,
> lì, nelle celle, nella palestra. Saranno però picchiati in infermeria
> perché "puzzano" dinanzi a medici che non muovono un'obiezione. Anche
> il medico che dirige le operazioni il venerdì è stato "strattonato e
> spinto".
>
> Il giorno dopo, per farsi riconoscere, arriva con il pantalone della
> mimetica, la maglietta della polizia penitenziaria, la pistola nella
> cintura, gli anfibi ai piedi, guanti di pelle nera con cui farà poi il
> suo lavoro liquidando i prigionieri visitati con "questo è pronto per
> la gabbia". Nel suo lavoro, come gli altri, non indosserà mai il
> camice bianco. È il medico che organizza una personale collezione di
> "trofei" con gli oggetti strappati ai "prigionieri": monili, anelli,
> orecchini, "indumenti particolari". È il medico che deve curare L. K.
>
> A L. K. hanno spruzzato sul viso del gas urticante. Vomita sangue.
> Sviene. Rinviene sul lettino con la maschera ad ossigeno. Stanno
> preparando un'iniezione. Chiede: "Che cos'è?". Il medico risponde:
> "Non ti fidi di me? E allora vai a morire in cella!". G. A. si stava
> facendo medicare al San Martino le ferite riportate in via Tolemaide
> quando lo trasferiscono a Bolzaneto. All'arrivo, lo picchiano contro
> un muretto. Gli agenti sono adrenalinici. Dicono che c'è un
> carabiniere morto. Un poliziotto gli prende allora la mano. Ne
> divarica le dita con due mani. Tira. Tira dai due lati. Gli spacca la
> mano in due "fino all'osso". G. A. sviene. Rinviene in infermeria. Un
> medico gli ricuce la mano senza anestesia. G. A. ha molto dolore.
> Chiede "qualcosa". Gli danno uno straccio da mordere. Il medico gli
> dice di non urlare.
>
> Per i pubblici ministeri, "i medici erano consapevoli di quanto stava
> accadendo, erano in grado di valutare la gravità dei fatti e hanno
> omesso di intervenire pur potendolo fare, hanno permesso che quel
> trattamento inumano e degradante continuasse in infermeria".
>
> Non c'è ancora un esito per questo processo (arriverà alla vigilia
> dell'estate). La sentenza definirà le responsabilità personali e le
> pene per chi sarà condannato. I fatti ricostruiti dal dibattimento,
> però, non sono più controversi. Sono accertati, documentati, provati.
> E raccontano che, per tre giorni, la nostra democrazia ha superato
> quella sempre sottile ma indistruttibile linea di confine che protegge
> la dignità della persona e i suoi diritti. È un'osservazione che già
> dovrebbe inquietare se non fosse che - ha ragione Marco Revelli a
> stupirsene - l'indifferenza dell'opinione pubblica, l'apatia del ceto
> politico, la noncuranza delle amministrazioni pubbliche che si sono
> macchiate di quei crimini appaiono, se possibile, ancora più
> minacciose delle torture di Bolzaneto.
>
> Possono davvero dimenticare - le istituzioni dello Stato, chi le
> governa, chi ne è governato - che per settantadue ore, in una caserma
> diventata lager, il corpo e la "dimensione dell'umano" di 307 uomini e
> donne sono stati sequestrati, umiliati, violentati? Possiamo davvero
> far finta di niente e tirare avanti senza un fiato, come se i nostri
> vizi non fossero ciclici e non si ripetessero sempre "con lo stesso
> cinismo, la medesima indifferenza per l'etica, con l'identica allergia
> alla coerenza"?


 
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