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Ultimo boccone

Post n°30 pubblicato il 09 Aprile 2007 da sonsciopaa
Foto di sonsciopaa

Scuro è tutto quello che mi sta di fronte, fuori dal mio albergo silenzioso, esco sul marciapiede e conto i passi che mi dividono dalla piazza e sono tanti ma basta dividerli per tre e diventano pochi, e non mi stanco mai perché tre sono i sorsi di gin che mi rimangono e voglio berli nello spazio aperto e nelle ombre di piazza Vittorio, non qui tra questi palazzi nella via col nome del principe, voglio Vittorio, voglio bere con Vittorio che quasi mi ci sento amico e fratello e figliol prodigo, perché torno da lui, da lei, dalla piazza.

Piazza Vittorio è un pretesto alla felicità, ma questo non lo sapevo ancora quella notte, e ormai potevo vederne i contorni, io e le mie gambe tre avevamo raggiunto e girato l’angolo e volevo subito ripararmi sotto i portici sbilenchi, come diceva il poeta, o squilibrati, ora non ricordo e certamente nessuno di voi ricorda il poeta; i portici di Piazza Vittorio dove all’improvviso non ti sembra Roma ma ti sembra Torino, ti viene in mente Bologna, ti immagini altre piazze ma vorresti essere lì dove stai; i portici di piazza Vittorio dove l’eco di un bastone che saltella è il rumore d’una scarica di mitra che giustizia la solitudine, i portici di Piazza Vittorio dove lo sporco che è amico della morte ti ricorda che siamo sotto questo cielo e che il cielo sopra di me non si vede e che non esiste legge morale. Sotto i portici di piazza Vittorio quella notte non c’era nessuno, ma tanti mi hanno detto e riferito, perché io non posso averlo visto, che di giorno è tutto un formicaio sotto i portici, la gente ha buste piene di colore azzurro piene di mercato, del vicino mercato, gruppi di uomini da ogni luogo del pianeta parlano della vita nel loro idioma caciarone di parole impronunciabili, i fazzoletti delle donne ammazzano il grigio dell’intonaco eternamente macchiato, e vecchie cartomanti leggono futuri ancora da decidere e la sedia di fronte ai loro tavolini non è mai vuota e alle vetrine sudano polli grassissimi sugli spiedi, e gli odori di piscio e gli angoli di sporco e di nero e di città si mischiano all’odore di cibo speziato e pane cotto sottile e caffè alla cannella; e io tutto questo non l’ho mai visto ma è come se l’avessi visto perché piazza Vittorio è un pretesto alla felicità e trovi sempre qualcuno che ci ambienti una storia, che la racconti, che ci spenda parole.

Parole non se ne sentivano quella notte, non c’era spazio, solo la sventagliata e gli spari del mio bastone a punta che cessano solo quando mi fermo per decapitare il rapace e estrarre la boccetta e bere un sorso di gin caldo e trasparente in questa notte senza cielo, sotto i portici, in questa notte calda e trasparente. Gli angoli di una piazza sono tutto quello che serve perché una piazza esista, e gli angoli di Piazza Vittorio sono la luce e i colori dei fiorai, sono l’inutilità dei fiorai aperti tutta la notte, come se qualcuno regalasse ancora fiori, e perlopiù la notte, ma in fondo sono un promemoria al sentimento, al sorriso di una donna, ai baci sulla bocca, alle poesie di Baudelaire, dove la città è cattiva ma ci incontri anche cigni in difficoltà. Come quando si interrompe la musica, come l’ultima passeggiata sulla tastiera del bandoleon di un tanghero assonnato, proprio così è il silenzio adesso, senza il mio bastone e senza fucili, tutto spento o in attesa, e quando si aspetta può esserci anche la guerra o il temporale, ma non si sente nulla, non si muove nulla.

Nulla mi aspetto da questa notte, ma c’è attesa sotto i portici di piazza Vittorio, aspettano i palazzi e i lampioni e i binari del tram dritti come spaghetti; c’è attesa da tagliare a fette come si taglia a fette un albero perché bruci meglio, e anche gli alberi della piazza aspettano, e la discesa che porta a Monti e ai Fori imperiali aspetta, il profilo austero di Santa Maria Maggiore aspetta, le storie dell’ingegnere su via Merulana aspettano, la gloria delle rovine abbandonate e sporche di Porta Maggiore aspettano e, se togliete me, tutto il resto aspetta, tranne me tutti i contorni, tutti i perimetri possibili di questa notte aspettano.

Aspettano le pietre soprattutto, e io non aspetto nulla, non aspetto nulla ma sono pietra anch’io, come loro mi dispongo all’ascolto e alla vista nel silenzio e nell’immobilità a cui il caldo ci costringe, e sono calde anche le pietre, soprattutto le pietre che fanno girotondo al giardino di piazza Vittorio, sotto la ringhiera, vicino alla fontana; ma nemmeno l’acqua che scorre fa rumore, nemmeno lei ha tempo per raccontare.

Per raccontare ho il tempo io però, che non aspetto nessuno ma sono disposto alla vista e i miei occhi trasparenti come il gin e a causa del gin vedono bene, e vedono che la fontana non è sola, che qualcosa si muove vicino a lei, che forse c’è vita questa notte, qui davanti a me, accanto alla fontana, vicino al rumore dell’acqua che scivola sottoterra, giù nel fondo, dove non so.

Non so se è vita o se è il gin, ma c’è una figura che si muove vicino alla fontana, e quella figura è una figura di donna, l’ombra di una donna e io non so cosa ci faccio lì e sono sicuro di non aspettarmi nulla da questa notte, ma sono le pietre ad aspettare, sono le pietre la figura dell’attesa e in fondo l’attesa è sempre attesa del miracolo dell’apparizione. Aspettano altro queste pietre, aspettano quello che a me, questa notte, è concesso di vedere, una donna con i capelli lunghi e neri come per Campana, come per Gozzano hanno le donne, i capelli lunghi e neri come una cascata di lava fredda che scendono e si sollevano perché la mia donna danza, danza a piedi nudi sulle pietre calde e danza come danza un filo di fumo che sale dal comignolo di una casa nel disegno di un bambino. Ora lo so cosa aspettano le pietre di Piazza Vittorio, perché piazza Vittorio è un pretesto alla felicità e questo lo sanno tutti quelli che l’hanno camminata di notte, e addio alla grammatica, le piazze si camminano perché camminare è verbo transitivo; e le pietre di piazza Vittorio è risaputo che non camminino, ma sanno aspettare e sanno bene cosa aspettare, e c’è una donna che danza su di loro, a piedi nudi e capelli sciolti, e mi si piegano le gambe, le due che si muovono, e devo appoggiarmi alla terza, quella rigida e appuntita, al mio bastone con la testa da rapace, devo appoggiarmi al gin che mi corre dentro come corre l’acqua al sottoterra, devo appoggiarmi a loro per non scappare subito, per restare a guardare, per imparare anche io e finalmente e per certo che Piazza Vittorio è un pretesto alla felicità,e che la felicità si incontra senza attenderla e si incontra una volta sola e non si può raggiungere.

Raggiungere e sfiorare la vorrei, la donna dai capelli neri di lava fredda, ma non posso muovermi e per un istante esistono solo i suoi piedi che modellano le pietre, che saziano la loro attesa, che pagano il loro essere pietre da sempre ed essere nate pietre per farsi ballare sopra, per essere palcoscenico di una danza, per essere l’inizio di una danza e di un miracolo e della felicità; e si muove, la mia donna, e i suoi piedi sono piccoli e bianchi, e non le vedo il viso ma non mi serve il viso, mi basta che ancora siano nuvola di lava quei capelli al vento caldo, che ancora disegnino forme quei piedi bianchi sulle pietre calde, che tutto continui, che niente cambi, che l’acqua scorra e che la notte resti notte e che io resti sveglio e qui, sotto i portici di Piazza Vittorio, a respirare il caldo e questa spremuta di vita e di poesia e di bellezza, tutta per me, tutta mia, tutta bellezza da far bagaglio.

Bagaglio non ne porto con me, e oggi parto e vado via e il mio congedo è quello del viaggiatore cerimonioso, come direbbe e ha detto così bene Caproni; vado via anzi scendo, porto questo mio piccolo bagaglio con me e scendo dal treno in cui sono sempre stato e saluto tutto quello e tutti quelli che mi hanno accompagnato, ormai sono a destinazione e buon proseguimento, ormai ho visto la bellezza e non c’è più spazio per me qui, non per me. E tutto questo lo capisco perché la danza è finita, e i piedi non si muovono più, e la lava fredda dei capelli è adesso preda del vento caldo ma non del movimento; perché la danza è finita e io chiudo tutto, chiudo me stesso e butto via le chiavi, vado via da me, esco da me; e lascio pure Piazza Vittorio e l’Esquilino e pure Roma di cui questo quartiere sembra non far parte, lascio trascorrere quanto resta di questa notte e questo rimasuglio di notte lo voglio spendere per raggiungere un altro treno ed essere presto lontano, questa notte vado via e torno tra dieci anni.

 

Dieci anni sono passati come passano le processioni sotto i balconi del corso nei paesi del sud, e li ho visti sfilare e sfilare senza bellezza. Perché la bellezza l’ho vista quella notte a Piazza Vittorio, e non la aspettavo ed era solo per me. Qualcuno ha scritto che se in un racconto compare nella prima pagina un fucile, prima dell’ultima pagina quel fucile dovrà sparare. Io non ho una buona mira e in queste pagine non ci sono omicidi, ma devo far sparare ancora una volta il mio bastone prima di far tacere questo lamento o questo inno, perché io non lo so cos’è; e il mio bastone non potrà più seguirmi, e il mio bastone resterà qui, nel silenzio vecchio di dieci anni di questa notte a Piazza Vittorio, oggi che finalmente mi sono ricordato che la felicità non è che un pretesto, uno schizzo dalla fontana a raffreddare pietre in attesa, pietre che da sempre aspettavano una zingara che le invitasse a ballare.

 
 
 
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