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Un blog creato da francesco_509 il 23/09/2009

Nostalgia di Sicilia

Di tutto un pò di quello che riguarda la Sicilia in generale e Catania e Mascalucia in particolare

 
 

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Piccolo antipasto del mio libro

Post n°5 pubblicato il 24 Settembre 2009 da francesco_509

 

 

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 Volevo proporvi di seguito due brani del mio libro, a cui sono allegati, a mò di colonna sonora altrettanti pezzi musicali intonati al contenuto :

Il Barone Matteo Rapisardi di S. Antonio (“Barcarola” - dai “Racconti di Hoffmann” di Offenbach)

 Il vecchio barone Gaspare Rapisardi di S. Antonio era veramente un barone. Uno di quei vecchi baroni della nobiltà siciliana illuminata. Questo non significa che fosse un democratico, perché abitava nella sua grande dimora gentilizia che sorgeva all’angolo di via Etnea e via Chiesa madre prospiciente alla piazza, con un grande cortile interno nel quale erano stati creati angoli suggestivi di giardini all’italiana e piantate palme e alti cipressi. Usciva dal palazzo nobiliare a bordo della sua Balilla del 1936 nera, condotta dal suo chauffeur in divisa e berretto. Era sempre vestito con inappuntabili ed eleganti vestiti scuri o, al massimo, leggermente rigati. Questo però non gli impediva di essere al passo con i tempi, e di evitare di campare di rendita, oltre che ad accettare, nel periodo carnevalesco, di essere oggetto delle attenzioni di una figura tipica di Mascalucia che era Luigi “U Baruni”. Questi aveva preso l’abitudine di vestire a Carnevale con un vecchio frac affittato e, completando questo suo travestimento con un cilindro ed un bastone da passeggio, imitava il vecchio barone e, quando lo incrociava per strada, lo prendeva sottobraccio e lo conduceva nella pasticceria “Caruso” per farsi offrire pasticcini e bevande. Quest’ultimo stava al gioco ed assecondava le scherzose battute del suo imitatore. Il barone Gaspare dimostrò, altresì, di essere illuminato, quando pensò bene di mandare l’unico figlio che aveva, Matteo, a studiare ingegneria al Politecnico di Torino per evitare che gli potesse venire in mente che, dato che era un barone, poteva permettersi di fare il fannullone. Il giovane Matteo studiò diligentemente, si laureò, si sposò e andò a lavorare alla FIAT. Quando, morto il padre, pensò bene che si poteva permettere finalmente di tornare a Mascalucia a fare il barone, si licenziò dalla FIAT e fece ritorno insieme con la baronessa, sua moglie. Questa era una donna di una bruttezza difficile da raggiungere con facilità. Era alta ed allampanata con due grandi occhi che sembravano saltare fuori da un momento all’altro dalle orbite. Per chi se lo ricorda era uno sguardo simile a quello del compianto Marty Feldman. Tuttavia era una persona di grande classe, affabile e dedita alle opere pie, che coniugava diligentemente con le occasioni mondane. Il barone Matteo Rapisardi di S. Antonio aveva una gran massa di capelli bianchi e si muoveva a scatti come Charlie Chaplin in “Tempi moderni”, ma non penso che ciò fosse dovuto ad un suo eventuale impiego nella catena di montaggio. A differenza del padre, guidava personalmente e “democraticamente” la FIAT 1500 che aveva comprato e, bontà sua, come il padre, accettava anche lui di buon grado lo scherzo carnevalesco di Luigi “U Baruni”. Ogni anno, patrocinata dal munifico mecenate, si svolgeva in autunno una mostra estemporanea di pittura riservata a pittori famosi ed emergenti. In quell’occasione, mentre i pittori si appostavano negli angoli caratteristici di Mascalucia per dipingerne gli scorci, le porte della casa baronale si aprivano agli ospiti provenienti da ogni dove per festeggiare, con un lauta colazione all’aperto, l’avvenimento. Al pomeriggio venivano premiati i pittori che la giuria aveva giudicato più meritevoli. Tutto sembrava scorrere come prima, fino a quando il barone Matteo si stancò dei suoi giochini e pensò bene, con pragmatico spirito affaristico – non per niente aveva lavorato alla FIAT – di entrare in politica. Infatti, dato che aveva dei terreni coltivati ad agrumeto che, per la crisi che colpiva il settore, rendevano pochissimo o addirittura causavano perdite, decise di diventare sindaco, di cambiare il piano regolatore, di trasformarli in terreni edificabili e di dare inizio ad una nuova “battaglia del grano” inteso, quest’ultimo, come soldi e non come cereale. Si presentò ai dirigenti della locale sezione della Democrazia Cristiana e propose la sua candidatura. I notabili del partito non ebbero la forza di opporsi e dopo una incruenta campagna elettorale, il barone divenne, senza colpo ferire, il primo cittadino di Mascalucia. Per dare vita al progetto di lottizzazione bisognava abbattere una lunga fila di case abbandonate che fiancheggiavano la chiesa di S. Vito. Dopo di che, donato graziosamente un piccolo lotto di terreno per edificarvi il nuovo edificio comunale, fu facile, tracciare un lunga riga dritta che tagliava i possedimenti baronali. I grandi casermoni a più piani cominciarono a sorgere lungo la stretta via, pomposamente definita Corso S. Vito, con una velocità talmente impressionante che di giorno in giorno il panorama veniva deturpato con sempre nuove fondamenta e selve di pilastri di cemento. Tanto che divenne un modo usuale di dire:”Andiamo a farci un pilastro al Corso S. Vito !”. Venne abbattuto una grande querceta che stava vicino al campo di calcio, colmata la grande frattura naturale del cavòlo e mutato radicalmente lo stato dei luoghi. Dopo la costruzione dei casermoni, arrivarono come cavallette i nuovi inquilini, per lo più provenienti dalle periferie di Catania e, anno dopo anno, Mascalucia perse la sua identità paesana per diventare una brutta appendice periferica della vicina città, vedendo lievitare la popolazione dei residenti da 3.500 abitanti, come era stato per decenni, agli attuali oltre 30.000 abitanti. Il sindaco barone Matteo, dopo aver portato a termine il sacco di Mascalucia, “amminchiò”, come avrebbe detto Camilleri, con il chiosco. Il chiosco era una specie di grande piattaforma ottagonale in pietra lavica, con una cancellata artistica in ferro battuto, sulla quale si esibivano durante le feste i corpi bandistici e, durante le tornate elettorali, gli oratori dei comizi. Per il resto dell’anno era il regno incontrastato dei bambini di tutte le età che giocavano con i tappi corona, le figurine, le catenelle di plastica i “casteddi di nuciddi” (castelli di nocciole formate da quattro nocciole di cui tre di base ed una da mettere sopra da colpire dalla distanza, con un’altra nocciola detta “ziccalora” lanciata con il movimento a catapulta del pollice e l’indice) e quant’altro. Il barone-sindaco decise che il chiosco stonava con la piazza e con la chiesa Madre, che segnalato solo incidentalmente erano entrambe in pietra lavica, e che era necessario abbatterlo per costruirvi, al suo posto, una fontana con tanto di zampillo. La volle di marmo bianco e quel candore innaturale, nel mezzo di una piazza, dominata dai toni scuri della pietra lavica, era un vero e proprio pugno nell’occhio. Si cercò di far capire l’assurdità della scelta dei materiali al testardo sindaco, ma fu irremovibile e refrattario a qualsiasi consiglio. Cominciò così una silenziosa battaglia infinita fra lui e gli oppositori alla fontana e tifosi del vecchio chiosco. La fontana, quasi a somiglianza delle maledizioni e delle piaghe bibliche al popolo del Faraone d’Egitto, cominciò a colorarsi periodicamente di rosso, di verde e di blu, fra le risate a stento trattenute di chi cominciava a divertirsi delle reazioni sempre più nervose ed inconsulte del barone. Questi, infatti, si affacciava dal balcone della sua casa, prospiciente la piazza e, da lassù, cominciava ad imprecare contro gli sconosciuti sabotatori. Più di una volta dei fustini interi di detersivo, versati nell’acqua, trasformarono la fontana e la piazza in un oceano di bolle di sapone, che volavano dappertutto, sospinte dal vento. Il sindaco diede ordine ai vigili di “vigilare”, ma nessuno riuscì o ebbe voglia di cogliere sul fatto le mani ignote che davano vita alle metamorfosi della fontana rendendola una vera e propria attrazione. Anche perché il divertimento era diventato generale e tutti si chiedevano come sarebbe andata a finire. Il culmine fu raggiunto quando vennero versati nelle fontana svariati secchi di rane, prelevate dalle gebbie sparse per la campagna. La piazza fu per un lungo periodo tutto un gracidare ed uno zompettare, mentre i paesani si smascellavano dalle risate. Alla fine il vecchio testardo capitolò. La fontana venne smontata ed al suo posto fu ricostruito il nuovo chiosco, copia fedele dell’originale, pietra lavica e cancellata compresa. Quando il mandato di sindaco arrivò al suo termine, il barone era diventato molto più ricco ma molto più impopolare. Mascalucia era diventata un ex paese e una mancata cittadina molto meno attraente del vecchio borgo; mentre il chiosco…aveva avuto solo una temporanea e passeggera trasformazione.

 

Filippo (“Vecchio frac” - Domenico Modugno)

 Filippo aveva un fisico prorompente da atleta, fatto di muscoli possenti e guizzanti sotto la pelle. Si muoveva, tuttavia, con l’esagerata attenzione di coloro che, proprio per la loro mole, hanno quasi paura di far male a qualcuno o fare danni a qualcosa. Aveva grandi occhi miti che ti disarmavano. Sembrava essere sempre solo, anche quando stava insieme con gli altri. Parlava poco ed il massimo che riusciva a esprimere era un timidissimo sorriso, quasi di scusa. Era apparso all’improvviso ai nostri allenamenti di volley ed aveva chiesto se poteva giocare con noi. L’avevamo inserito nella squadra ed immediatamente si dimostrò un martello di una efficacia devastante. Aveva un senso innato dei tempi adatti alla schiacciata e nel gioco era, al contrario dei suoi movimenti abituali, veloce, potente e scattante. Le squadre avversarie provavano a murarlo in tutti i modi, ma i muri si piegavano e si sbriciolavano sotto i suoi colpi possenti. Tutte le volte che schiacciava veniva sommerso dagli abbracci e lui, per nascondere il suo imbarazzo e per darsi un contegno, accennava al suo timido sorriso e si metteva a fischiettare qualcosa. Non un motivo preciso, ma un accenno indistinto. Avrebbe completato questo suo atteggiamento, sprofondando le mani nelle tasche, se solo le avesse avuto nei pantaloncini sportivi. Era diventato un rituale talmente ricorrente che lo consideravamo scaramantico. Poi lo perdemmo di vista. A poco a poco si allontanò, non venne più agli allenamenti, senza una ragione apparente. Venimmo a sapere successivamente che si era arruolato in polizia. Non si è mai capito se quel colpo di pistola fu accidentale o intenzionale. Ogni volta che vado al cimitero a visitare la tomba dei miei genitori, passo a salutarlo. Mi fermo davanti alla foto in cui appare con la divisa. Mi guarda con il suo sguardo fisso e con una di quelle espressioni attonite e smarrite, quasi incongrue, che sembrano una costante delle foto dei defunti ed io, dopo essermi guardato attentamente attorno per assicurarmi di essere da solo, mi metto a fischiettargli il primo motivo che mi viene in mente. Non uno particolare. Uno qualsiasi, perché sono sicuro che a lui, comunque, piace.

 
 
 
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