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Post N° 132

Post n°132 pubblicato il 08 Dicembre 2007 da eleperci
 

Tristan und Isolde,
il trionfo del sublime
 
 
Grande successo  alla Scala per l’opera di Wagner diretta  da Barenboim.  Tredici minuti  di applausi per uno spettacolo di classe cristallina. Magistrale regia  e ottimi interpreti: una  serata da incorniciare

di ELENA PERCIVALDI

Si alza il sipario ed ecco sorgere dalla nebbia una nave enorme eppure  minimalista, popolata di marinai iperattivi, ma mai come altre diretta  inesorabilmente verso la morte. Sembra il vascello che accompagna Artù al regno di Avalon, invece porta una regina irlandese al suo tristo destino. Tristan, il più forte dei guerrieri, il campione del re Marke di Cornovaglia, le ha ucciso il promesso sposo in battaglia e l’ha conquistata, come una preda, per il suo sovrano. Ma Isolde invece di dargli il colpo di grazia, mentre languiva ferito dalla spada della sua stessa vittima, grazie alle sue arti magiche lo ha curato, guarito, salvato. È tutto già qui il senso dell’opera di Wagner. Una disperata, medievale, orientale, simbolista e decadente intersezione tra Eros e Thanatos, tra Amore e Morte, la doppia polarità che regge e governa il caos. Dove la volontà di vivere ed amare si alterna, schopenauerianamente,  ad una insopprimibile quanto dominante  cupio dissolvi.

Questo Tristan und Isolde  diretto da Daniel Barenboim è uno spettacolo di classe assoluta e cristallina come sotto la Madonnina non se ne vedevano da tempo immemore. Un’orgia di emozioni travolgenti alternate a tensioni vibranti, una specie di  “urlo continuo” che - e il motivo oggi con gli strumenti della psicanalisi lo possiamo ben comprendere -  a suo tempo (era il 1865) scatenò come il Werther di Goethe una vera e propria ondata di suicidi.
Barenboim dirige a memoria un’orchestra  perfetta e senza sbavature,  e lascia fare tutto alla musica. Si limita a  controllare la tensione che, come un fiume carsico, scorre lungo tutto il primo atto. I protagonisti sono Tristan, guardingo e sfuggente, e Isolde, che pensa di odiarlo. I due si attraggono e si respingono, si insultano, si rinfacciano a vicenda i reciproci torti. Ma il filtro  -  pozione mortale voluta da Isolde per vendicare entrambi e trasformato dall’ancella Brangäne in filtro d’amore -  sorbito  da una semplice tazza bianca  rivela  l’illusione in tutta la sua drammatica potenza. Tristano si inchina ai piedi di Isotta e le bacia il lembo della veste. Lei, tremante, gli prende la mano:  il velo cade rivelando l’esistenza di una sola e unica verità, l’amore assoluto alla cui forza è impossibile resistere. È il momento dell’agnizione, e Barenboim lascia la passione esplodere vorticosamente.
La regia di Patrice Chéreau    rende sublime  ogni istante, ogni contraddizione, con momenti di grande  e assoluto teatro. Tristan e Isolde abbandonano - anche grazie ai costumi casual di  Moidele Bickel - i panni degli amanti celtici ripresi dalla tradizione cavalleresca  medievale per calarsi nei nostri, o almeno in quelli di noi che hanno avuto o avranno la fortuna di conoscere l’amore assoluto. Nel secondo atto giocano come due ragazzini innamorati persi, scherzano e si rincorrono. Niente è retorico. La recitazione è realistica, sono vivi e vicini.  Anche nell’impeto con cui  alla fine del primo atto, letteralmente,  si saltano addosso rotolandosi sul pavimento. 
Tant’è: amor vincit omnia. Le regole non esistono. Il regno dei due amanti è la notte. Il buio che richiama la morte. La loro comunione, totale, può solo celarsi nel tremolante bagliore lunare. Nella notte si consuma il loro turbamento e la loro estasi. A fiaccole spente. E le scene di Richard Peduzzi magistralmente rendono l’idea, col  secondo atto che si svolge in  un giardino di cipressi che sembra l’incarnazione dell’isola dei morti di Arnold  Böcklin.
Gli interpreti sono tutti attori di rango. Waltraud Meier è la perfetta Isolde, l’arci-wagneriana per eccellenza,  una vera e propria miscela esplosiva. I capelli biondi sciolti, una  carattere d’acciaio misto a disarmante ingenuità, sarcasmo da baccante e furia da Erinni all’occorrenza.  Il suo Tristano, l’inglese Ian Storey, domina la scena con la sua possente presenza fisica;  forse vocalmente è un pochino annebbiato  e confusionario nell’eloquio ma comunque non si dimentica.  E se  Gerd Grochowski è un Kurwenal fedele, arruffato e giovanile, il re Marke di  Matti Salminen, dolente,  dignitosissimo e magnanimo, è assolutamente  da incorniciare. Come buona è anche la  Brangäne di Michelle DeYoung, tenera e materna, e sempre al top il coro diretto da Bruno Casoni.
Il meglio però giunge  alla fine. Il cortigiano Melot - anch’egli innamorato di Isotta - conduce il re a scoprire gli amanti e sfida Tristan a duello. L’eroe  si getta disarmato sulla sua spada facendosi ferire a morte. Il re, messo al corrente da  Brangäne dello scambio del filtro, vuole perdonare. Ma è troppo tardi.
L’ultimo atto è una porta aperta da Wagner,  turbato dal tempestoso amore con Mathilde Wesendonck,  verso l’ignoto. L’orchestra, dopo aver dato tutto nel vaneggiamento febbricitante di Tristan che maledice l’arrivo della luce diurna e nell’accompagnare l’arrivo trafelato di Isolde, si abbandona all’ineluttabile.  Il canto di Isolde si eleva  su un desolante campo di battaglia cosparso di cadaveri. Di Kurwenal, di Merlot, dei cavalieri, degli scudieri. E di Tristan, che in un impeto di esaltazione si è strappato le bende per morire tra le braccia dell’amata. China per l’ultima volta di fianco al suo uomo, Isolde intinge la mano nel sangue della ferita ancora palpitante. Accarezzandosi il volto, si fa colare il rivolo addosso,  impregnandosi i capelli, l’abito azzurro,  il petto. Pochi passi. Barcollando, sulle cupe note dell’orchestra che vanno spegnendosi  nell’immensità del teatro, eleva il suo canto del cigno  e consuma così la sua tragedia, sommersa «in des Weltatems wehendem All» (“nella palpitante pienezza dell’alitante Tutto”). Il resto della serata è solo esaltante, frastornante disperazione.

LINK: http://www.teatroallascala.org/it/stagioni/2007_2008/opera-e-balletto/01_Tristano.html

 
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1 novembre, Europa tra sacro e profano. Ne hanno parlato al microfono di Giulia Fossà: Elena Percivaldi, giornalista e studiosa di storia antica e medievale; Flavio Zanonato, sindaco di Padova; Marino Niola, Professore di Antropologia Culturale all'Istituto Universitario Suor Orsola Benincasa di Napoli; Sonia Oranges, giornalista de 'Il Riformista'; Alberto Bobbio, capo della redazione romana di 'Famiglia Cristiana'; Ennio Remondino, corrispondente Rai in Turchia. La corrispondenza di Alessandro Feroldi sulle politiche dell'immigrazione a Pordenone.

ASCOLTA: http://www.radio.rai.it/radio1/nudoecrudo/view.cfm?Q_EV_ID=230636

 

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Volti, cerimonie rituali, frammenti di vita in seno ai templi delineano attraverso la fotografia i segni del ritratto di un mondo in cui le difficoltà morali, il fervore spirituale e la profondità d’animo vanno di pari passo con la gentilezza, l’allegria e l’immensa generosità.  Le suggestive immagini in bianco e nero, fortemente spirituali, della prima parte del volume si contrappongono alle intense fotografie a colori dedicate alla realtà di tutti i giorni (centri commerciali, prostitute) pubblicate nella seconda parte. Il libro è introdotto da un accorato messaggio di pace del Dalai Lama che pone l’accento sulla grande forza d’animo con cui il popolo tibetano affronta continuamente ardue prove nel tentativo di continuare a perpetuare l’affermazione delle proprie idee e della propria spiritualità.

 

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