Creato da tagliatrentotto il 24/01/2012

Taglia Trentotto

Il mio primo acido libro. Questo blog ne è la continuazione

 

 

Working girl no more part 2

Post n°28 pubblicato il 09 Marzo 2012 da tagliatrentotto
 

Il mio futuro è assai incerto. Non è un caso che le zingare mi rincorrano per strada per leggermi la mano. Spesso mi fanno notare come la linea della vita sia un po’ sconquassata e inconsistente, difficile da seguire con lo sguardo fino alla pensione. Il passato al contrario è un segno duro sul palmo, una cicatrice di stronzate che io tento di addolcire con della crema Nivea nella speranza di diventare saggia un giorno. In genere però cerco di non tornare mai adolescente per non farmi carico di quelle stronzate.

A ben pensarci sono stata felice solo nel 1984, gli anni prima e gli anni dopo me li ricordo tutti corrosi e piuttosto heavy metal. Nel 1984 uscì Like a Virgin. Fui felice perché appresi che si può fare le vacche anche vestite da madonne. Sono certa però che negli anni Ottanta la felicità pervadeva completamente i nostri animi e tutti ne assaggiavamo almeno una fetta. Gli italiani si dichiaravano contenti nei sondaggi e il suicidio era un affare unicamente finlandese. L’evasione fiscale già allora sputava Suv figli di redditi che sulla carta non erano mai nati, ma che in realtà scoppiettavano in cassa di risparmio. Anche l’occupazione viaggiava stabile su un convoglio felice e le segretarie d’azienda fiorivano ovunque. Grazie al boom economico la gente si bruciava i propri anni migliori in lavoro straordinario, e dai capannoni all’orizzonte si levavano grandi fiammate di valore aggiunto a lembire il cielo dei distretti industriali. Nelle ore in eccesso se ne andava tutta la creatività, quella che forse oggi riserveremmo ad educare un Tamagotchi. Il vero hobby degli uomini italiani era quello di far crescere la busta paga e i risparmi di una vita. Ed erano uomini in pace con Dio e con la società. In fondo ci voleva poco per guadagnarsi il paradiso: bastavano un tornio meccanico e la santa messa. Tutto quello che avveniva dopo aver timbrato il cartellino alla fine di un turno erano distrazioni sentimentali. Le palestre accoglievano solo yuppies, nati anche loro da poco, forse coetanei delle migliori hit di Madonna. I lavoratori delle fabbriche venete invece si facevano crescere i muscoli sulla squadrabordatrice e assieme ai bicipiti aumentavano anche i fatturati delle aziende.  Nessuno allora distoglieva il pensiero dal lavoro svagandosi con del sesso inutile. L’Escort era solo un’utilitaria che potevi anche pagare a rate, non certo una puttana con una marcia in più.

Negli anni Ottanta, quando eravamo tutti padroni di noi stessi e dominavamo le aziende, mia madre mi intimava di continuare a studiare. Non so perché lo faceva. Siamo unicamente quello che produciamo.

Ora l’incantesimo dell’industria si è rotto. Dicono che stavolta non è colpa dell’inflazione, ma di evasione e corruzione, quelle che mi avevano reso felice nel 1986. Sul Veneto laborioso dove un tempo divampavano lavoro nero e lavoro straordinario è calata una cappa di sfiga e mancanza di commesse, e così il fuoco produttivo del Nordest si è spento. Siamo il fumo che vendiamo. Un call-center di troppo. Uno stage aziendale fregatura dell’ultima ora. Gli hobbies, i social network e tutto ciò che ci aiuta a costruire un’esistenza al di là del nostro centralino perduto,  ci danno la speranza di un’altra identità che nasce dalle ceneri di una carriera. Siamo costretti ad amare il giardinaggio, ed agitare il pollice verde al posto del vaffanculo col dito medio è ormai la nostra professione. Tanti hobbies servono a coprire un solo buco, neanche un buco nell’anima, che ci dia la sicurezza che le telenovelas e le corna fanno ancora parte delle nostre vite, un vero e proprio buco in agenda che dura da Carnevale  a Natale, dove non conosciamo più né innamoramenti nè fatture da stornare. Siamo tutti cassaintegrati. Siamo il nulla che ostentiamo. Meglio sarebbe mettere delle attività preferite dentro al vuoto, altrimenti la noia, il porno e il Grande Fratello si impossesseranno di noi impiegati dimenticati. Il découpage, l’uncinetto e la briscola occuperanno presto tutto il nostro calendario. Dovremo farcene una ragione di questa nuova occupazione.

Ma vi dico una cosa. Una ex bulimica che viene improvvisamente privata delle sue bolle di vendita è doppiamente scornata. Il suo destino non è di farsi crescere il pollice verde o altra opzione di vaffanculo, ma di preparare una Torta della Nonna. Poi un’altra. E un’altra, fino a radere al suolo tutto l’albero genealogico di ingredienti parenti. Quando il dolce far nulla le si conficca nella carne come un pugnale, non è agli allegri scacchi che pensa ma ai fiocchi di mais. Fiocca il desiderio di overeating.

Mangiare è il mio lavoro, l’occupazione dalla quale non mi licenzio mai. Ho tutto il tempo per cucinare.  Accendo il fuoco. Ma poi succede sempre che si sente quel terribile odore di centralino bruciato. Un curriculum sprecato. Un vitello tonnato. Le mie ore straordinarie sarebbero ancora più affascinanti se ci aggiungo cinque vasetti di Nutella. Volo alla Coop. La spesa non è più la stessa di quando ero bambina e lanciavo il carrello verso i carboidrati. Ora ho molta più paura di ingrassare. Oggi, fare la fila alla cassa del market è come fare la coda per il sussidio statale. Ho sempre quella faccia da veneta sconfitta, travolta dalla bulimia e dall’economia. Eppure mia mamma mi diceva di continuare a studiare se volevo sfondare. Di quegli studi che, se hai un po’ di fortuna e ti applichi abbastanza, ti fanno finire dritta dritta tra gli esuberi aziendali, sulla lista dei nomi da tagliare. Electrolux rigurgita impiegati per le strade. Quel vomito del capitale in crisi che pensavo fiottasse solo dai grandi complessi industriali, ora è tutto dietro a casa mia.  Montagne di impiegati che devono cambiare vita, così su due piedi. Dicono che qualche manager, a lungo andare, sia finito a dormire in macchina, declinazione moderna di clochard su un’ Audi. Siamo cibo spazzatura per le aziende.  Ma il cibo spazzatura da che mondo è mondo risolve ogni male. Ce lo portiamo frettolosamente alla bocca quando siamo tristi e mastichiamo più che possiamo. Purtroppo si tratta quasi sempre di assunzioni sfortunate.

Torno al pane. Torno alla mio vecchio mestiere. Non mi considera di troppo neanche quando mi fotto venti brioches in pacchi famiglia. Di cui voglio solo essere figlia. Funziono come una fabbrica di paranoie che non stacca mai, neanche quando la felicità mi spacca le budella . La malattia è una carriera brillante. Corre liquida tra scenari di recessione e la morte dell’industria italiana. Mi infilo anche io nel tunnel della depressione come fanno certi operai congedati. Mi preparo un toast a sette piani. Ma all’improvviso mi contatta la Manpower di Treviso. Forse un’azienda mi desidera. Il mio lavoro non è mangiare. Il mio lavoro è fatturare.

 
 
 

Working girl no more

Post n°27 pubblicato il 31 Gennaio 2012 da tagliatrentotto
 
Foto di tagliatrentotto

Un disoccupato ha tutto il diritto di fare il morto. Morto quasi per davvero. Non ci sono sveglie a riportarlo nel mondo reale il lunedì mattina e non c'è la fragranza del caffè a dargli una botta di vita prima di timbrare il cartellino. Tutto tace almeno fino alle dieci, quando le segretarie invece vivono già da qualche ora. Il disoccupato in fondo è riposato. Si alza dal letto e si spalma in volto una cremina Shiseido. Meglio che in futuro siano pratici campioncini della farmacia di sotto, e anche tutto il resto dell'esistenza dovrà essere consumata in dosi mini. La lozione serve per correggere l'incarnato grigio topo, tipico di coloro che vivono di sostegni al reddito. Ma quale reddito? Forse una volta ce n'è stato, ma ora il disoccupato si è bruciato perfino il TFR ai saldi di Pinko su alcune gonne di ottima fattura che potranno fare anche da paralume, se c'è ancora la corrente elettrica.
Chi perde il lavoro non ha più niente per cui lottare. Non scende in strada con l'utilitaria ad affrontare il traffico di tangenziali impazzite per raggiungere l'ufficio. Non combatte per fare entrare una puntata di Beautiful nella sua pausa pranzo. Non è affatto un eroe della quotidianità, come amano descriversi le persone che lavorano e si fanno il mazzo, vere mattonelle della nostra società. Qualcuno giustamente può pensare che il nullafacente se ne sia andato altrove. Che se ne sia andato per sempre. Un disoccupato lo si lascia sparire in maniera silenziosa. Quando confida di essere stato licenziato, i conoscenti gli danno una patta sulla spalla e gli organizzano una festa. E così diventa gradevolmente invisibile. Se non lo incroci più alla fermata del bus o sul regionale delle 7.35, te ne fai rapidamente una ragione: gli avranno tagliato il contratto in banca. Ma non ammetterà mai di aver preso un calcio nel culo, dirà sempre a tutti di aver perduto il lavoro. Di averlo distrattamente dimenticato al bar. Di averlo messo in lavatrice per sbaglio. Ce l'aveva in tasca, assieme alle Vigorsol, ma ad un certo punto gli è caduto nel tombino mentre camminava per strada. Oppure se l'è giocato alle slots. L'ha perso punto e basta, e nessuno si è offerto di restituirglielo.
La nostra carriera si è dileguata per sempre. Ma non si tratta di una brutale defezione, quanto di una normale dipartita, del tutto fisiologica ad un mercato malato. E' una cancellazione dolce e alla gente va bene così. D'altronde i posti di lavoro sono contati, meglio se qualcuno accetta questa blanda transizione da alfa a beta adottando un furetto e ritagliando origami dalle 9 alle 5. Meglio se qualcuno si adagia su una deragliata vita da bohémien, coltivando piante sospette e sparando ai vicini. Si, questa è la morte lenta per mano del sistema capitalistico. Da cazzuti turnisti di fabbrica improvvisamente diventiamo tutti freelance senza palle, orgogliosi self-employed senza una tessera sindacale, quelli che ce l'hanno fatta col piccolo business online, lavorando col culo comodamente attaccato alla poltrona di casa. 
Il disoccupato si è rivolto allo stato. C'è sempre una qualche mutua che ci impedisce di impazzire e che ci permette ancora di fare code agli sportelli come le persone normali. Ma gli assegni statali si esauriranno presto. Ci mancherà l'aria. Ci mancherà uno zero al conto corrente. Faremo un ultimo tentativo di sbarcare il nostro cv alla Geox che ci sbatterà la porta in faccia, vile magazzino di scarpe con la para bianca! 
I fidanzati dei disoccupati li guardano con un misto di pena e tenerezza e si fanno quasi convincere a presentare quegli esempi di professionalità ai loro datori di lavoro. Poi però li guardano meglio e cambiano immediatamente idea, lasciandoli morire davanti alla tv del mattino, i telefilms anni Ottanta sono la morte più vintage.
Il disoccupato non fa più parte del mondo, intendo quello sano, impegnato e propositivo, fatto di ordini, fatture e tanta evasione. Al massimo fa parte di una band. E' improvvisamente caduto in una melma nera ricolma di bamboccioni e pidocchi fannulloni di cui il Veneto produttivo si dimentica in fretta. Ma un licenziamento fa figo, insomma, la working girl fino a Natale un lavoro ce l'aveva, e sente ancora i suoi skills che le corrono giù per la schiena e fremono per essere utilizzati in un'altra azienda. Presto si congeleranno anche loro in un'atrofia mentale prossima al rincoglionimento. Dalla bocca della working girl usciranno solo sillabe senza un valore aggiunto e stronzate dalla carriera breve.
Quando finiscono i soldi, finiscono anche i saldi e tutto il divertimento che deriva dall'avere tanto tempo libero. Che è il vuoto. Ore enormi. Calma isterica. Le stesse mutande per tre giorni di fila.
Il vacante ora si sente piccolo come una lumaca. Ma la lumaca almeno una casa la possiede, mentre lui tra un pò non possiederà neanche più quella. E' stato abbandonato dal suo lavoro, parenti e amici. Gli unici a cercarlo sono i call-center che per vivere contano su un numero massiccio di casalinghe e di individui che hanno perso il lavoro. Il teleselling non molla mai le sue prede per nessuna ragione al mondo. Trova sempre un depresso in casa disposto a correre al telefono pur di sentire una voce amica, anche se si è appena seduto sul water. Non sei veramente disoccupato se non vieni raggiunto da almeno una televendita di mobili al giorno. Non sei veramente licenziato se non salti come la pallina di un flipper da una compagnia telefonica ad un'altra. Ed è solo quando non hai un lavoro che ti accorgi di non avere neanche più una privacy. La working girl che ora non esiste più, una volta avrebbe risposto Ficcatevelo nel culo il vostro corso di informatica. Adesso le televendite sono le sue uniche amiche. Il centralino Infostrada un padre con la voce registrata. Rispondere a vanvera la sua sola occupazione.
 

 
 
 

Orfani

Arriva un momento in cui noi ragazze lasciamo l'università. Niente anno sabbatico, cerchiamo subito lavoro. Spammiamo alle aziende il curriculum senza esperienze, dove il nostro potenziale e l'hobby del giardinaggio sono tutto. Se potessimo davvero scegliere, vorremmo che nel nostro libretto di lavoro ci fossero solo società quotate in borsa con uffici talmente grandi dove l'eco amplifica le vendite a dismisura e i colleghi non si incontrano mai. Nel nostro libretto dovrebbe fare capolino almeno una S.p.A. diretta da manager in giacca e cravatta che mai e poi mai si farebbero scappare dalla bocca qualche famoso venetismo come Diocan, se i guadagni non impennano. Qui in campagna invece ci sono ancora tante società di persone, di carne e sangue. Le S.n.c sono nate e cresciute dalle case dei contadini, direttamente dai garage dove una volta si tagliavano le tavole di legno. Basta guardarsi intorno, qualche villetta negli anni Ottanta ha partorito un'aziendina famigliare dove oggi lavorano Bepi e i figli. Miracoli economici di qualche metro quadro. Le zone industriali sorgono proprio dietro a casa e in mezzo c'è l'orto, se proprio dovesse andare male col tornio. Queste sono le ditte individuali di cui ti puoi fidare, quelle dove il padre si improvvisa anche padrone, quelle dove il padrone prima o poi ti fa da padre. Ti fidi del padrone quando dice che i dipendenti sono dei figli. Quando si è una famiglia si naviga meglio in mezzo alla crisi e non ci si divide se cala il fatturato. Un padrone può divorziare, come ha fatto il mio che ci aveva preso gusto per le ragazze dell'est, ma l'azienda e i dipendenti rimarranno la famiglia a vita, le corna non c'entrano. Le Electrolux e le spa troppo cresciute invece minacciano tagli al personale, e solo il fantasma buono della C.G.I.L. che improvvisamente appare per le strade dei distretti industriali può ricucire le ferite. Quando le multinazionali stanno male si liberano in un battibaleno della parte malata, del settore che non rende, con uno zac. Non c'è famiglia che tenga. Il sindacato locale viene a raccoglierne i pezzi e a seppellirne la morale troppo globale, e tu finisci a picchettare assieme ai colleghi strappati dal libro paga, il libro più bello che c'è, finché c'è scritto il tuo nome.
Nella nostra famiglia metalmeccanica tutto è filato liscio finchè piovevano gli ordini e c'era da mangiare per tutti. Eravamo figli dello stesso capitale, magazzinieri e centraliniste. Il mio nome stava saldo sul libro paga e lo stipendio ogni mese aveva la stessa puntulità del ciclo, senza darmi quei fastidiosi brufoli sul mento. Tutti ci volevamo bene, noi fratelli nati dalla stessa linea di produzione. Il padrone ogni tanto mi urlava nelle orecchie che non valevo una sega, ma tant'è, io mi vendicavo aprendo profili falsi su Facebook, uno per ogni giornata INPS passata su quel cazzo di scrivania con la laurea in tasca ( e da lì non è mai uscita). Non ho mai pensato di cambiare parenti e farmi adottare dall'Electrolux, dove non avrei mai avuto un nome, ma solamente un numero di matricola, e poi, per i miei diciott'anni, anche la tessera oro della C.G.I.L. Non ho mai provato a tradire i parenti mandando un cv galeotto alla Veneta Cucine, florida azienda di Biancade, in cui si narra di meravigliosi fuori busta elargiti a brevi mano, tutto esentasse. Ero sicura che ce l'avremmo fatta a superare la crisi, la mia famiglia ed io. Non mi è mai passato per la mente che l'aver spesso rotto i coglioni al lavoro, e l'aver più volte pianto sui miei passati disturbi alimentari e i vari runaway boyfriends, potesse incrinare il rapporto col padrone. No. Un padrone veneto non licenzia mai i suoi dipendenti e non fa tagli al personale che non siano sotto forma di parole laceranti o altre motoseghe su come svolgi il tuo lavoro. Non si libera di te neanche se ti fai ore ad inventarti facce diverse sui social network -StefaniaMissPadania o PercoraNera.
Finchè non sono arrivati i cinesi - così ha detto il mio padrone - a copiare il duro lavoro dei veneti. Noi non abbiamo mai brevettato niente in tanti anni di vacche grasse. Il disegnatore tecnico schizzava i particolari metallici che poi finivano in macchina, pronti ad essere stampati. I cinesi -così ha detto il mio padrone- hanno preso i pezzi migliori e li hanno rifatti, un pò più tozzi, lunatici, ma in grado di fotterci una fetta del mercato.
Quando non ci sono più soldi un padre abbandona i suoi figli. E non te lo dice in faccia, ma lo capisci da atteggiamenti poco genitoriali, come l'accordarti improvvisamente troppa libertà, libertà di andartene altrove. Un giorno è giunta da noi la C.G.I.L di Conegliano, la stessa che ha fatto rimpiangere all'Electrolux di Susegana di avere tanti esuberi. Ho subito riconosciuto le facce cazzute della FIOM, gente che è abituata a tamponare il sangue che fuoriesce dai tagli. Mi sono detta Finiremo tutti massacrati come in Electrolux, ho visto gli operai morire per le strade per mancanza di lavoro. Ma no, niente paura. Venivano per annunciare la cassa integrazione, che è un pò come un padre adottivo che prima o poi entra nelle vite di tutti noi, specie quelle lavorative.
Ma se i cinesi continuano a copiare sai che presto sarà il tuo turno di restare orfana.
E' Natale. Trovi una lettera di licenziamento sotto l'albero. Ci dispiace doverle comunicare che l'azienda si vede costretta a ridurre il personale. Il sangue continua a sgorgare. Non hai più un padre. Che strano, dicono che il Natale vada sempre passato in famiglia.

 
 
 

Il sito di Valentina Ugolini

Ciao a tutti,

Da oggi i miei racconti saranno ospitati anche sul sito di Valentina Ugolini al seguente link:

http://www.valentinaugolini.com/p/raccontate-la-scrittura-come-terapia.html



Valentina è l'autrice di un libro sui disturbi alimentari dal titolo "Crisalide: un bruco rinascerà farfalla", Midgard Editrice
Valentina  
Buona lettura!

 
 
 

Il vampiro e il treno

Alcune persone nascono con un destino denso di pendolarismo. Probabilmente, nella loro vita, correranno su dei binari precisi o si troveranno nel bel mezzo di strane coincidenze.
 
La mia sorte di pendolare si compì nel 2006, quando diventai un’abbonata della linea Treviso-Portogruaro. Quello fu un anno non particolarmente felice poiché le tariffe ferroviarie erano salite alle stelle, e i biglietti da 30 km, tutto ad un tratto, erano aumentati di ben 50 centesimi. Non ci feci troppo caso, in fondo avevo avuto la fortuna di trovare un posto fisso di impiegata nel centro di Treviso, quando tutti gli altri laureati provenienti da facoltà umanistiche salutavano a turno i temibili Co.Co.Pro e altri mostri del precariato.
Gli inconvenienti del servizio ferroviario furono innumerevoli fin dai primi mesi di lavoro. A causa dei ritardi, noi pendolari sproforndavamo per interminabili quarti d'ora nella malinconia delle banchine che svaniva solo una volta saliti in treno e sistemati sull’acrilico bluette Trenitalia.
Nonostante il tabellone delle partenze avesse fagocitato più volte il regionale del mattino durante gli scioperi, sulla nostra linea ferroviaria, tuttavia, non si udivano troppe rimostranze. Non si sentivano i Porca Troia fare eco agli annunci delle cancellazioni per microfono, e non si vedeva nessun membro del Comitato Pendolari di traverso sui binari. Mi ci sarei messa io, se non avessi abbandonato la posizione orizzontale da un pezzo, in favore di un'immagine più sobria. Insomma nessuno incitava alla rivoluzione, anzi, a ben guardarci negli occhi, ognuno di noi aveva un vagone del cuore ben riscaldato in inverno, un salottino dove sciogliersi in chiacchiere prima di affrontare le brutture dell’ufficio. Eravamo pronti unicamente per la banca o per l'anagrafe, facendo squadra solo la domenica per la partita alla tv, e non avremmo mai potuto maledire un capostazione.
Da noi non esisteva quindi un vero e proprio eroe ferroviario, una voce insistente del malcontento pendolare la cui faccia finiva su volantini sediziosi ad incitare alla guerra, un combattente pronto a rompere i coglioni alle testate locali ogni volta che una carrozza rimaneva intrappolata nella nebbia di Gorgo al Monticano, o il cesso puzzava di piscio. Esisteva però un'anima a supporto del nostro abbonamento che da diversi anni calcava coraggiosa la tratta Treviso-Portogruaro. Il suo nome era Maddalena ed era nata con orgoglio di pendolare. Da sempre aveva occhi come semafori verdi, pronti a far partire un altro convoglio, e i suoi tragitti erano una certezza in mezzo a tanti treni diretti chissà dove.
Fino ad allora però non ci aveva fatto avere neanche un mezzo in più alla sera, ma solo puntualissimi aggiornamenti tariffari e qualche deragliamento.

Conobbi Maddalena sul Minuetto delle 7.35, mentre le sue porte si spalancavano sulla stazione di Ponte di Piave. Non mi passò mai per la mente che Madda, come si faceva chiamare, risuonasse un po’ come Matta nel nostro immaginario piccolo-borghese. In fondo, siamo tutti uguali di fronte all'attesa di un treno: individui discreti con lo sguardo fisso nel vuoto e una mano che stringe una madonnina in modo da preservare l'engine del diretto.
Mi fu subito chiaro che Madda non era una viaggiatrice comune, di quelle che assorbono in silenzio il tran tran del pendolarismo e si trasformano in atomi almeno fino all’arrivo a destinazione. Madda desiderava entrare in contatto con chiunque, anche con i sedili vuoti, e non scendeva mai dal Minuetto senza essersi presentata. E mentre gli inglesi tradizionalmente iniziano le loro conversazioni dal meteo, Madda partiva sempre da una stazione.
Si diceva avesse la capacità di fare i viaggi altrui, anche quelli interiori, solo scambiando un’opinione sugli snodi più validi o i capolinea a cui era giunta nella sua vita. Riusciva perfino a catturare lo spleen ferroviario che aleggiava nella carrozza, interpretando a perfezione il nostro magone per tutti i suicidi avvenuti sotto ad un treno. Per qualche strana ragione, dove c’era Madda non c’era abusivismo, ed eravamo senz'altro tesserati fino a Capodanno.
Quando, in mezzo al nulla delle sette del mattino, in un punto indefinito della linea Treviso-Portogruaro, tutti i vagoni venivano pervasi da una strana sensazione di pre-sportello, che è anche più dolorosa del lavoro in sè, e udivi solo la voce di Madda che avresti voluto mettere prontamente in silent mode, sapevi che i tuoi viaggi procedevano nel migliore dei modi, e non avrebbero subito troppi cambiamenti di rotta. Ti sentivi al riparo da ogni deviazione.
Anche se io studiavo Madda da lontano, lei si era avvicinata fin troppo a me, e temo fosse a conoscenza della mia annosa lotta con un disturbo alimentare che io protraevo dai tempi in cui Carlo e Diana facevano ancora coppia. Le chiacchiere ferroviarie delle otto del mattino sono molto più pericolose delle dicerìe da bar poiché circolano tra abbonati che perpetuano il gossip quotidianamente, almeno fino alla scadenza della loro card ferroviaria.
Non avrei mai spezzato una lancia a favore delle sue doti di leader delle banchine uno e due. Con quei riccioli disposti a condominio, il maquillage denso di cipria compatta e lo sguardo come un imbuto a risucchiare la vita circostante, io l'avevo data per morta nelle relazioni sociali. Invece mi ha stupita per ogni giorno feriale che ho pianto in stazioni punteggiate da timbratrici fantasma: Madda viveva, ma solo su binari altrui.
Tra il 2006 e il 2010, Madda ingoiò nei suoi fiumi di parole moltissimi pendolari, frequentatori, per la maggior parte, del suo vagone preferito, quello di testa, dove le giacche scure Trenitalia occasionalmente si mescolano al beige dei trevigiani.
Non risparmiò neanche un abbonato nella sua caccia, includendo perfino le tessere argento, e ci iniettò tutti di racconti strappalacrime su quei cazzoni dei suoi datori di lavoro, meritandosi pacche affettuose, occhi strizzati da finestrino a finestrino, teneri air kisses, e soprattutto la sua reputazione altisonante in tutte le vetture –ciò per cui lotta ogni leader ferroviario.
Nessuno si accorse mai di essere stato divorato. Le persone normalmente si consegnano alla routine di spostamenti regionali senza particolari aspettative di incontrare l’amore o di vincere al lotto.

Quando si impossessava dei compagni di viaggio, Madda prendeva improvvisamente forza, diventando un mostro di notorietà e di gossip da prima classe. E quando si abbatteva su di noi la tanto odiata soppressione del servizio, con lunghe pause di morte interiore del pendolare in attesa di una partenza, questo era un motivo in più per entrare nelle nostre vite.
Più pendolari Madda inghiottiva, più si sentiva amata, considerata, desiderata. Bulimie sorelle, le nostre, che corrono su binari paralleli, quasi speculari: non era strano per me sentirmi un pò Madda ogni tanto. La malattia diventa ancor più profonda quando riusciamo a catturare l'anima della nostra preda, che sia la stracciatella o una carrozza gemella.
Viaggiando sullo stesso regionale, stavo rischiando di cadere nella rete della sua bulimia ferroviaria, un'indigestione di relazioni che produce strette di mano compulsive e scambi di amicizie solo sui social network, che produce a sua volta il bookclub, per chi è partito già sveglio e voglioso di novità editoriali, che produce heavy metal in cuffia, tu da una parte e Madda sull'altro auricolare, che produce pettegolezzi a palla, a rimbalzare su di me, che guarda caso non sono tagliata per socializzare, o per fare dell'uncinetto viaggiante. Rimanevo a distanza per quanto mi era possibile, cercando di comprendere l'essenza delle nostre ossessioni dalle vetture di coda, quella necessità impellente di impossessarsi di sentimenti sfuggenti, magari diretti a nord, e di renderli rigorosamente incoming.
Ma tutti sanno che un bulimico deve sempre avere l'ultima fetta di torta, a costo di perdere la faccia e diventare lo zimbello dei terminal. E quell'ultima Sacher, per Madda, ero io. Schiva come un procione, fin dall'inizio del mio abbonamento avevo cercato la parte meno vissuta del binario, una terra senza timbratrici, pacata, in cui si giunge solo dopo aver dato tutti se stessi al pendolarismo più spinto di andate senza fare ritorno. Io ero lì, con gli occhi sulle rotaie, e se pensi di attraversarle in tranquillità che tanto il treno non arriva, il treno poi arriva. Per me va sempre così quando decido di partire.
Nascondevo il mio volto da drag queen a causa delle alzatacce dietro a occhialoni scuri, e in questo modo ero al sicuro anche dagli sguardi tristi dei pendolari ammazzati dal gelo del mattino, tranne che da quello di Madda, che, desiderando rubarmi l’anima, diventava sempre più acceso. Reclamava l'ultima compagna di viaggio che ancora non era riuscita ad addentare, per giunta irregolare in qualche mese di strana depressione, senza lo straccio di un documento di viaggio che spuntasse dal taschino.
La mia era una tratta contorta e difficile da digerire, e preferivo affrontarla in solitudine, prendendo posto in vagoni per niente cool, all’ombra di un wc inutilizzato o di sedili ancora vergini. Qualcuno mi aveva detto di leggere I love shopping con mia sorella prima di morire. E io seguivo quel consiglio ogni mattina. Sapevo che il pendolarismo mi avrebbe sfiancato in breve tempo, rendendomi lo zombie della stazione di Treviso, e gli zombie non sono altro che morti viventi.
I miei soli interlocutori erano i controllori di viaggio, gli unici che hanno davvero il coraggio di avventurarsi nel culo di un treno. Io avevo un sogno: quello di fotterli con una tessera ferroviaria taroccata.
Madda mi cercava sia all'andata che al ritorno, per me momenti di vulnerabilità estrema, cuscinetti tra le preoccupazioni del lavoro e il calore del freezer di casa.
Una mattina in cui ero abbigliata fluo, mi scovò in fondo al Minuetto. Anche per lei le storie d’amore nascono solo accompagnate dall’Alta Velocità. Mi chiese di uscire. Io ci andai. Questo non era affatto strano. In passato Madda aveva domandato un appuntamento a tantissimi pendolari e tantissimi pendolari avevano domandato un appuntamento a me. Forse ora avremmo avuto qualche tesserato in comune.
Ma oltre a questo, che cosa ci teneva ferme sullo stesso binario? Forse la fame incontrollata di affetto, o il desiderio selvaggio di essere le regine incontrastate del Minuetto -il suo più esplicito, il mio più filigranato. Forse Madda sperava io potessi rimarginare delle ferite che non sapeva neanche di avere. Forse per la prima volta anche io avrei potuto avere un’amica, un’amica viaggiante.
Ci incontrammo alla cioccolateria Fond di Oderzo, non al Dopolavoro ferroviario. Dopotutto siamo ragazze moderne.
Nel corso della nostra conversazione appresi che Madda lavorava come venditrice in un negozio di mercerie sul ponte di Rialto a Venezia, e per questa ragione il suo pendolarismo, mescolato ai vecchi fasti della Serenissima, era molto più nobile e chic di quello di tutti noi, limitato alla piccola Treviso. Mi resi subito conto che in quegli anni di sfinimento ferroviario e inutile contemplo dei binari, Madda dal canto suo era riuscita a costruirsi un'identità precisa, impersonando una sorta di bridge che unisce la Sinistra alla Destra Piave, Marghera alle terre lagunari, diventando un magnifico trait d’union tra piccole stazioni di campagna addormentate e i crocevia del turismo più vivace. Il suo potere cresceva di abbonamento in abbonamento.
Non le dissi mai che nonostante una nonna Maria in famiglia, ed un passato timidamente ACR, ero una viandante niente affatto spirituale, con mete alquanto consumistiche e terrene in centri commerciali e paradisi del retail. Sudai freddo quando mi chiese di che tariffa ero e altri dettagli della mia vita ferroviaria, e cominciai a parlare russo.
Non le raccontai di quella sera d'inverno che, incappucciata come una vigliacca, andai ad uccidere l'unica obliteratrice funzionante in stazione iniettandola di chewing-gum, così che il giorno dopo sputasse biglietti spearmint. Non le confessai che avrei voluto liberare tutti i miei pidocchi sulle poltroncine puzzolenti del Minuetto, e ancor di più, che sognavo di graffitare le carrozze maledette con cazzi giganti, di buon auspicio ai viaggi che noi single facciamo con l’immaginazione. Ero lì per amarla e nulla più.
Nonostante fossi anche io affamata dell’amore della gente, ad un certo punto, Madda aveva avuto la meglio su di me e mi aveva mangiata. Mi aveva poi svuotata e abbandonata sulla terrazza del Fond con il mio abbonamento discutibile, io bulimica scornata da un'altra bulimica. Non mi rimaneva che sfondare il banco dei pasticcini per consolarmi.
Capii immediatamente che per Madda. i pendolari erano solo un nome nei database di Trenitalia e non le fregava affatto di sapere dove stessero andando. Non esisteva, verso di loro, nessun interesse di tipo sessuale, di trovare marito o una scopata che durasse almeno fino alla fermata dopo, ma tutti avevano la stessa funzione di alimentare il suo vampirismo ferroviario, matricole universitarie come cazzi graffiti.
Nei mesi a seguire Madda  tentò ancora di succhiarmi il sangue, camuffando i suoi assassinii con inviti a teatro e concerti di musica classica, dove, nonostante il Bolero, lei mi avrebbe raccontato per l’ennesima volta di quando era annegata nell’acqua alta di Venezia, per poi abbandonarmi nuovamente, e passare ad un pendolare più giovane, un po’come fanno d’abitudine gli uomini veneti. Ad ogni fermata, io riconoscevo questa fame furiosa. Sapevo fin troppo bene che due bulimie che viaggiano parallele possono finire per scontrarsi, come succede a volte, non
si sa come, coi treni. Per questo la mollai tanto in fretta quanto l'avevo incontrata, arginando la sua malattia alla prima classe.
Madda raccontò tutto subito al padre, il quale aveva l’abitudine di accompagnarla al binario e di pregare per la salute del Minuetto ogni mattina. Sono certa che lui le ordinò di ammazzarmi. Non con un ascia o con una puntura letale ma solo con i suoi pensieri. Le chiese di lasciarmi andare poiché non valeva la pena di avere un'amica come me, capace solo di prendere carne e cioccolatini.
Madda non mi uccise mai, almeno non del tutto. Si rispecchiava nella mia malattia e per questo credeva di volermi bene. Conservò qualcosa di me, un Ciao strappato di fretta nel sottopassaggio della stazione, un Vaffanculo ai servizi sostitutivi nei giorni neri del pendolarismo, qualche scheggia di narcisismo che affiorava quando sorridevo ai finestrini del Minuetto.
Lei rimase male tutta l'estate per la fine della nostra amicizia, soprattutto in agosto, quando i pendolari scarseggiano ed è difficile rifarsi una vita. Poi pian piano si scordò di me. A settembre arrivò l'orda di freschi tesserati universitari, e lei tornò a vivere.

 
 
 
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