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Io, medico a Baghdad se esco sola mi sparano

Post n°774 pubblicato il 21 Maggio 2007 da Tatianna

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“Lavoro in ospedale dalle 8 alle 3 del pomeriggio. È un part-time, ormai in Iraq non esistono impieghi a tempo pieno”, racconta l’oncologa pediatrica Salma Hadad che, nonostante le difficoltà, continua a vivere a Baghdad. “Fino a tre anni fa trascorrevo i pomeriggi in clinica ma gli episodi di violenza mi hanno costretta a chiudere l’attività. Ora, quando torno dall’ospedale non posso nemmeno uscire per fare la spesa. Non sono sposata e devo sempre essere accompagnata da mio fratello. Vivo con la mia famiglia perché da sola è pericoloso e costa troppo”. Donna, medico e professore universitario. Questa è l’identità dell’irachena Salma Hadad. Ma questi tre elementi rappresentano fattori di rischio per la coraggiosa dottoressa, facile obiettivo di guerriglieri, criminali e radicali islamici che cercano di imporre le loro regole con la forza. Negli ultimi dodici mesi Salma non ha potuto guidare: “L’ospedale dista 14 chilometri e mi passa a prendere un collega. È frustrante, perché fino a non tanto tempo fa ero indipendente, badavo a me stessa, aiutavo la mia famiglia e i pazienti”. 

In collegamento video da Baghdad, Salma Hadad ammette di avere paura a “camminare per strada da sola, a prendere un taxi. Quando esco non so se tornerò. Ho paura di saltare in aria e scomparire per sempre. I miei timori sono quelli di tutti gli iracheni”. Quattro mesi fa ha lasciato, insieme alla famiglia, il quartiere dove viveva da sempre: “Sui muri abbiamo trovato scritte minatorie, abbiamo affittato un appartamento in una zona relativamente sicura della capitale. Come noi, migliaia di iracheni sono stati obbligati ad andarsene per non essere uccisi dai ribelli che hanno spaccato la città in due”. Cinquantadue anni, Salma Hadad lavora con i bambini affetti da tumori ematologici. Riesce ad aggiornarsi tramite un progetto di telemedicina con Intersos. “Ogni settimana abbiamo due sessioni di teleconferenza”, interviene il professore Alberto Angelici che ha appena terminato la lezione di chirurgia. “L’approccio è paritetico: a volte siamo noi romani a salire in cattedra, a volte sono i colleghi iracheni ad esporre i loro casi clinici”. 

Reso possibile da Alenia, oggi il collegamento via satellite viene prolungato per questa intervista, concessa anche se, ammette Salma, “raccontare è doloroso”. La sua famiglia è sciita ma non praticante. Al tempo di Saddam non hanno moschee, specialmente a Baghdad dove comandano i sunniti. “Per noi non era un problema ma nelle province del sud, dove la religione è maggiormente radicata, siamo sempre stati sottomessi con la forza, com’è successo con i curdi del nord, oppressi, deportati e uccisi in massa perché considerati traditori e non veramente iracheni”. Dopo la laurea Salma vorrebbe specializzarsi all’estero ma le sue ambizioni sono ostacolate dalla guerra con l’Iran scoppiata nel 1980: “Le borse di studio sono riservate a coloro che prendono la tessera del partito socialista Baath”. Salma Trova lavoro all’ospedale universitario di Baghdad e, nel 1982, inizia la specializzazione in pediatria. Durante gli otto anni di guerra muoiono un milione di giovani, migliaia di ragazze restano vedove e tanti bambini orfani. La società cambia: le donne si devono far carico dei figli. Il regime risarcisce le vedove con denaro ma questo “incoraggia molti uomini che si mettono a caccia di dote”, continua Salma. “Dopo la guerra Saddam impone le sue regole che contribuiscono a demoralizzare la società. Ma il peggio arriva con le sanzioni dopo l’invasione del Kuwait: sono stati anni durissimi, di privazione, che distruggono ciò che resta di una comunità già impoverita”. 

Come reagisce l’oncologa all’invasione dell’Iraq nel 2003? “L’opprimente dittatura di Saddam ci ha fatto accettare l’invasione straniera come unica alternativa per liberarci di questo regime che si era guadagnato il sostegno di tutti gli arabi e di un buon numero di occidentali, a spese di noi iracheni poveri e senza speranza. Ora però Baghdad è nel mirino del crimine organizzato e dei fondamentalisti appartenenti a gruppi locali, regionali e internazionali. A pagare il prezzo del conflitto sono i ceti sociali più bassi, quelli che non sono riusciti a lasciare il Paese”.

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