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§ Il caso Asia

Post n°576 pubblicato il 24 Ottobre 2017 da Spiky03
 

 

Incompresa, come recita il titolo del suo ultimo film da regista, lo è stata sin dall'inizio: già dalla nascita, quando la vollero chiamare Asia. Che uno zelante funzionario dell'anagrafe trasformò però in un nome non meno originale e ambizioso, Aria. A 9 anni già recitava: ma è stata anche cantante, scrittrice, modella. Si è coperta da capo a piedi di tatuaggi, ha baciato un rottweiler in un film di Abel Ferrara e ha fatto una figlia con un altro dissidente della normalità, il cantante Morgan: può non starvi simpatica, ma fatico a pensare che si meriti, a maggior ragione dopo quello che le è successo, tutto il fango che le sta piovendo addosso. Carrierista, troia, complice schifosa: sono solo alcuni dei «complimenti» che il popolo social (in particolare donne: e non è un dato da poco) le ha recapitato. E' vero: Asia Argento avrebbe potuto denunciare prima Harvey Weinstein, il produttore-orco che l'ha molestata vent'anni fa, sorte condivisa da decine di altre, notissime e meno, attrici. Non c'è dubbio. Ma viene da chiedersi, in questo sport tutto italiano di infamare la vittima piuttosto che il carnefice, se davvero esiste un timing, una scadenza, una data, per fare i conti con i propri traumi e i propri fantasmi. Se c'è un momento giusto per vincere la vergogna e la paura di confessare il sopruso, l'umiliazione, l'incubo. Asia ha raccontato di essersi sentita in colpa per non essere riuscita a scappare e per non avere avuto il coraggio di denunciare: ma a molti non è bastato. E giù insulti, spregio, rancore. Non proprio un grande incoraggiamento, un bell'esempio, per tutte le ragazze che ovunque, anche nella nostra città, sono vittime di abusi: chi avrà più voglia di denunciare se il rischio (ne sa qualcosa anche la mantovana stuprata in via Testi nell'allora sede della Rete anti fascista) è quello di avere in cambio non solidarietà o comprensione, ma la gogna?
Certo: se lei - o altre come lei - avessero alzato il velo prima sulle abitudini del signor Weinstein, avrebbero risparmiato non poche sofferenze ad altre donne. Ma è un peso, questo, una responsabiltà, che è ingiusto (oltre che assurdo) fare ricadere solo sulle spalle di chi quelle violenze le ha subite. Perché se non tutti, molti, moltissimi, sapevano: ma hanno preferito, per un motivo o per l'altro, tacere. Tra loro, anche molti uomini: Quentin Tarantino (che grazie alla Miramax di Weinstein girò il capolavoro «Pulp fiction»), ad esempio, che ora dichiara: «Sapevo abbastanza per fare di più di quello che ho fatto». Ma recita il mea culpa anche l'italiano Giovanni Veronesi, con cui Asia Argento si era confidata: «Me lo disse vent’anni fa ma era piccola e aveva paura. Io non sapevo che fare. Mi sembrava una cosa troppo lontana da me. Ma avrei dovuto denunciare io». Chissà se adesso lo ripete tra sè e sè anche una superstar come Brad Pitt: che al produttore dall'accappatoio facile disse sì di lasciare in pace l'allora fidanzata Gwyneth Paltrow, ma non denunciò mai pubblicamente il tycoon. Non ci fa una bella figura: e Holllywood nemmeno. Che ora finge stupore e grida allo scandalo: scatenando il grande - e insopportabile - festival dell'ipocrisia. Perché di Weinstein quel mondo dorato ne ha conosciuti a centinaia; basterebbe leggere un libro del '91, dove il titolo dice già tutto: «Il sofà del produttore». Su quel divano sono passate in tante, almeno secondo gli autori: Betty Grable, Jean Harlow, Ava Gardner. E un'attrice discretamente nota dirà: «Tutte l'hanno fatto». Si chiamava Marilyn Monroe. La prova che questa non è una brutta storia di sesso: ma un'orribile, infinita, vicenda che molto dice e altrettanto racconta sul potere.

di Filiberto Molossi

fmolossi@gazzettadiparma.net

 

 

 

 
 
 

 

 

 

 

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