Creato da Thamyris il 22/06/2007

Il viaggio di Tamiri

Pensieri in note sparse

 

 

Essere Adriano, essere uomo

Post n°17 pubblicato il 17 Luglio 2013 da Thamyris
Foto di Thamyris

Era una lettura che rinviavo da tempo quella delle "Memorie di Adriano" di Marguerite Yourcenar. Era una lettura che molti dei miei colleghi di studio, molti amici hanno fatto anni fa. Mi sono sentito un ritardatario - e per molti versi ancora lo sono - ma non rimpiango di non aver letto prima l'autobiografia d'autore di uno degli imperatori più misteriosi e importanti della storia di Roma. Forse, se avessi affrontato le pagine e il flusso di ricordi in tempi non amturi non avrei saputo apprezzare la poetica umana che la scrittice ha profuso. La stessa Yourcenar prese tempo dietro a meditazioni, visite e letture, prima di arrivare alla sua stesura definitiva. Un "romanzo di formazione" del primo Novecento che, come molti suoi coevi compagni, non solo forma il lettore, ma in primo luogo lo stesso scrittore. 
Adriano, ritengo, non è soltanto una metafora dell'uomo, non è solo un'anima sviscerata dai bisturi della scrittura e della meditazione, ma è prima di tutto un personaggio, ed è un personaggio realmente esistito. Questo implica necessariamente, accanto all'immedesimazione dell'autore, anche una attenta lettura delle fonti storiche e sono rimasto sorpreso nel leggere la "nota" dell'autrice posposta al termine del libro in cui snocciola tutte le indagini storiche e artistiche che nel corso degli anni aveva accumulato. In questo senso, il romanzo "forma" anche lo scrittore. La Yourcenar dice di aver vissuto con Adriano dopo che ebbe ricostruito innanzitutto quella che avrebbe dovuto essere la sua biblioteca, sistemata tra le stanze della vita di Tivoli. Una biblioteca inesistente e presupposta in piena linea con le vene poetiche del Borges bibliofilo e bibliomane tra le stanze della sua Babele e di un T. S. Eliot alle prese con l'analisi dei classici. 
Spesso si commette l'errore di estrapolare, recidendo ogni legame, quasi vivisezionando, l'opera dal suo tempo; questo accade a tutti i classici immortali, senza tempo, senza età. Purtroppo è un errore "romantico" dettato dall'emozione nel rivivere ogni volta l'eternità della bellezza, come direbbe il nostro imperatore, Adriano. La Yourcenar si schiera nella falange degli amanti della cultura, del bello, dell'immortale, in un mondo sempre sull'orlo della catastrofe finale. 
Adriano è lì, in punto di morte, proprio ai confini del mondo. Sull'isola di Achille, uno scoglio che dà sulla Propontide e dove si erge, piccolo e dimesso, il tempo dedicato all'eroe Acheo e al suo amato Patroclo. Dopo aver governato l'impero più vasto del mondo e aver visto le bellezze delle più grandi città dell'ecumene, l'anziano imperatore versa lacrime da occhi grigi e stanchi sulle rive frequentate da granghi e gabbiani in attesa di una morte sempre più desiderata. Adriano si trovò spesso a gaurdare al di là dei confini. Proprio lui che fu il fautore del grande vallo di Britannia, colui che sancì i limiti dell'influenza romana in un Medio Oriente sempre in guerra. Ma c'è differenza tra confini materiali e spirituali? Sì, purtroppo, ed è ciò che impara Adriano nella sua vita. L'amore per il suo Antinoo non ha limiti, neanche dopo la morte del giovane. Il desiderio e la sete di conoscenza neppure; ma v'è un punto dove l'uomo si deve fermare, dove la linea rossa non deve essere oltrepassata, pena l'eterna sofferenza. Un tormento non di matrice escatologica: nessun dio impone il limite. Il dolore è frutto della consapevolezza che, pur essendo l'uomo più potente del mondo, non si avrà mai tutto anzi, che si ha sempre molto poco rispetto agli sforzi profusi. Direbbe Montesquieu: "Il faut avoir beacoup étudié pour savoir peu". 
La grande lezione dell'imperatore è proprio questa e alla fine della sua vita, l'uomo non può nient'altro che sentirsi uomo, con in cuore il desiderio di tenere vicino a sé ciò che più ha amato durante la propria vita. Non conta altro, conta tutto. 

 
 
 

L'eterno errare

Post n°16 pubblicato il 15 Aprile 2013 da Thamyris

Tamiri era un poeta, un poeta abilissimo, un cantore senza eguali. Egli era consapevole della sua superiorità, era un artista maturo. Decise - racconta Apollodoro - di sfidare tutte le nove Muse in una gara poetica. Se avesse vinto - questi erano i patti - avrebbe giaciuto con loro. Tamiri desiderava possedere anche fisicamente ogni singolo aspetto dell'arte, ma la sua tracotanza fu punita, perché perse. Le dee spietate e offese lo privarono della vista e della voce e lui, disperato, abbandonò la cetra per darsi all'erranza. Non v'è poeta che non abbia perso qualcosa, un qualcosa di proprio. Tamiri non poté né più vedere né esprimere il proprio pensiero e la scrittura ancora non era stata ideata. Da allora, Tamiri, come l'Ebreo errante giudaico, vaga per la terra alla ricerca della propria essenza, e noi, indefessi umani che ogni giorno cerchiamo di comprendere quale scintilla divina brilli in noi (o che al contrario cerchiamo di non vederla) non possiamo fare altro che cercare, come Tamiri, le radici della bellezza, profonde e calde sotto il mantello del mondo.

 
 
 
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