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Perfidie di Stefano Torossi

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Il grande narciso

Post n°273 pubblicato il 13 Aprile 2014 da torossis

 

  IL CAVALIER SERPENTE

   Perfidie di Stefano Torossi

     14 aprile 2014

    IL GRANDE NARCISO

 

E' Eugenio Scalfari, di cui siamo andati a festeggiare i novant'anni lunedì 7 aprile al Teatro Argentina. Evento preparato da una serie di articoli su La Repubblica, Il Venerdì, e tutti gli altri araldi baronali del regno di cui lui è re. Lunga fila fuori del teatro; una volta dentro e dopo tre quarti d'ora di baci abbracci e saluti di Veltroni e Sorrentino e Paola Fracci e Benigni ha inizio la cerimonia. Che, essendo il compleanno di un novantenne famoso ha le sue formalità e i suoi tempi. Sullo schermo si inseguono foto sue insieme a tutti, ma tutti davvero. Una galleria di chiunque abbia contato qualcosa nel secolo.

La faccenda è condotta da Antonio Gnoli; brani vari dai libri del festeggiato sono letti da Silvio Orlando, il cui microfono, tanto per non smentire l'efficienza nazionale, gracchia e sputazza un bel po' prima di stabilizzarsi (siamo all'Argentina, il primo teatro di Roma, e per un evento di una certa importanza; ma siamo anche in Italia). Cinque amici/collaboratori, dopo aver presentato garanzie di antiretorica e di antipatos, raccontano, ma leggendo, quindi con un bell'effetto imbalsamato, omaggi, aneddoti, ricordi sul filo di cinque argomenti: viaggio, conoscenza, persone, amicizie, sfide. Fra costoro brilla, si fa per dire, Alberto Asor Rosa, che con il suo parlare noiosissimo e sonnolento da il colpo di grazia al pubblico. Raccontando dell'amicizia fra Scalfari e Calvino cita dalle Lezioni Americane la parola "rapidità", e poi (ci viene ancora da ridere) piomba in una pausa talmente lunga da far temere un coma irreversibile.

E' chiaro che non ci aspettavamo la torta con dentro la ballerina, ma tempi un po' più teatrali forse sì, visto dove siamo. Per fortuna appena il protagonista sale sul palco possiamo finalmente apprezzarne lo spirito, la proprietà di linguaggio, la chiarezza di idee, e la prontezza (sempre saldo sul suo piedistallo di magnifico narciso, intendiamoci). Dall'alto del quale riferisce le telefonate di auguri del Presidente del Consiglio, del Papa, del Presidente della Repubblica che, ci racconta con civetteria palese e modestia malcelata, avrebbe voluto venire a salutarlo, ma lui ha preferito di no per evitare troppa emozione. Arguto e instancabile, come sono spesso i vegliardi quando hanno un pubblico e parlano della loro vita, pilota con timone saldo la nave dei festeggiamenti.

Ahimè, a un certo punto della rotta il magnifico vascello di capitan Scalfari incontra un pericolosissimo scoglio e finisce col naufragare come se al comando ci fosse uno Schettino qualsiasi. Succede che il saggio, distaccato, ironico, cinico giornalista a un certo punto annuncia che ci leggerà alcune sue poesie, perché, sì, in tarda età ha scoperto di essere anche poeta. Tira fuori un fascio di fogli e attacca. Ed ecco che l'acuto polemista, il dissacratore di uomini e idee, ci diventa un paroliere da Sanremo.

Versi pieni di spiagge, di mare, stelle, brezze, perfino angeli. Ma come, da novant'anni stiamo in reverente ammirazione di quelle mura mantenute inviolabili da uno stratega emerito; e senza preavviso, da dietro il ponte levatoio, fa capolino il menestrello!

Di colpo, al posto del pilastro di saggezza e ironia che conoscevamo, abbiamo visto un nonno un po' andato a cui i fogli tremavano in mano per un inizio di Parkinson; che a un certo punto si era persa l'ultima poesia e continuava a cercarla fra l'imbarazzo di molti. E quando l'ha trovata, ha anche voluto leggerla.

Incrociatore affondato da questo siluro senile. Peccato.


Accendere la luce. La parola d'ordine della conferenza stampa del Festival Internazionale di Villa Adriana, venerdì mattina. Basterebbe far scattare l'interruttore per indirizzare l'attenzione sugli innumerevoli coaguli di bellezza e d'arte che abbiamo dalle nostre parti e che lasciamo stupidamente al buio. E l'Italia diventerebbe all'improvviso un paese ricco, ammirato, ricercato, non dalle forze dell'ordine, tanto per cambiare, ma dal mondo. 

La cerimonia, presenti Zingaretti, Regina e Fuortes, è introdotta dall'Assessore alla Cultura del Lazio, Lidia Ravera, la quale, come sanno quelli che leggono, scrive bene, ma bisogna ascoltarla per rendersi conto che parla ancora meglio. Poche parole, quelle che servono (come rispose Mozart all'Elettore di Sassonia che lo rimproverava: "Troppe note, maestro!", "Quelle che servono, maestà") chiare e coi tempi giusti. E sempre con una minima, efficace notazione di colore. Nella fattispecie, la difficoltà di trovarla, questa Villa Adriana, una meraviglia che dovrebbe essere segnalata fin dall'arrivo all'aeroporto di Fiumicino, e invece, bisogna andare a cercarsi un viottolo che incrocia la Tiburtina alle porte di Tivoli: la direzione è quella. Segue un garbuglio di sensi unici, e poi, con l'aiuto di Sant'Indiana Jones si arriva, ma non si può fare a meno di chiedersi il perché di questo andazzo cialtrone, quasi omertoso. Comunque stupido.


 

                                         


 

 
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