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« ripartiamodolore »

azùl

Post n°69 pubblicato il 06 Ottobre 2009 da cicuta4

posso affermare senza alcun timore  di essere smentito che il romanzo non è sublime esercizio del mentire, bensì cruda e volgare narrazione della verità. è lo strumento, sovente magistralmente adoperato, con il quale lo scrittore confessa le sue più inenarrabili ed infime bassezze, creando personaggi di fantasia a cui addossare nefandezze tali che, ove le riconoscesse come proprie, lo porterebbero, inorridito da se stesso, all'esilio dalle genti qual reietto e alla perdizione eterna.
il romanzo non è il trionfo del genio. è l'arte del vigliacco.
(
h. s. orrieslund, aforismi).

non riuscivo a dormire, il letto mi ballava sotto la schiena e la testa pulsava dolorante. avevo persino immaginato che fosse arrivato il momento di salutare per sempre la compagnia. alla mia età le liti furibonde a tarda sera, quando il tuo interlocutore è a migliaia di chilometri e non puoi sfogare il nervoso spaccandogli la faccia, possono essere fonte di rimpianto e dispiacere per chi ti vuol bene.
stavo male, per questo non me ne sono accorto subito.
guardavo il soffitto della camera, la fioca luce notturna di una tarda primavera australe che filtrava sotto il battente chiuso della finestra, a dare contorno e forma ai tanti ninnoli della stanza, al controsoffitto troppo decorato da un muratore bohemienne, al tavolino nell'angolo, alla panca in fondo al letto. un mare di pensieri annacquati dalla rabbia, spiriti liquidi che attendevano di essere sopraffatti dal sonno.
quella luce soffusa ballava anche più del letto, e poi diventava un bagliore più pronunciato, un'alba anticipata, un raggio tremolante.
stavo andando alla finestra, stranito da questo fluttuare inquietante. se doveva essere il momento, volevo vedere un'ultima volta il mio sole notturno.
a metà strada, un lieve ticchettìo alla porta, appena percepibile. era azùl.
è finita la notte, passata la mattina, il pomeriggio. si fa sera di nuovo. siamo rimasti tutto questo tempo qui, in veranda, a guardare quel fuoco che mi faceva tremolare la stanza, prima ammiccante, poi violento, vorace, caldo, e poi tutto quel legno che si consumava sotto le fiamme, in poco tempo, forse attimi, e poi solo fumo e brace, tizzoni di carbone, occhi di demonio.
per tutta la giornata abbiamo guardato la fine della sua locanda.
la fine del mio angolo dell'oblio, del posto della mia moleskine e dei miei ricordi.
non abbiamo parlato molto, poche frasi di curiosa sorpresa, perchè la parola pretende energia, soprattutto quando tutto ciò che esce dalla bocca potrebbe essere intriso di una insana idiozia. come lo è tutto ciò che puzza di consolazione e di commiserazione. non avevamo certo tutte quelle forze.
la mia veranda è diventata una sorta di sacrario, luogo di pellegrinaggio, la camera ardente di un morto che giaceva a un centinaio di metri da noi, e noi, cioè lui, azùl, il congiunto a cui rendere il cordoglio per la vittima.
se doveva toccarmi il ruolo di prefica prezzolata, beh, qualcuno ha sbagliato qualche calcolo. il fatto è che non so piangere a comando.
ci dondoliamo sulle nostra sedie, i resti della cena sul tavolo e una birra in mano.
non si è fatto mancare la solita, quotidiana, robusta razione di sigari. gli hanno diagnosticato un cancro ai polmoni, sei, forse otto mesi di vita. è passato un anno e mezzo, combatte il male aumentando le dosi di tabacco. il signorino ha deciso che per lui quella è la cura migliore.
da qualche parte sento arrivare la sua voce, bassa, grave, lucida.

"
non mi sentivo così da tempo. ma se ti dico così, non è che poi sono capace di dirti cosa intendo esprimere.
stupore, forse. avvilimento, certo. dispiacere, tanto.
ma nessuna di queste cose, nemmeno tutte insieme, racconta cosa provo.
e ti so dire anche quando ho provato tutto questo. lo so perchè quella volta mi  augurai che non mi accadesse mai più niente di simile.
eravamo rimasti svegli tutta la notte, ascoltando alla radio le notizie che arrivavano da santiago. speranza, paura, per molti voglia di partire per aiutare i compagni cileni, di non lasciarli soli di fronte all'indifferenza del mondo. eravamo giovani, come lo puoi essere da queste parti, dove la vita te lo racconta al primo vagito quanto sa essere dura.
faceva troppo caldo per essere un giorno di fine inverno e il trascorrere delle ore, le notizie che arrivavano, lo sdegno e l'angoscia, tutto rendeva l'aria insopportabile. a metà mattina capimmo che tutto era perduto, che i nostri sogni erano perduti.
non c'è redenzione, a questo mondo, questa fu la lezione che imparai in quelle ore.
tornai a casa, non avrei mai potuto, e forse neanche voluto, andare a combattere la guerra civile di un altro popolo, c'era mio padre malato, la locanda, mia madre sarebbe rimasta sola. mi raccontavo queste cose per sminuire la mia impotenza e vigliaccheria.
trovai aguela seduta sul letto, piangente.
mi avvicinai e la accarezzai, le asciugai le lacrime col palmo della mano, con le labbra, tentai di consolarla con un mesto sorriso.
mi alzai per andare in cucina, inciampai in qualcosa che non avevo visto prima, entrando. era una valigia.
in un istante capii tutto, in pochi minuti la persi per sempre.
il tempo cura e lenisce, e poi c'era la mia locanda, la mia gente, c'era il mio mondo senza telefono e televisione, le candele al sabato anche quando mi sono arreso all'elettricità. poi a un certo punto sei arrivato tu, signore discreto che portavi il silenzio dalla tua europa vecchia e chiassosa.
ho avuto le mie donne e ancora oggi non me la cavo male, ma ho rinunciato a volerne una sola, un amore eterno, per sempre. e già che si dovrebbe essere accorti ad usare certe parole, per sempre, questa promessa di infinità che dovrebbe essere riservata solo al divino e con cui invece noi esseri mortali ci riempiamo la bocca e gli occhi.
quell'amore lontano forse è stato l'inizio della rinuncia, ma la realtà è che sarei bugiardo se dicessi che fu solo quello. quel senso di mancanza mi fece capire che mi era mancato anche il mio mondo, e che l'avrei ritrovato solo rimanendo da solo.
ecco quello che fu, mancanza. non un motivo, nessun segnale, nessuna parola. un mobile inutile lasciato sul ciglio di una strada. ma non fu abbandono. solo mancanza.
allora mi sentii così, e da allora mai più, fino ad oggi.
la differenza è che allora combattei le mie vertigini e le mie paure con la mia locanda. lì ero padrone e vittima, vigile controllore o agnello sacrificale delle altrui stravaganze o debolezze. il bancone, la vetrina, i tavoli, il profumo del legno, l'odore di muffa in cantina, il fumo, le grida, violenti litigi e silenziosi abbandoni e gioiose allegrie. tutto questo mi dava forza e mi proteggeva.
ora mi resta solo la mia gente, e dico grazie a dio perchè è molto. ma quanto può resistere una tartaruga senza corazza?
"

un cane si avvicina alle macerie. si allontana portando via con sè solo i morsi di una fame non saziata. i gabbiani volano bassi sul porto, e accompagnano le barche che escono a pesca. tutti, animali, uccelli e pescatori, vanno incontro al proprio destino anche stanotte.
non si fanno sconti a nessuno, da queste parti. e spesso il prezzo è molto alto.

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Data di creazione: 24/10/2007
 

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