Creato da veuve_cliquot il 10/01/2011

La Specola

"Non mi piace la via che conduce qui e là. Non bevo alla fonte verso cui tutti s'intruppano. Detesto ciò che é comune, popolare e senza regole" Callimaco

 

LEALTA'

Post n°123 pubblicato il 20 Maggio 2012 da veuve_cliquot

H. Holbein il giovane: Ritratto di Tommaso Moro

La parola che avrei inviato al programma di Fazio e Saviano andato in onda nei giorni scorsi sarebbe stata “lealtà”, una parola ormai desueta che ricorda gli antichi eroi greci o i cavalieri della tavola rotonda. Una volta veniva associata ad altre parole come correttezza, responsabilità, onore, pudore, tutte parole ormai cadute in disuso e sostituite da furbizia, individualismo, fama, competizione, sopraffazione. Eppure chi non vorrebbe avere vicino una persona leale? Ma quanta lealtà sarebbe disposto a dare?.

La lealtà è una virtù personale che prescinde dalla persona a cui si dà perché obbedisce a regole che ognuno di noi dovrebbe avere dentro se stesso. Si è leali prima di tutto verso se stessi ed è per obbedire a questa legge interiore che si è leali. E’ diversa quindi dalla fedeltà che implica un rapporto emotivo verso l’altro ed appartiene invece a quella sfera interiore che si basa su princìpi che dovrebbero essere costruiti negli anni attraverso l’educazione e la cultura. La lealtà si basa su un codice interiore, su un codice di valori che ognuno di noi dovrebbe avere dentro di sé.

Ma ormai l’interesse personale, l’individualismo esasperato, la voglia di arrivare sempre più in alto hanno fatto ormai perdere questa virtù. Eppure dovrebbe essere uno dei valori su cui si fonda la civile convivenza, su cui probabilmente si sono formati i nuclei sociali nella preistoria: la lealtà verso gli altri, verso la propria gente, il proprio popolo deve essere stata una delle cause che ha permesso la sopravvivenza e l’evoluzione dei popoli.

Ma ormai parlare di virtù fa sorridere, richiama a un moralismo bigotto e retrogrado. Il tradimento e l’inganno vengono spesso giustificati dal fine. Ma il fine è pur sempre personale e si è persa ormai l’idea di bene comune che invece dovrebbe essere superiore all’idea di bene personale: gli scandali che stanno coinvolgendo la nostra classe politica sono tutti frutto di questa perdita di valori morali, di lealtà verso coloro che hanno eletto queste persone.

Forse è per questo che bisognerebbe rispolverare un po’ di quelle antiche virtù di cui sentivamo parlare leggendo a scuola gli antichi poemi. La deriva non solo economica ma soprattutto culturale verso cui sta andando la nostra società è anche figlia della perdita di queste virtù. E’ vero, a volte essere leali ci può costare molto sul piano personale, andare contro un costume fatto di menefreghismo, di interesse personale e di disinteresse verso gli altri, andare magari contro un proprio interesse personale per un principio, non paga molto, ma perdere la capacità di capire cosa è bene e cosa è male, giustificare ogni cosa in nome del diritto personale alla propria soddisfazione, non indignarsi più davanti a nulla, basta che non ci tocchi, non può certo portare a una società migliore.

 

 
 
 

PARTO CESAREO

Post n°122 pubblicato il 31 Marzo 2012 da veuve_cliquot

Piero della Francesca: Madonna del parto

 

 

L’Italia ha molti primati più o meno encomiabili, e ultimamente ne ho scoperto uno nuovo.

Tutti sappiamo che il nostro è il paese occidentale ad avere la più bassa natalità, ma nello stesso tempo abbiamo in questo campo un altro primato: quello del numero di tagli cesarei. Il parto cesareo è passato, infatti, dall’11% del 1980 al 38% del 2008. Questa percentuale supera di molto la soglia del 10-15% che, secondo la raccomandazione pubblicata nel 1985 dall’O.M.S. garantisce il massimo beneficio complessivo per la madre e il nascituro e si discosta notevolmente anche dagli standard europei. L’Italia presenta a livello europeo la più alta percentuale di cesarei, seguita dal Portogallo con il 33%, mentre negli altri paesi si registrano valori inferiori al 30% che scendono al 15% in Olanda e al 14% in Slovenia.

C’è inoltre una notevole variabilità su base interregionale con valori tendenzialmente più bassi nell’Italia settentrionale e più alti nel meridione: si va dal 24% in Friuli e Toscana al 60% in Campania. E anche nella stessa regione si registrano differenze significative in base alla tipologia amministrativa e al volume di attività con percentuali di taglio cesareo nettamente superiori alla media nazionale nei reparti con basso numero di parti e nelle strutture private accreditate (60,5%) e non accreditate (75%) rispetto a quelle pubbliche (34,8%).

Eppure nessuno studio ha evidenziato che il taglio cesareo determini una riduzione del rischio materno-fetale,né miglioramenti significativi degli esiti perinatali. Al contrario,i dati disponibili riportano una più alta mortalità perinatale nelle regioni meridionali del paese, dove la percentuale di tagli cesarei è più elevata.

Questi dati li ho presi dal sito del Ministero della Sanità che ha elaborato delle linee guida, rendendosi finalmente conto che forse c’è qualche cosa che non funziona in questa pletora di tagli cesarei.

 

La variabilità rilevata sembrerebbe essere più legata a carenze strutturali e organizzative, aspetti culturali che assimilano il taglio cesareo a una modalità elettiva di nascita, scarsa competenza del personale sanitario nel gestire la fisiologia (taglio cesareo visto come pratica difensiva), che non a reali condizioni cliniche. Ma personalmente io ce ne metterei un’altra , proprio guardando i dati che rilevano come essi vengano effettuati maggiormente nelle strutture non pubbliche e quindi vengono pagati dal paziente.

 

Eppure la gravidanza è un processo fisiologico, quindi l'intervento assistenziale dovrebbe essere limitato ai casi in cui il non effettuarlo comporterebbe gravi conseguenze sia per la madre che per il bimbo;  e le pratiche in cui il taglio cesareo è inevitabile sono ormai ben standardizzate.

Ultimamente ha fatto molto scalpore la decisione dei ginecologi inglesi che hanno inserito nelle loro linee guida, come indicazione al taglio cesareo, anche la volontà della madre come unica ragione.

 

Ma perché una donna dovrebbe scegliere di effettuare un intervento chirurgico contro un evento che è ritenuto fisiologicamente naturale? Diversi studi rilevano che la motivazione più frequente è la paura del parto, riconducibile a ragioni diverse: paura del dolore, esperienza di abuso o violenza, storie pregresse di parto fisicamente o psicologicamente traumatico e anche il timore di non ricevere un'assistenza di qualità durante il travaglio e il parto. Ma quanto i medici che probabilmente hanno interessi di varia natura, fomentano questa paura?Quanti spiegano che il parto cesareo, come tutte le procedure chirurgiche non è scevro da rischi e complicanze e che il dolore può essere combattuto con una buona analgesia? Quanto questa accettazione da parte del medico nasconde motivi economici o paura di eventuali conseguenze medico-legali? 

Ecco quello che io mi chiedo: a queste cinque donne su dieci che in Campania scelgono di effettuare il taglio cesareo ( ho tolto quella donna che invece ha necessità del cesareo come indicato dall’OMS), qualcuno ha parlato cercando di far capire loro che il parto cesareo non è scevro da rischi e da complicanze anche durature, che il dolore può essere combattuto con una buona analgesia, che si potrà alzare subito e allattare il bimbo mentre se verrà operata dovrà rimanere allettata e ricoverata con antibiotici per molti giorni e con il rischio di non poter allattare?

 

Ma probabilmente, in questa nostra epoca che ha medicalizzato tutto, dalla nascita alla morte, non ci si rende più conto di ciò che è fisiologico da ciò che è patologico. Il ricorso agli specialisti per banali cefalee o doloretti o palpitazioni assolutamente insignificanti, riempiono gli ambulatori, facendo poi lamentare gli stessi utenti delle lunghissime liste di attesa, e sono ormai il campanello di allarme di un’ansia dilagante spesso fomentata dai mass media e dall’incapacità dei medici di famiglia ormai ridotti a semplici scribacchini. Quanti di noi hanno visto passare disturbi fisici dopo pochi giorni senza nessun intervento medico? Si parla tanto di prevenzione, ma sembra che l’unico messaggio che abbiamo percepito sia quello di andare dai medici e di farsi dare un farmaco o fare un esame. Spesso solo questo riesce a calmare la nostra ansia. Ma la prima prevenzione sarebbe quella personale, con uno stile di vita che comporta movimento, scelta dei cibi, astensione da fumo e alcol, evitare stress.

Ma questo implica un sacrificio personale che spesso nessuno di noi è disposto a compiere.

 

 

 
 
 

GIOCO D'AZZARDO

Post n°121 pubblicato il 26 Marzo 2012 da veuve_cliquot

P. Cezanne: I giocatori di carte

Credo che a tutti stia capitando sempre più spesso di vedere, accendendo internet, pubblicità di poker online o messaggi pubblicitari di questi giochi sulla propria casella mail. Personalmente non ho mai amato giocare, nemmeno a tombola in famiglia a capodanno: odio perdere e non ho mai avuto molta fiducia in una particolare simpatia della fortuna nei miei riguardi. Eppure il gioco d’azzardo è la terza industria italiana con un fatturato di 61.4 miliardi, il 4% del nostro PIL e con un aumento della cifra di ben il 429% rispetto al 2000. I giochi che si accaparrano circa la metà degli introiti sono le slot machine e i videopoker.

Mentre una volta il gioco d’azzardo era un fenomeno che interessava una ristretta cerchia di persone, una élite facoltosa che scommetteva in luoghi esclusivi e inaccessibili (a chi non lo ha mai letto consiglierei di leggere “Il giocatore” di Dostoevskji, storia della passione incondizionata per il gioco d’azzardo, vissuta dallo stesso autore), adesso l’azzardo coinvolge gente comune, di tutte le età e di ogni estrazione sociale e cultura, di entrambi i sessi che da soli o in compagnia scommettono e giocano come, dove, quando e quanto vogliono. Secondo un’indagine del sole24ore, ogni italiano spende annualmente in giochi d’azzardo 980 euro all’anno. Considerando i bambini e chi non gioca abbiamo quindi giocatori che rischiano somme molto elevate.

Ormai quello che una volta era considerato esclusivamente un gioco, un modo per socializzare e divertirsi, sta diventando per una certa percentuale di persone una vera e propria dipendenza. Siamo abituati ad associare la dipendenze alle droghe, all’alcol, alle sigarette, invece sono sempre più diffuse le dipendenze senza sostanza, fra cui rientra quella del gioco d’azzardo: circa il 20% di giocatori sono ormai diventati giocatori patologici cioè persone che alla dimensione ludica del gioco hanno sostituito la dimensione compulsiva giocando senza limiti, indebitandosi, mettendo a rischio lavoro e famiglia con gravissimi costi economici, sociali, familiari e lavorativi. E queste persone hanno trovato nella liberalizzazione del gioco on line un aumento dell’offerta per coltivare la loro patologia.

Quello che preoccupa maggiormente le associazioni che si occupano di dipendenze è però l’aumento dei giovani che sono coinvolti nel gioco d’azzardo: si parla di cifre che si aggirano intorno al 47% dei giovani che frequentano le scuole superiori. I motivi di questo aumento nei giovani sono da ricercare nella facile reperibilità e accessibilità che si ha tramite internet, nella pubblicità pressante e massiccia in tutti i siti web, nella comodità di giocare direttamente da casa propria.

Il gioco d’azzardo patologico (GAP) è stato riconosciuto dall’OMS come patologia già dal 1980, ma questo non è stato mai recepito dall’Italia. E come l’Italia potrebbe recepire un’indicazione di patologia quando da esso riceve un introito? Lo stato italiano vieta tutte le forme di azzardo che non ha autorizzato. Peccato che ne abbia autorizzate moltissime e allarga le concessioni ogni volta che deve far cassa: praticamente a ogni finanziaria introduce uno o più giochi, magari mascherandoli dietro il profilo etico dell’aiuto ai terremotati dell’Abruzzo a cui, in realtà, non è mai arrivato nemmeno un euro. E mentre per gli altri prodotti a rischio dipendenza come le sigarette o l’alcol ci sono precisi limiti per la pubblicità o anche il loro divieto, al contrario, nessuna legge o divieto c’è verso il gioco d’azzardo.

L’ultimo dato che riportano le statistiche è che in questo periodo di crisi, le puntate ai giochi d’azzardo sono aumentate. Razionalmente ci si aspetterebbe che si riducessero, invece, più c’è crisi, più si azzarda al gioco, sperando che la sorte porti una vincita che faccia cambiare la nostra vita. E’ la speranza nella fortuna quando ormai ci restano ben poche altre cose in cui sperare, una speranza assolutamente irrazionale, senza nessun fondamento se non quello di arricchire altri e non il giocatore.

Penso sarebbe utile che il problema del gioco d’azzardo venisse trattato nelle scuole e nelle famiglie come per l’alcol o la droga: qualsiasi dipendenza che allontana l’essere umano dalla propria natura portandolo subdolamente a dover dipendere da qualche cosa, a togliergli la libertà di agire coscientemente e razionalmente è da combattere. E non mi si dica che questo toglie la libertà dell’agire personale: se si deve barattare la libertà con una dipendenza, con tutte le conseguenze che ne possono derivare, probabilmente anche certe libertà hanno un limite.

 

 
 
 

CARAVAGGIO

Post n°120 pubblicato il 18 Marzo 2012 da veuve_cliquot

Caravaggio: Vocazione di San Matteo

 

Di questa mia lunga assenza dalle pagine del blog, è responsabile, ma non solo, una permanenza di una settimana a Roma. Potrei definirla una immersione nella bellezza dell’arte, con un percorso che potrebbe intitolarsi “sulle orme di Caravaggio”. Amo molto Roma, ma non c'ero mai stata per una settimana. Spesso ho fatto delle tappe “mordi e fuggi”. Due anni fa ho visto la mostra su Caravaggio alle scuderie del Quirinale e l’anno scorso ho visitato il palazzo Doria Pamphilij, ma in entrambi i casi ero arrivata al mattino e ripartita la sera, con unico scopo questi due itinerari artistici. Altre volte ero andata a Roma ma sempre per soggiorni abbastanza brevi e spesso legati al lavoro, soggiorni che mi avevano consentito qualche mezza giornata per girare soprattutto per le strade e ammirare i monumenti. Questa volta invece ho programmato la mia visita, prenotando i musei vaticani (in passato vari tentativi di entrare senza prenotazione erano stati scoraggiati dalla lunghezza della fila in attesa che circondava le mura vaticane), la mostra sul Tintoretto alle scuderie del Quirinale e palazzo Borghese (anche se già visitato in passato, avevo voglia di rivederlo). E soprattutto avevo identificato le chiese in cui sono esposti quadri di Caravaggio: San Luigi dei Francesi, Sant’Agostino e Santa Maria del Popolo. Dovrò senza dubbio ritornare ai musei vaticani: anche se sono rimasta dentro più di cinque ore, sono così pieni di opere d’arte che una sola visita mi è sembrata assolutamente insufficiente anche perché dopo un po’ la stanchezza e forse l’eccessiva emozione di trovarti davanti a tanti capolavori, non ti permette di gustarli con la dovuta comprensione.

Ma di questo soggiorno ricorderò senza dubbio il Caravaggio. Non sono un esperto d’arte, ma il ritrovarmi davanti a capolavori che avevo solo visto nelle foto dei libri d’arte, mi ha veramente emozionato. Avevo già ammirato Caravaggio nella bellissima mostra che si era tenuta alle scuderie del Quirinale due anni fa, mostra che ricordo ancora come la più bella che abbia mai visto: quello che si vede ammirando i quadri “dal vivo”, nessuna foto d’arte, anche la migliore riesce a farti vedere. Ricordo ancora l’impressione che mi aveva suscitato la “Cena di Emmaus” della National Gallery di Londra: il discepolo che appoggia le braccia ai braccioli della sedia, colto nel momento di stupore nel riconoscere Gesù, aveva un movimento così naturale, da sembrare che si stesse realmente alzando dalla sedia, il movimento che percepivi sembrava sarebbe continuato. Forse sono attimi, momenti che rimangono impressi nella tua mente rimanendo indelebili e facendoti realmente capire la grandezza di un artista e da parte mia un “innamoramento” che credo continuerà per tutta la mia vita.

E la stessa impressione mi ha dato la “Vocazione di San Matteo” a San Luigi dei Francesi: l’espressione di stupore e di sbigottimento di Matteo che ha una mano sul tavolo sopra il danaro e l’altra mano sopra il petto, e che sembra dire “chi, io?”. Ti sembra proprio di udire queste parole, di sentirle attraverso l’espressione del viso e il gesto della mano, tu sei lì che assisti alla scena, fai parte di essa e capisci cosa si sta svolgendo davanti ai tuoi occhi. Indimenticabile, come indimenticabili sono tutti gli altri quadri del Caravaggio che ho potuto ammirare.

Ma tralasciando questa immersione nella bellezza che ho avuto in quei giorni romani, voglio fare due considerazioni.

Mi ha stupito che quadri di questa bellezza e importanza venissero offerti alla vista di chiunque senza nessun “riparo”: è vero che gli altari in cui erano esposti avevano una bassa grata metallica che impediva di arrivare troppo vicino all’opera e probabilmente se si fosse superata la grata sarebbe suonato qualche allarme, ma se qualche pazzo (non potrei definire altrimenti una persona simile) avesse portato della vernice o dell’acido da lanciare contro queste opere, avrebbe facilmente raggiunto il suo scopo. Nessun vetro o altra barriera le protegge, sono spesso sistemate in piccoli altari che rendono anche difficile poterle ammirare comodamente (è il caso della Crocefissione di San Pietro e della Conversione di San Paolo a Santa Maria del Popolo) e assolutamente senza protezione. Inorridisco all’idea che queste opere possano essere rovinate da qualcuno e dentro di me ho sperato che non fossero gli originali ma delle belle copie. Ho pensato dentro di me che sarebbe meglio magari trasportarle nella sacrestia e metterle in una sicurezza maggiore, lasciando sull’altare solo delle copie (in molte chiese spagnole ho visto capolavori messi proprio nelle sacrestie, dietro una parte a vetro che ne impediva qualsiasi avvicinamento e magari con un piccolo biglietto d’ingresso che potrebbe andare alla chiesa che li possiede). Mi sembra quasi che in Italia, l’eccezionale quantità e qualità delle opere d’arte che possediamo determino una certa incuria e fiducia nel prossimo che forse è un po’ eccessiva.

L’altra considerazione invece riguarda le persone che mi circondavano: ho visto ben pochi che ammiravano con i propri occhi questi quadri esposti nelle chiese: i quadri venivano visti attraverso l’obiettivo dei cellulari o delle macchine fotografiche. Molte persone arrivavano già con il cellulare puntato sul quadro, esso veniva inquadrato e la foto scattata, nemmeno un momento per “vedere” con i propri occhi il quadro. Gli occhi non guardavano direttamente il quadro, ma in mezzo c’era l’obiettivo, come se gli occhi non riuscissero a vedere ma necessitassero dell’obiettivo come gli occhiali per un miope. E questo l’ho visto soprattutto nei giovani ma anche in persone intorno ai 30 anni. Già entravano nella chiesa con il cellulare o la macchina fotografica puntata, come se fosse un’appendice del proprio corpo. E scattata la foto, questa veniva rivista e quindi si allontanavano, nemmeno un momento per gustare e farsi “entrare dentro” la bellezza di quello che avevano davanti. Guardavano senza vedere, senza sentire cosa il pittore aveva voluto dire. Non so se rivedere queste foto sul p.c. possa ancora dare delle emozioni, ma senza dubbio per vedere delle foto di opere d’arte, ci sono fotografi professionisti che riescono a farne di migliori. Personalmente non ho scattato nessuna foto di opere d’arte, limitandomi in questo soggiorno a qualche scorcio panoramico dalle vie o a qualche facciata di palazzo alcune volte incorniciata da un po’ di verde. Senza dubbio le foto di questi ragazzi verranno messe su F.B. per essere condivise dagli amici, ma, attraverso queste foto, quanta emozione verrà condivisa, quanta bellezza verrà data da chi non l’ha vista perché troppo occupato a fotografare?

 

 
 
 

INVIDIA

Post n°119 pubblicato il 22 Febbraio 2012 da veuve_cliquot

T. Gericault: L'invidia

 

Il giorno della pubblicazione dei redditi dei ministri del nostro governo, il sito che li pubblicava è rimasto bloccato per l’eccessivo numero di accessi in poche ore. Che il reddito dei nostri ministri interessasse a così tanta gente, c’era da aspettarselo, ma le ragioni per questa curiosità, sinceramente, non le capisco. Dal tipo di lavoro o di incarichi che avevano prima di diventare ministri, credo che nessuno pensasse guadagnassero poche migliaia di euro al mese. Invece per me la notizia più eccezionale è stato scoprire quanto guadagna il ministro della giustizia. E ho provato una grande ammirazione per questa persona: che un avvocato DONNA riuscisse a guadagnare così tanto vuol dire che è un bravissimo avvocato (o bravissima avvocatessa?).

Invidia e ammirazione, i due piatti della stessa bilancia. O si invidia o si ammira. Io ho sempre avuto una certa propensione ad ammirare chi ritenevo migliore di me, ma mi rendo conto che è molto più facile invidiare che non ammirare. La religione cattolica ha messo l’invidia tra i vizi capitali, eppure è l’unico vizio che non dà piacere, che si ritorce verso chi lo prova. Per gli psicologi, più che un vizio è un tentativo di autodifesa del proprio essere quando esso viene minacciato dal confronto con gli altri. Se la conoscenza di se stessi deriva dal confronto con gli altri, l’invidia è quel meccanismo di difesa che protegge quando vedi che gli altri sono migliori di te, che hanno avuto più successo, più fortuna, più di ciò che tu non hai avuto. Non hai avuto o non sei riuscito ad ottenere con le tue forze? Ma questa domanda è dura da affrontare e allora è meglio invidiare che riconoscersi incapaci: si cerca in tal modo di salvaguardare se stessi demolendo l’altro.

E in un mondo dove uguaglianza e successo sono i due parametri su cui si regge ormai la nostra società, ecco che l’invidia diventa un sentimento che non conosce classi sociali. Se ci è stato insegnato che siamo tutti uguali, perché l’altro ha più di me? E si invidiano le cose più assurde, dalla bellezza fisica (su cui né chi ce l’ha, né chi non ce l’ha, ha particolari meriti o colpe), alla famiglia in cui è si nasce (disgraziatamente non possiamo sceglierci i genitori), alla posizione sociale. Ma chi invidia pensa mai che colui che ha raggiunto quella posizione forse ha lottato e penato molto più di chi non l’ha raggiunta? Si dice spesso: quello è stato fortunato e lo si invidia per questa fortuna che è capitata a lui e non a noi. Ma dietro tante fortune, quanto impegno, lotta, abnegazione, sacrifici ci sono?

In un mondo che ha fatto dell’uguaglianza il proprio vessillo, il rendersi conto che non siamo tutti uguali ha degli effetti devastanti. E la fabbrica dei desideri che crea la pubblicità, fomenta l’invidia verso ciò che vediamo e noi non riusciamo a possedere, ma altri, sì

L’unica possibilità per combattere l’invidia è riuscire a fare autocritica, convincendoci che se non siamo diventati come colui che invidiamo, probabilmente non avevamo le sue stesse capacità o forse il nostro nastro di partenza era messo molto più indietro del loro. Rinuncia non come sconfitta ma come razionale accettazione dei propri limiti. Ma è un esercizio estremamente difficile in una società che pubblicizza solo il successo, la bellezza, la gioventù, il potere, dove non c’è limite ai desideri. E allora non ci resta altro che invidiare. Ma anche ammirare. Si può sempre scegliere, questa è la grande fortuna che hanno gli esseri umani, avere la possibilità di scegliere. Scegliere di invidiare continuando a soffrire, a rodersi dentro inutilmente oppure ammirare magari cercando di emulare chi si ammira?

 

 

 
 
 

TECNOLOGIA

Post n°118 pubblicato il 12 Febbraio 2012 da veuve_cliquot

J.F. Millet: Il forno

 

La neve  caduta così copiosamente in questi giorni mi ha fatto capire quanto dipendiamo dalla tecnologia: senza luce, telefono, acqua, le persone sono rimaste realmente isolate e in pericolo. Non mi riferisco alle grandi città, ma ai paesi di montagna dove la neve, raggiungendo e superando il metro di altezza, ha realmente messo in difficoltà interi paesi e le persone hanno veramente rischiato di morire di fame e di freddo: ormai siamo totalmente dipendenti dalla tecnologia e diventa difficile cavarsela senza.

Eppure credo che in passato di nevicate come queste e di gente bloccata dalla neve ce ne sia stata, ma si riusciva a sopravvivere. Forse non si aspettava la protezione civile o i vigili del fuoco che portassero aiuti e si prevedeva già di poter rimanere bloccati dalla neve per molto tempo.

Quando non c’era la corrente elettrica o il gas a illuminare o scaldare le case, in estate si facevano le scorte per l’inverno. Ci si scaldava con il fuoco dei camini per cui nella bella stagione si metteva da parte la legna per l’inverno, si facevano scorte alimentari, olio, farina con cui fare il pane in casa, forme di formaggio da conservare, frutta appesa ai tralicci dei tetti da mangiare in inverno. Per l’acqua si faceva sciogliere la neve e si andava a dormire quando faceva buio per non consumare l’olio della lampada e, soprattutto, i vecchi non vivevano soli ma abitavano con figli e nipoti che li accudivano. Si era abituati a cavarsela senza aiuti e si viveva normalmente senza televisione, telefoni, p.c.

Adesso, (e non faccio una critica a coloro che finalmente raggiunti dai soccorsi si lamentano di essersi trovati in situazioni drammatiche perché anch’io mi sarei trovata nella stessa situazione), ci si rende conto che senza tutte queste cose che la tecnologia ci ha messo a disposizione, non si può più vivere, si rischia veramente di morire. Non rimpiango nemmeno quei tempi, allora la vita era veramente dura e si moriva molto facilmente per banali infezioni e la selezione naturale faceva sopravvivere solo i più forti, ma, senza dubbio, erano persone che sapevano cavarsela con poco e soprattutto prevedendo sempre il peggio.

Adesso non prevediamo più che qualche “incidente” possa privarci di tutte quelle cose che riteniamo indispensabili e la tecnica è diventata una condizione imprescindibile dell’esistenza umana: abbiamo smesso di pensare a come scaldarci, illuminarci, far la spesa: basta pigiare un bottone, ruotare una manopola, prendere la macchina e andare al più vicino supermercato e tutto è risolto. E siamo perciò diventati incapaci di vivere senza quel tasto, quella manopola, quella macchina. Abbiamo demandato alla tecnica di fare quello che ormai siamo incapaci di fare. E diventiamo impotenti quando una linea telefonica o un traliccio della corrente elettrica viene bloccato dalla neve. Non abbiamo più camini in casa o anche se li abbiamo c’è solo un po’ di legna per qualche serata fra amici. Abbiamo il surgelatore per le scorte alimentari, ma se va via la corrente elettrica, esso resiste al massimo 48 ore. E chi sa più impastare il pane o ha un forno per farlo cuocere? E soprattutto, come passare il tempo senza televisione o internet?

Ma la tecnologia in questi giorni sta mostrando i suoi limiti e noi siamo diventati dipendenti da essa come un neonato dalla sua mamma: dobbiamo solo sperare che essa non ci abbandoni, rischiamo veramente di morire di freddo e di fame!

 

 

 
 
 

POLEMICHE

Post n°117 pubblicato il 06 Febbraio 2012 da veuve_cliquot

C. Monet: Strada sotto la neve

 

Il termine polemica deriva dal greco "πολεμικός" che significa "attinente alla guerra", e designa quindi una sorta di guerra, per lo più verbale, condotta contro un avversario detto bersaglio della polemica…. Le caratteristiche del discorso polemico sarebbero le seguenti: 1) l'individuazione di un avversario, detto appunto bersaglio della polemica, che spesso viene nominato, nell'enunciato, con uno o più atti di aggressione;2)  l'allargamento del discorso: dai fatti, dall'argomento originale della discussione, si passa alle parole del bersaglio (spesso l'interlocutore stesso). Il discorso dell'avversario viene analizzato, ripreso e strumentalizzato ai propri fini. 3) un ulteriore, secondo allargamento del discorso: partendo dai fatti e dall'enunciato contrario si passa a parlare anche del bersaglio stesso, inteso come persona… “

Ho preso questa definizione da Wikipedia perché ormai la parola “polemica” è diventata di uso comune nei giornali e nei telegiornali quando succede qualche cosa. Dopo qualsiasi disastro, disagio o fatto fuori dal comune, subito si inizia a parlare di polemiche. Che un treno ritardi, che una nave affondi, che nevichi un po’ di più, dal secondo giorno ci sono le “polemiche”: sulle carenze, sui ritardi, sui soccorsi.

L’ultima riguarda la nevicata su Roma, sui ritardi nel togliere la neve, sulle code che si sono formate “paralizzando” la città. Io capisco che a Roma nevichi ogni 25 anni, ma credono che nelle altre città (Torino, dove abito, per esempio), la neve sia stata tolta in due ore o che il primo giorno che ha nevicato non ci siano stati disagi, incolonnamenti, ritardi per tutti? Senza dubbio a Torino siamo un po’ più organizzati, molte persone come la sottoscritta nel mese di Novembre montano le gomme da neve (più per il ghiaccio che non per la neve) come anche i bus, abbiamo molti più spazzaneve, ma la neve dai marciapiedi non la toglie il comune ma i negozianti o i condomìni, i bus vanno a rilento e anche chi va in macchina, sa che quel giorno dovrà andare a passo d’uomo e arriverà in ritardo e passerà magari ore incolonnato. Per poi non parlare dei parcheggi, bloccati dai mucchi di neve accumulati dagli spazzaneve per cui parcheggiare diventa difficilissimo. Non so come la pensino i romani ma credo che un po’ di disagio 30 cm di neve lo provoca  ovunque per cui le polemiche tra il loro sindaco e la protezione civile mi sembrano non dico sterili, ma piuttosto ridicole.

Ma 30 cm di neve richiedono l’intervento della protezione civile? Questa è la prima domanda che mi sono posta. Ma cosa doveva fare la protezione civile, prendere in braccio le signore romane e far loro traversare la strada? Che poi il sindaco abbia capito 3 cm e non 30, non mi sembra che questo abbia provocato morti e distruzione! A Roma nevica raramente quindi è normale che siano meno attrezzati che non Torino o Milano, per cui anche quando quel po’ di neve arriva, credo stupido gridare all’incompetenza e all’incapacità dei singoli che non hanno previsto il disagio dei cittadini.

Le polemiche di cui si parla sempre dopo qualche evento che esce dal normale fluire degli eventi mi sembrano lo specchietto delle allodole per allontanare i cittadini dai reali problemi. Invece di polemizzare per 30 cm di neve a Roma, perché non si polemizza su tutti i soldi che prendono i partiti come rimborsi elettorali? La neve a Roma è arrivata come “il cacio sui maccheroni” per distoglierci dalla vergogna che il casi Lusi ha sollevato: dalla quantità di denaro che viene tolto ai cittadini sotto la voce “rimborsi elettorali”, all’inettitudine di chi dovrebbe governarci e che non si rende nemmeno conto che rubano anche a “casa loro”.  Sono letteralmente rimasta a bocca aperta quando ho sentito la cifra che viene data ai partiti come “rimborso” (il finanziamento era stato eliminato con un referendum…che finezza linguistica sostituire la parola finanziamento con rimborso!) per le spese elettorali e che viene dato anche a partiti che non esistono più. Sinceramente che Lusi li abbia rubati, non me ne frega nulla: erano già soldi rubati! Sì, rubati agli italiani, alle loro pensioni, agli asili nido, agli handicappati, alle scuole, alle borse di studio, ai monumenti, alla ricerca. Per quel che mi riguarda si potrebbe anche fare a meno delle campagne elettorali: per eleggere sempre gli stessi senza possibilità di scelta, a che serve fare una campagna elettorale? Tanto, che scelta abbiamo?

 
 
 

HABITAT

Post n°116 pubblicato il 04 Febbraio 2012 da veuve_cliquot

A. Ligabue: Leopardo nella foresta

Ho scoperto in questi giorni che esiste una nuova specie animale cui necessitano leggi speciali affinché possa continuare a vivere: il genere femminile della specie uomo. Anche il nuovo governo non si è tirato indietro in questa campagna salvagenere promulgando leggi che danno  sgravi fiscali a chi assume donne. Come donna mi sento anch’io protetta da questo WWF politico, dopo essermi sentita protetta dalle leggi sulle quote rosa… e per fortuna sono una donna, come uomo mi sentirei piuttosto discriminato! Ma pensare di avere un avanzamento di carriera solo perché appartengo a un certo genere o pensare di essere assunta perché chi mi assume pensa agli sgravi fiscali, e non perché ritiene che io sia brava, che merito, che è giusto che avanzo nel mio lavoro, che non ha importanza il genere a cui appartengo, sinceramente mi offenderebbe!

Ma ritorniamo agli animali in via di estinzione. L’estinzione è dovuta principalmente a due cause: o perché questi animali vengono uccisi per qualche loro peculiarità (per esempio la pelliccia), o perché si sta distruggendo il loro habitat. Penso che il genere femminile possa appartenere al secondo caso (credo che nessuno ci spari addosso per farci estinguere). Ma qualcuno dei politici che si fa bello proponendo queste leggi, ha mai pensato perché la donna viene discriminata nel lavoro? Pensano che un padrone non ci assume perché pensa che non siamo abbastanza intelligenti o buone lavoratrici? No, le donne non vengono assunte perché il “padrone” teme le assenze per gravidanze o per la cura dei figli. Allora, invece di fare leggi che io trovo discriminatorie, perché non puntare sull’habitat? Aumentare per esempio i posti negli asili nido, imporre nelle grosse aziende di fare dei nidi per i figli delle dipendenti, aiutare finanziariamente chi è costretto ad assumere baby sitter per badare ai figli, un orario magari leggermente più flessibile (non ridotto) per poter accompagnare i figli a scuola, avere a disposizione persone che in caso di malattia dei bambini o vacanze improvvise, possano “tamponare” la situazione. Se quello di cui si lamentano le donne è la discriminazione, queste leggi, secondo me, le discriminano ancora di più. Le donne sono intelligenti e lavorano tanto quanto gli uomini, ma sono sempre le incombenze familiari che bloccano le carriere. E mentre fino a qualche anno fa dopo una certa età, con i figli cresciuti si poteva pensare di far vedere quanto si valeva, adesso con l’allungamento sia dell’età pensionabile che della vita, spesso queste donne, dopo aver cresciuto i figli, si ritrovano a dover badare ai propri vecchi.

Le donne dovrebbero lottare per ottenere queste cose, essere solo assunte non basta, alla fine, se la situazione non cambia, si ritroveranno sempre dietro agli uomini perché dovranno badare alla famiglia e saranno sempre discriminate sul posto di lavoro perché saranno spesso assenti o perché devono "scappare" per badare ai figli.

E non credo nemmeno che la soluzione sia quella di spingere i padri a prendere congedi per i figli. Alla fine il problema dell’assenza dal lavoro sarebbe sempre lo stesso e magari fra qualche anno avremo qualche parlamentare che farà una legge per promuovere le assunzioni dei padri!

 

 
 
 

GIOVANI

Post n°115 pubblicato il 27 Gennaio 2012 da veuve_cliquot

Miniatura medioevale: Università

 

In questi giorni, in conseguenza dell’infelice frase del vice ministro del lavoro, si parla molto di giovani e di università. Ma vorrei raccontare un fatterello personale: proprio nei giorni scorsi, chiacchierando al telefono con la mia migliore amica (che sfortunatamente non abita nella mia città), mi dice che il figlio, laureatosi a Luglio in architettura, ora lavora. Lavora a 200 km da casa sua per uno stipendio di 1200 euro, presso uno studio di architettura. Il commento di sua madre è stato: è poco, ma è giusto che inizi a lavorare e si faccia un’esperienza. Premetto che la madre è una persona che sta piuttosto bene economicamente. Adesso vi parlo un po’ di questo ragazzo: presa la laurea breve in tre anni, chiese a sua madre “un anno sabatico” e per sei mesi se ne andò negli Stati Uniti per imparare bene l’inglese e riuscì a mantenersi facendo il muratore e il cameriere. Poi tornò in Italia e continuò a guadagnare qualche liretta con dei lavoretti fra cui quello di modello fotografico (è un bel ragazzo). Si è quindi iscritto ai due anni successivi di università e il secondo anno, in uno scambio di studenti tra università, è andato per un anno a lavorare (solo vitto e alloggio) in uno studio di architettura di Shangai. E’ ritornato in Italia, si è laureato e ora lavora a 1200 euro al mese, lavoro di cui è felicissimo. Lavora lontano da casa e divide un appartamento di due stanze con un amico di liceo che è ingegnere.

Perché ho raccontato tutta questa storia? Forse per scandalizzare qualcuno che un ragazzo con laurea e con queste esperienze ora lavora per una cifra simile a quella di un operaio? No, sia io che sua madre commentavamo che era giusto che lavorasse anche per questa cifra minima (la madre potrebbe mantenerlo senza problemi) perché così entrava nel mondo del lavoro, faceva esperienza e senza dubbio avrebbe poi trovato qualche cosa di meglio. Dimenticavo, questo ragazzo ha 26 anni e si è laureato alla facoltà di architettura di Milano. Sua sorella dopo la laurea in scienze motorie ha seguito un corso pluriennale di osteopatia, pagandosi gli studi facendo l’insegnante di nuoto, e ora ha aperto uno studio che funziona piuttosto bene.

Potrei dire lo stesso di mio nipote che dopo i tre anni a scienze politiche ha trovato lavoro presso una casa editrice a 1200 euro al mese (deve essere una retribuzione standard) e intanto prosegue all’università per portare a termine gli altri due anni in perfetta linea con gli esami. O di sua sorella che è  entrata in banca dopo un concorso in cui non ha avuto nessuna raccomandazione (essendo figlia di mia sorella, di questo sono sicura),e che ora è riuscita, dopo 4 anni di contratto a tempo definito ad aver rinnovato il contratto a tempo indefinito. La compagna di mio nipote, laureata in matematica, insegna come titolare di questa materia in un liceo.

Ma solo io conosco ragazzi che vengono da un altro pianeta? O sono ragazzi che si sono impegnati tantissimo (di questo sono sicura), che non hanno mollato, che piuttosto sono andati via da casa capendo che rimanere sotto casa li avrebbe penalizzati (anche i figli di mia sorella non lavorano dove abita la madre), o forse non appartengono alla categoria degli sfigati. Ma forse “sfidare la sfiga” potrebbe essere una soluzione. Forse pensare che anche se ci si laurea in scienze politiche questo non implica automaticamente un posto in un’ambasciata, o se architetti la proposta di costruire il nuovo centro culturale di Berlino ma si può anche cominciare a lavorare in una piccola casa editrice o in un piccolo studio di architettura a 1200 euro al mese, che questo è solo l’inizio e l’esperienza porterà in futuro qualche cosa di meglio.

Questi ragazzi di cui vi parlo sono ragazzi concreti, che hanno programmato il loro futuro, che hanno lasciato blaterare le loro mamme quando andavano lontano (tanto c’ero io che le dovevo consolare al telefono!), che hanno capito che il lavoro non ti viene a cercare ma devi essere tu che lo cerchi e accetti, almeno all’inizio, delle paghe non certo all’altezza dei propri studi e lontano da casa. Evidentemente in queste storie c’è un mix di capacità, forte impegno negli studi, volontà, accettazione, capacità di vedere oltre e di prendere come esperienze da sfruttare, le situazioni attuali. Evidentemente dietro alle spalle hanno avuto famiglie che li hanno sostenuti in questi loro sforzi, che hanno avuto fiducia in loro, che hanno dato loro coraggio: sapevano che, se andava male, c’era sempre il “paracadute”. Ma del “paracadute” non hanno avuto bisogno, hanno solo utilizzato la fiducia che da questo affetto derivava loro.

In fondo io credo che chi vale, prima o poi, riesce a far vedere questo valore; basta non lasciarsi andare, continuare a lottare, non pensare solo che va avanti chi ha raccomandazioni: forse per queste persone tutto sarà più facile, avranno il posto sotto casa e uno stipendio iniziale più decente. Ma è inutile continuare a rimuginare questa manfrina, queste persone esistono e nella nostra Italia sono ineliminabili ma i giovani non devono farsi scoraggiare da queste situazioni, devono andare avanti sapendo che prima o poi chi vale avrà la sua parte. E magari, vedere le cose da un punto di vista differente: invece di parlare di “sfruttamento”, perché non parlare di “prima occasione”? Forse riuscire a dare alle parole un significato diverso e vedere le cose da un punto di vista differente, potrebbe essere un piccolo aiuto.                         

 

 
 
 

VECCHI

Post n°114 pubblicato il 25 Gennaio 2012 da veuve_cliquot

Rembrandt: Ritratto della madre

Qualche giorno fa è comparsa sui giornali la notizia della scoperta a Roma di un ospizio-lager dove dieci anziani con disturbi mentali (dall’Alzheimer alla schizofrenia alla demenza senile) venivano maltrattati e vivevano in un ambiente con carenze igienico-sanitarie inconcepibili per qualsiasi società che si ritenga civile. Ma quello che faceva maggiormente notare l’articolo era la reazione dei parenti quando la polizia li ha avvisati di andare a riprendere questi anziani: nessuno li voleva più indietro. Brutta espressione, ricorda piuttosto un pacco postale che viene rinviato al mittente. La cosa che trovo orribile è che nessuno di questi parenti si sia reso conto delle condizioni in cui versavano questi anziani nella “casa di riposo” per cui pagavano 1200 euro al mese: vuol dire che li avevano abbandonati senza andarli mai a trovare. Ma il fatto che non li volessero riprendere a casa non lo trovo così immorale. E’ facile giudicare senza rendersi conto delle situazioni familiari.

Tutti gioiamo dei progressi della medicina che ha allungato la vita: non si muore, per lo meno nei paesi più sviluppati, di malattie infettive, si curano l’80% dei tumori, agli infarti si sopravvive. Ma la medicina è assolutamente impotente davanti alla degenerazione del tessuto cerebrale che questo allungamento della vita ci ha regalato. Ma questi anziani, per lo Stato, sono solo pensioni, per la maggior parte minime, che deve erogare. E questo davanti a una struttura di società mononucleare che vive in appartamenti piccoli e appena sufficienti a quella famiglia, e spesso con entrambi i coniugi che lavorano. Lo Stato ci dice solo che la vita si è allungata e che quindi deve aumentare l’età in cui si va in pensione, ma la maniera in cui si è allungata la vita, allo Stato interessa poco: che sia un brillante 90enne che ancora riesce a vivere da solo o un malato di Alzheimer, a lui non interessa. A lui interessa solo che deve erogargli una pensione: che poi sia sufficiente per l’anziano in buone condizioni psicofisiche o assolutamente insufficiente per chi deve essere seguito minuto per minuto, non è affar suo. E spesso le famiglie si ritrovano a dover gestire questi anziani, difficili da un punto di vista psicologico ma spesso ingestibili da un punto di vista finanziario. Per lasciare nella sua casa un anziano con questi problemi (che sarebbe la cosa migliore), servono almeno due badanti, e quanti si possono permettere almeno 2500 euro al mese, senza considerare le spese di vitto e le altre spese che la gestione di una casa determina? E i posti che lo stato mette a disposizione nelle proprie strutture, sono assolutamente insufficienti, e quindi tutto ricade sulla famiglia. Conosco famiglie che con sacrifici immani e con grande affetto riescono a fa sì che i loro anziani siano ben curati e seguiti, ma non credo che questo problema debba essere esclusivamente risolto dalle famiglie. E’ un problema che lo stato si deve porre davanti a una situazione che diventa sempre più difficile sia per l’allungamento della vita, sia per l’aumento dell’età pensionabile: andando in pensione prima era possibile anche badare agli anziani: adesso si andrà in pensione quando avremo bisogno noi di essere seguiti. E la crisi attuale, non facilita la situazione. In Italia credo ancora che la famiglia sia un valore per tutti e che gli anziani abbandonati siano veramente una minima percentuale, ma è un problema che nel tempo crescerà sempre più e si arriverà al punto che anche la famiglia più affettuosa si ritroverà nell’impossibilità di poter gestire questi anziani. E’ questo un problema sociale, un problema che tutta la società deve affrontare e cominciare a pensarci già da ora, non quando la situazione sarà a livelli di guardia ormai ingestibili. Invece quello che si vede è una sempre maggiore riduzione dei soldi che vengono erogati per il welfare, pensioni che si ridurranno sempre più negli anni futuri, nessuna politica di sviluppo e di programmazione per i prossimi decenni riguardo alla vecchiaia.

E quando assisto a quelle interminabili discussioni tra bioeticisti laici e cattolici sui problemi di inizio e fine vita,  vorrei che si soffermassero un po’ di più su quello che c’è tra questo inizio e questa fine, su come sia necessario, per quella che si chiama società civile, pensare che non solo la nascita e la morte sono importanti, ma è importante anche vivere e morire dignitosamente. E non è un problema che lo Stato può scaricare sulla singola famiglia.

In tutte le carte sui diritti dell’uomo o nelle encicliche è scritto che la vita è un valore non negoziabile. Ma credo che nemmeno la dignità della vita sia un valore negoziabile.

 

 
 
 

VOYEUR

Post n°113 pubblicato il 23 Gennaio 2012 da veuve_cliquot

Fra Angelico: San Nicola salva tre condannati a morte

Una cosa che mi ha stupito nel naufragio della nave Concordia è stato il numero di filmati da cellulari e cineprese effettuati dai passeggeri. Personalmente non saprei se in quei momenti in mezzo alla folla in preda al panico, su una nave inclinata, in mezzo al mare e con una gran paura addosso, avrei pensato di tirar fuori la mia macchina fotografica che porto sempre con me in vacanza ( sempre che non fosse in cabina) per fotografare quanto succedeva. E non credo nemmeno che tra i passeggeri ci fosse qualche inviato della Reuters o della Magnum per cui quelle foto, per chi le fa per mestiere, avrebbero rappresentato uno scoop. Ricordo che mi colpì allo stesso modo vedere le persone che sfilavano davanti al cadavere di Giovanni Paolo II e che con i cellulari scattavano foto. Oggi invece ho visto su internet la foto di due fidanzati che andati all’isola del Giglio “in pellegrinaggio” si sono messi sorridenti in posa in modo tale che venisse ripresa anche la nave naufragata.

Dire: io c’ero e mostrare magari le foto  sembra sia diventata una moda comune che supera la paura ed evidentemente anche il buongusto. Questo gusto di vedere e ora, con le nuove tecnologie, filmare quanto succede, anche se quello che è successo non è una cosa piacevole, non è certo una moda recente: ai tempi dei romani si andava al Colosseo a vedere i gladiatori o i cristiani sbranati dalle belve, nel medioevo si andava ad assistere ai roghi delle streghe o degli eretici, poi alle impiccagioni o alle ghigliottine. Anche piazzale Loreto a Milano era pieno di gente nel 1945. Cosa spinge gli esseri umani ad assistere a spettacoli che non credo siano molto piacevoli da vedere? Cosa spinge giovani, madri di famiglia, persone che probabilmente non farebbero mai nulla di male a nessuno, ad assistere a spettacoli fondamentalmente poco piacevoli? Cosa spinge a vedere alla televisione certe trasmissioni in cui la gente piange, si lancia accuse, litiga, soffre, mostra quello che fino a pochi anni fa si preferiva non mostrare per ritegno, vergogna, riservatezza? Non ho altra spiegazione se non pensare che siamo un mondo di voyeur, ci piace guardare dal buco della serratura e più la persona dall’altro lato dello schermo mostra le proprie emozioni, più siamo soddisfatti. Ormai il Colosseo è diventato lo schermo della nostra televisione

Ma sembra che più passa il tempo, più bisogna elevare la soglia dell' emotività: bisogna risvegliare l’emozione in chi guarda, ricercare la sensazione violenta. Siamo ormai intossicati da stimoli, da sensazioni che non nascono dal nostro interno ma ci vengono servite su un piatto d’argento. Sensazioni non nostre ma risvegliate con immagini che ci propina la televisione o internet. Gli imperatori romani organizzavano gli spettacoli nei circhi per imbonire la folla...e ora, per quale motivo ci propinano certi spettacoli?

Ma tutto questo ha un senso per noi spettatori? Cosa ho in più nel momento in cui vedo gli ultimi istanti di vita di un dittatore o il viso pietrificato di una madre a cui viene annunciato in diretta il ritrovamento della figlia morta? Ho bisogno veramente di queste emozioni per sentirmi viva? Sono così carente, vuota di emozioni personali da sentire il bisogno di introiettare quelle di uno sconosciuto? Oppure sto semplicemente facendomi imbonire da qualche imperatore?

 
 
 

LEGGERE 2

Post n°112 pubblicato il 21 Gennaio 2012 da veuve_cliquot

G. Reni: San Giovanni

“L’atto della lettura è a rischio. Leggere, voler leggere, saper leggere, sono sempre meno comportamenti garantiti. Leggere libri non è naturale e necessario come camminare, respirare, mangiare, parlare o esercitare i cinque sensi. Non è un’attività primaria, né fisiologicamente né socialmente. Viene dopo. E’ una forma di arricchimento, implica una razionale e volontaria cura di sé. Leggere letteratura, filosofia e scienza, se non lo si fa per professione, è un lusso, una passione virtuosa o leggermente perversa: un vizio che la società non censura; è sia un piacere che un proposito di automiglioramento. Richiede un certo grado e capacità di introversione concentrata. E’ un modo per uscire da sé e dall’ambiente circostante, ma anche un modo per frequentare più consapevolmente se stessi e il proprio ordine e disordine mentale….” E’ questo l’incipit di un articolo di Alfonso Berardinelli comparso alcune settimane fa sul domenicale del sole24ore. Il titolo di questo articolo è “Tutti i pericoli della lettura” e, in effetti, l’articolo si pone come scopo di mostrare come la lettura può far correre dei rischi, come i libri possono essere contagiosi in quanto contribuiscono alla costruzione dell’identità personale.

 

 

Partendo da questa tesi, quanti di noi o quanto la società si è fatta influenzare da certi libri? Pensiamo un momento a quanto i libri di Marx hanno influenzato la storia degli ultimi 100 anni o i Vangeli quella degli ultimi 2000? Come sarebbe il mondo se non fossero esistiti questi libri? E noi nel nostro piccolo quanto ci siamo lasciati influenzare dai libri? Quante madame Bovary ci sono in giro che si sono riempite la testa di libri rosa e che ancora sognano il grande amore di un principe azzurro che travolga la loro vita?

Eppure leggere è ancora il più grande atto di libertà che l’uomo può fare. Non per nulla ogni dittatura ha sempre messo al bando dei libri perché essi avrebbero potuto minare il pensiero unico che ogni dittatura porta con sé. Il conoscere il pensiero altrui, allarga il nostro pensiero. Cosa saremmo se non avessimo letto certi libri? Quanto i libri che abbiamo letto hanno influenzato il nostro modo di vedere la vita, il nostro pensiero? Quante emozioni sono scattate dentro di noi perché le avevamo già vissute attraverso i libri?

 

 

Noi non siamo solo ciò che i geni hanno deciso che noi fossimo e neppure solo ciò che le esperienze che abbiamo vissuto ci hanno dato. Siamo anche quanto abbiamo letto, il nostro pensiero è anche quello che i libri hanno costruito dentro di noi. Il nostro mondo interiore è costruito anche attraverso il pensiero di altri che sono vissuti prima di noi, che hanno scritto dei libri e che ci hanno trasmesso il loro pensiero attraverso di essi e che noi abbiamo ricevuto leggendo i loro libri.

Infine, come saremmo se avessimo letto libri diversi da quelli che invece abbiamo letto?

 

 
 
 

OPERA DEI PUPI

Post n°111 pubblicato il 14 Gennaio 2012 da veuve_cliquot

 

Finalmente l’opera dei pupi è ritornata!!! Non che ne sentissi la mancanza ma un po’ di sano divertimento miscelato a sana rabbia, era da un po’ che non lo provavo. Dopo mesi che la prima notizia dei telegiornali era lo spread, i titoli in borsa, l’interesse su BOT e BTP, immagini di ministre con capello da phon casalingo e tailleur assolutamente fuori moda, serissimi uomini in perfetti abiti monopetto che se anche tentano una battuta è così criptica da doverla pensare per almeno dieci minuti e che le uniche notizie che sanno darci sono piuttosto deprimenti…ebbene, l’altra sera finalmente le divinità dell’olimpo di palazzo Chigi, si sono risvegliate e hanno finalmente fatto risentire la loro voce e la loro arroganza impedendo l’arresto di uno dei loro accusato di contatti con la camorra. Ma vi sembra il caso che una divinità venga arrestata? Non ha mica ammazzato sua madre o l’amante? Ha semplicemente fatto affari con una delle migliori aziende italiane, vogliamo fargliene una colpa? E come osano dei miseri mortali, quel genere che lavora (orrore!!!!) tutti i giorni, anche solo pensare che una divinità possa essere arrestata per così poco? Ma non sia mai detto che il numero di parlamentari si debba ridurre di una unità (è stata una delle ragioni per cui alcuni hanno giustificato il divieto all’arresto), cosa ne sarebbe della democrazia? Da questo punto di vista posso anche dar loro ragione: se si dovessero arrestare tutti quelli che fanno affari poco chiari, ho il vago sospetto che il numero dei deputati si ridurrebbe in maniera così drastica da impedire loro di rovinare con le loro leggi l’Italia. Ma vi sembra il caso?

Ebbene sì, per una sera l’opera dei pupi è ritornata a recitare per farci capire che anche loro esistono ancora e che fanno ancora qualche cosa, almeno per giustificare lo stipendio che continuano a guadagnare dopo aver demandato ad altri quello che avrebbero dovuto fare loro. E lo hanno fatto con la solita arroganza di sempre, facendoci capire che noi siamo qua a cercare di conciliare il pranzo con la cena, mentre loro sono occupati a difendersi fra di loro per impedire che una divinità diventi un povero mortale che, se accusato di qualche cosa, rischia la galera. Loro no, LORO sono deputati della Repubblica Italiana, uomini al disopra di tutto, leggi comprese. Ho pure il sospetto che si ritengano anche al disopra di Dio, ma meglio non lo dicano, potrebbero far incavolare la Chiesa!

 

 
 
 

CRISI

Post n°110 pubblicato il 10 Gennaio 2012 da veuve_cliquot

C.D. Friedrich: Viandante sul mare di nebbie

Sto trascurando il mio blog in questo periodo, me ne rendo conto. Ma è come se una patina grigia sia caduta su ogni cosa che ci circonda, almeno è questa la mia impressione. Ogni discorso, ogni conversazione, ogni commento sui giornali o fra amici gira sempre intorno alla stessa cosa: la situazione politica ed economica che stiamo attraversando. Forse, vivendoci dentro e dovendo subire in modo passivo qualche cosa che fino a un anno fa nemmeno immaginavamo, immersi nella nostra società dei consumi che sembrava non dover avere nessun limite, ci troviamo impreparati ad affrontare una realtà diversa. Adesso che invece ci si trova davanti a una realtà ben diversa da quella sperata, forse è giunto finalmente il momento di fermarsi un attimo a pensare se ciò che lasciamo sia veramente il meglio o se forse non era poi così importante. Personalmente non ho dei grossi problemi economici, mi dispiace solo veder allontanare l’età in cui sarei dovuta andare in pensione, sapendo che saranno anni in cui perderò molte delle mie energie fisiche e quindi avrò molta meno voglia di fare le cose che già immaginavo di poter fare. Ma questo è un problema che affronterò quando sarà il momento. Quello che invece vedo ora è come un senso di smarrimento, di incapacità di riposizionarsi sotto un punto di vista diverso e non immaginato. Chissà come questo periodo verrà giudicato fra 50-60 anni, forse come un cambiamento epocale in cui tutta una struttura di società che ci sembrava inamovibile è invece cambiata. Quando ero piccola, avevo un padre che lavorava con l’ideale di veder studiare le proprie figlie, sapendo che l’istruzione avrebbe portato loro un benessere economico maggiore del proprio e un innalzamento nella scala sociale. Così è stato, il sogno dei miei genitori si è avverato. Ma quanti genitori ora pensano ancora che l’istruzione possa portare maggior benessere del loro ai propri figli? E’ come se si siano perduti i punti di riferimento delle generazioni passate e non si riesca a vederne di nuovi. Si comprava la casa con sacrifici e si mettevano da parte i soldi per aiutare i propri figli a farsi la loro. Invece ormai quei soldi servono solo a mantenere dei figli che non riescono a trovare lavoro. Si sapeva che quei figli sarebbero rimasti nello stesso paese o città e si sperava di veder crescere i nipoti e curarsi di loro. Ma ormai l’idea del lavoro “sottocasa” è solo una pia illusione: spesso se i figli trovano lavoro lo trovano a centinaia di chilometri e i nipoti si vedono a Natale. Un mondo spesso di vecchi soli con figli lontani e nipoti che non conoscono quasi i loro nonni.

Non so se tutto questo sia giusto o sbagliato, forse è solo diverso e forse abbiamo solo bisogno di ricreare dei punti cardinali verso cui orientarci. Un modello di società sta forse crollando e sicuramente a questo se ne sostituirà un altro forse migliore. Ma è un po’ difficile per chi in tutti questi anni ha vissuto immerso in un certo modello, poter pensare e forse adattarsi a un modello diverso.

Quello che trovo più difficile sarà ricostruire quei valori morali che negli ultimi anni sembravano ormai essersi persi ma che in passato, nei grandi momenti di cambiamento, erano però rimasti come filo conduttore tra il vecchio e il nuovo: il senso di responsabilità, di dignità personale, l’educazione, il rispetto, il credere in ideali e valori che, rimasti come punti di riferimento nei secoli passati, sono ormai quasi scomparsi in questo nostro mondo che ha fatto del consumismo sia materiale che morale, il proprio punto di riferimento. Nella nostra società in cui l’individualismo è diventata la nuova religione, in cui la responsabilità personale e la solidarietà verso gli altri non sono più prioritarie e ciò che è diventato prioritario è la soddisfazione dei propri desideri e non dei propri bisogni, la crisi economica è solo la punta dell’iceberg di una crisi dell’individuo che si ritrova così impoverito non solo di soldi ma di valori.

Riuscire a recuperare un po’ di quegli ideali, di quei principi ci potrebbe aiutare a superare questi momenti di crisi, ripensando che i veri valori non derivano dal denaro che possediamo, ma da quello che ognuno possiede dentro se stesso.

 

 
 
 

ARANCE

Post n°109 pubblicato il 26 Dicembre 2011 da veuve_cliquot

P. Cezanne: Natura morta

 

Nei giorni precedenti il Natale, mentre giravo per la città alla ricerca dei regali da acquistare mi è ritornato alla mente un episodio di tanti anni fa, circa trenta. In quel periodo vivevo all’estero e avevo fatto amicizia con un gruppo di polacchi, tutte persone laureate con ottimi posti di lavoro nel loro paese che si trovavano nella stessa città in cui io abitavo per effettuare degli stages. Parlando di regali di Natale, mi dissero che in Polonia, un regalo molto apprezzato per loro erano le arance. Davanti al mio stupore mi spiegarono che nel loro paese era ben difficile trovare arance (c’era ancora, in quel tempo, il muro di Berlino), per cui esse diventavano un regalo molto apprezzato a Natale. Nel momento in cui mi sono ricordata di questo episodio mi sono ritrovata a rimpiangere di non poter regalare delle arance ma di essere costretta a cercare regali assolutamente superflui e spesso inutili.

Per me il Natale è ormai diventato questa ricerca estenuante del “regalo” che nella maggior parte delle volte si risolve nel regalare qualche cosa di superfluo. Alle persone che mi sono più vicine chiedo se hanno necessità di qualche cosa ma difficilmente ottengo una risposta: viviamo in un regime di vita in cui ormai ci manca solo il superfluo, non il necessario. Anche se si regala un maglione o una camicia è semplicemente l’ennesimo maglione o camicia che si accumulerà agli altri che già riempiono i nostri armadi. Anche i bambini ormai vivono sommersi nei giochi e ogni nuovo gioco è semplicemente uno in più.

Ma vi siete mai resi conto, passando davanti a una scuola elementare, di riuscire a capire chi è figlio dell’industriale o chi è figlio dell’operaio? Ormai tutti i bambini hanno il giubbotto o lo zaino omologato alla moda del momento. Quando io frequentavo le elementari, in un piccolo paese agricolo negli anni sessanta, riuscivi a distinguere al volo il figlio dell’avvocato dal figlio del contadino, il primo con il bel cappottino di panno e la scarpina lucida in pelle, il secondo con il maglione pesante fatto a mano dalla mamma e lo zoccolo infilato in un paio di calzettoni pesanti. Ora invece tutti possiamo con più o meno sacrifici, avere tutto. La società dei consumi non si basa più sull’alto reddito ma sull’omologazione anche a costo elevato.

Qualche sera fa a Ballarò il direttore generale di una grande catena di supermercati disse che in questo anno di crisi si era ridotta la spesa per gli alimentari mentre invece era aumentata la spesa per gli smatphone. Gli italiani quindi riducono la spesa per i bisogni primari ma non quella per le cose superflue. Ma c’è veramente questa necessità di connettersi con internet ogni momento, di scattare foto o ascoltare musica con un apparecchio il cui scopo principale sarebbe di telefonare? Non se ne può proprio fare a meno? Oppure possedere uno smartphone diventa sinonimo di apparire in una società che ha fatto del consumismo la sua nuova divinità, in cui il “bisogno” di queste merci viene creato artificialmente dalla pubblicità, in cui il progresso tecnologico è talmente rapido che ciò che era stato acquistato un anno fa è ormai obsoleto e se vuoi essere “à la page” devi sostituirlo con il nuovo modello. Ormai non abbiamo più nemmeno il tempo di consumare ma solo quello di mettere da parte. E in questo continuo sostituire gli oggetti pian piano si finisce per riconoscersi negli oggetti che si posseggono: io sono in quanto posseggo questa o quella cosa, io sono perché appaio come possessore di questo o quello. In questa cultura del consumo dove nulla è durevole, pian piano dagli oggetti si passa ai rapporti fra gli uomini dove l’”usa e getta” fa ormai parte sia delle amicizie che dei rapporti sentimentali.

In questi mesi si sta parlando tanto di crisi, tutti ne siamo un po’ terrorizzati, ma forse questo potrebbe essere il momento di ripensare a cosa sia realmente necessario e a cosa sia superfluo. Forse, ormai costretti dalla riduzione degli stipendi e quindi della possibilità di spendere, possiamo cominciare a pensare che lo smartphone non è poi così necessario.

Chissà che non potremmo anche noi cominciare a regalare arance!

 

 
 
 

NOSTOS

Post n°108 pubblicato il 21 Dicembre 2011 da veuve_cliquot

Negheb  (Israele)

Sinai (Egitto)

Wadi Rum (Giordania)

Per chi non lo avesse capito, amo le zone desertiche, i panorami scolpiti dal vento, i colori che cambiano continuamente con il passare delle ore, le notti piene di stelle, il fruscio del vento come unico suono. Chi non ha mai visto il deserto forse pensa che è una distesa monotona di sabbia. Non è vero, non c'è nulla di più mutevole dei panorami che le zone desertiche offrono, e soprattutto da nessuna parte puoi ritrovare la pace che essi possono offrire a chi viene dalle artefatte architetture umane, dal rumore, dalla folla sempre in movimento. E' una pace esteriore che si insinua all'interno per diventare pace interiore.

Il deserto ti accoglie e ti fa sentire parte dell'universo: nella sua sempre mutevole unicità, ti dà il senso della tua unicità. Il deserto non mi ha mai annoiato anche quando l'ho attraversato per giorni e giorni, e ritornarci è sempre stato uno dei maggiori piaceri della mia vita.

 

 
 
 

VIAGGIARE

Post n°107 pubblicato il 12 Dicembre 2011 da veuve_cliquot

Van Gogh: La scarpa

 

"Viaggiare non è arrivare,
viaggiare è inseguire lo straniamento,
uscire dall'abituale, dal mondo reale,
esporsi all'insolito, accedere a un mondo immaginativo, fantastico.
Viaggiare è offrirsi all'esperienza dello spaesamento.
Viaggiare è arrendersi all'attrazione del movimento.
Perché è il viaggio stesso la meta, basta percepirlo, sentirlo,
accoglierlo nel suo essere senza limiti, senza confini, senza tempo.
E il viaggio non è mai soltanto un esercizio di evasione,
ma è un teatro di interiorità.

Il nostro viaggio non esige che un bagaglio leggero,
ma sollecita un cuore aperto, un'anima attenta, vigile, consapevole,
per rendere possibile l'ascolto della musica del destino.

La bellezza dello spirito svanisce se non le si prestano cure e attenzioni:
cosa accade a un giardino se non riceve l'acqua e le cure necessarie?
Si secca, imbruttisce.
Per questo nel nostro viaggio,
l'unico nutrimento è l'emozione. "

 

Non so chi abbia scritto queste parole, le trovai sul dépliant che pubblicizzava una mostra sui viaggi che si è tenuta qualche anno fa al castello di Racconigi. Ma mi piacquero  molto e le ricopiai per rileggerle quando capitava.

 

 

Ma quante tipologie di viaggi esistono? Ci sono i viaggi per lavoro, per commercio, per svago, per studio, per conoscenza. Fin dalla giovinezza si siamo trovati davanti a due viaggi emblematici: il viaggio di Ulisse e quello di Enea: il primo viaggia per ritornare a casa e il secondo per rifondare una casa. Il primo vuole tornare a quel che la sua memoria gli fa ricordare, il secondo fugge per rifondare la sua memoria. Entrambi affrontano il viaggio con una consapevolezza che deriva loro dalla memoria. Vanno verso una meta, ma entrambi sanno che in quella meta sta la loro casa. Casa non solo come luogo fisico ma come luogo di memoria come ritorno a una patria interiore.

 

 

Ormai esistono ben pochi viaggiatori, intesi come coloro che affrontano il viaggio per aprire la mente alla conoscenza,  sostituiti dai turisti, coloro che cercano l’evasione e l’emozione da cogliere presto e consumare nell’immediato ma che non determina cambiamenti interiori. Attualmente i viaggi sono diventati solo un mezzo per staccare un po’, vedere cose nuove, ritornare a casa con fotografie e ricordi che nel tempo perderanno i loro colori. Ormai il viaggio ha perso quella sua connotazione di conoscenza che dovrebbe essere la prima caratteristica di esso. Quanto riusciamo a conoscere e capire di ciò che vediamo intorno quando viaggiamo? Credo ben poco, non è facile (direi anche impossibile), in pochi giorni riuscire a entrare nello spirito di un paese, nell’animo della sua gente. Ci limitiamo a guardare, guardare senza capire, guardare filtrando tutto attraverso la nostra sensibilità e cultura. Si è persa l’idea del viaggio come metafora della conoscenza di se stessi, dei propri limiti, delle proprie contraddizioni. Il viaggio è diventato semplicemente un modo per passare qualche giorno in un ambiente diverso da quello a cui siamo normalmente abituati, magari per prendere un po’ di sole in inverno. E dentro di noi continuiamo a portare le nostre abitudini, i nostri conflitti, le nostre consuetudini, quando non pretendiamo di mangiare spaghetti ai piedi dell’Himalaya!

 

 

Il viaggio non dovrebbe avere una meta ma essere un girare senza scopo se non quello di cercare di capire, svuotarci la mente degli ingombri di ogni giorno, un bagaglio leggero e un cuore aperto, come viene detto.

Come scrive Kavafis nella splendida poesia Itaca:  “Quando ti metterai in viaggio per Itaca devi augurarti che la strada sia lunga,fertile in avventure e in esperienze”. Perché lo scopo del viaggio dovrebbe proprio essere quello di accumulare esperienza e conoscenza, possibilità di arricchimento interiore, capacità di capire e di vedere un mondo diverso, percepire che il nostro mondo non è l’unico mondo, ma esistono altri mondi, altri modi di pensare, di vedere la vita, di viverla. Perché solo così potremo diventare più aperti verso gli altri perché solo la conoscenza e la comprensione non ci faranno apparire l’altro diverso e quindi nemico.

 

 

E questo post l’ho scritto per dirvi che farò la turista per una settimana e non la viaggiatrice, perché il tempo è, ahimè, tiranno!

 

 

 
 
 

TASSE

Post n°106 pubblicato il 08 Dicembre 2011 da veuve_cliquot

 

Appartengo a quel 63% che pur dopo la “stangata” che ci ha dato il governo Monti, ha ancora fiducia in esso. Non so se questa fiducia sia dovuta da parte mia al riconoscimento delle qualità di questo governo o sia piuttosto dovuta alla totale sfiducia in qualsiasi politico che vedo seduto sugli scranni del nostro parlamento. Lo so che Monti ci sta chiedendo dei sacrifici molto alti, ma chi ci ha portato a questo punto? Chi ha costretto questo governo a prendere queste decisioni assolutamente pesanti se non chi ci ha governato prima? E non parlo solo dell’ultimo governo ma di quelli che lo hanno preceduto negli ultimi quarant’anni. La crisi mondiale è stata semplicemente la cartina di tornasole che ci ha mostrato quanto il nostro paese fosse fragile davanti alle speculazioni finanziarie.

Ma colpevoli di questa situazione non sono stati solo i governanti ma anche e soprattutto tutte quelle persone che non pagano le tasse. Se siamo a questo punto è anche “merito” loro. L’evasione fiscale raggiunge la cifra del 20% del PIL, ben superiore quindi alle manovre finanziarie che stanno togliendo invece soldi a chi già le tasse le paga. Sono queste persone che derubando il fisco, rubano letteralmente anche a noi in quanto dichiarando poco hanno anche accesso a tutti i benefit del welfare che questa condizione dà loro (non pagano i ticket sanitari, non pagano l’asilo o le tasse universitarie per i loro figli). Ma è mai possibile che si possa accettare che ristoranti e bar abbiano in media un reddito lordo di 8000 euro, i parrucchieri di 11000 o i dentisti di 20000, mentre il 50% dei costruttori edili dichiara un reddito vicino allo zero? A vederli non mi sembrano così “morti di fame”! Se si considera che al lordo bisogna togliere almeno il 20%, questa gente vivrebbe con cifre inferiori alle pensioni minime! E a nessuno è mai capitato di aver bisogno di un elettricista o di un idraulico? Personalmente la loro “visita” mi è sempre costata qualche biglietto da 100 euro. Ero l’unica cliente di quel mese?

Questa gente è la causa principale di quello che ci sta succedendo. E la leggenda metropolitana che se pagassero le tasse non riuscirebbero a vivere è solo una enorme stupidaggine: perché gli altri comuni mortali, pur pagando le tasse, vivono? Le aliquote dipendono dal reddito: se pagano l’aliquota del 41% è semplicemente perché guadagnano più di 50000 euro lordi, come tutti i dipendenti. L’Irpef si calcola dopo la detrazione di tutte le spese date dalla loro attività. Le loro aliquote non sono superiori a quelle dei dipendenti.

Quello che manca a noi italiani è semplicemente il senso civico e l’onestà, il ritenere che le tasse sono un dovere e da questo dovere dipende il benessere comune. Ma questa gente non si vergogna davanti a quei vecchi che sono costretti a vivere con delle pensioni, quelle sì da fame? Non si vergognano davanti agli operai che devono vivere con quello che passa la cassa integrazione? Evidentemente no! Evidentemente si sentono furbi e intelligenti. Non si rendono conto che sono dei ladri, non dei furbi.

Ma anche chi non è ladro, dovrebbe pensare di non diventare complice di questa gente. E per farlo dovrebbe chiedere sempre la ricevuta fiscale. Ma questa gente è anche subdola e ricattatrice: faccio questa cifra senza ricevuta e quest’altra con ricevuta. Chi di noi almeno una volta non ha sentito questa frase? E a volte la cifra, per chi guadagna onestamente poco, risulta allettante e allora si risponde sì e si diventa complici. Questa proposta è un ricatto bello e buono intriso della cattiveria di chi sa che verrà accettato.

Allora anche gli italiani onesti dovrebbero cominciare a svegliarsi pensando di non voler diventare complici di ladri, pensando che se la propria pensione o stipendio non aumenterà, se dovrà pagare ticket sanitari più cari, se il welfare diventa sempre più stringato è colpa loro. E’ vero, in quel momento risparmiamo qualche euro, ma quanti euro ci costerà in futuro?

Finisco con un consiglio a tutti coloro che mi leggeranno perché ritengo che, arrivati a questo punto, non si tratti di delazione ma semplicemente di dovere civico: quando ci capitano davanti queste persone chiamare il 117, il numero della finanza. Personalmente sono veramente stanca (per non dire arrabbiata nera) di dover essere quella che paga sempre, insieme a migliaia di altra gente che sgobba e si ritrova tartassata da ogni manovra di governo (dal blocco dello stipendio all’allungamento dell’età per andare in pensione a ticket sanitari sempre più cari). Cominciamo a diventare un po’ furbi anche noi, non facciamo fare i furbi solo a ladri e ricattatori.

 

 
 
 

DEMOCRAZIA

Post n°105 pubblicato il 20 Novembre 2011 da veuve_cliquot

Salvator Rosa: Cincinnato

 

Non ho mai sentito parlare così tanto di democrazia come in questi giorni in cui si è insediato un governo non democraticamente eletto. Ma ci sembrava molto più democratica l’elezione al buio, in cui si votava un partito ma non il candidato che veniva scelto dai capi, ritrovandoci poi “nani e ballerine” (letteralmente) alle camere o al governo? Si continua a parlare di democrazia sospesa e di governo tecnico. Ma vi sembra un governo tecnico quello che per far passare qualsiasi proposta dovrà passare sotto le forche caudine delle nostre camere in cui rimangono ben inchiodati alle loro seggiole persone che vivono di voti di scambio e interessi personali? Questo sarà pur sempre un governo che nasce per volere dei mercati e forse anche delle banche, ma non saranno né il mercato né le banche né i finanzieri a votare le loro proposte.

Personalmente sono ben felice di avere questo governo: se si presentasse alle elezioni lo voterei senza riserve, per la prima volta vedo al governo gente competente da quel che risulta dai loro curricula. che non ha passato la vita in giochetti di sottobosco politico o a portare la borsa al politicante di turno, a passare da uno schieramento all’altro fregandosene beatamente se chi l’ha votato credeva in un’idea politica e poi ritrova il suo voto in uno schieramento che ha altre idee, che ha sfruttato per fare la bella vita tutti i benefit loro concessi dalla carica disinteressandosi completamente dell’unico compito che era stato loro affidato: governarci cercando di migliorare le condizioni del nostro paese invece di buttarci nel baratro a un passo dal fallimento.

Se la democrazia è quella che ha portato alle camere e al governo certe figure, forse bisognerebbe ripensare questa parola. L’attuale governo è un governo non direttamente uscito dal parlamento ma proposto dal nostro Presidente della Repubblica per ragioni di emergenza perché non c’erano altre alternative. Qualcuno dirà che si poteva andare a votare: ma non pensate che questa via era impraticabile sia per i tempi di attuazione, sia perché probabilmente il centro destra non ce l’avrebbe fatta e il centro sinistra avrebbe avuto una maggioranza estremamente risicata, legata a forze di minoranza (il terzo polo o il SEL o IDV) che avrebbero dato l’appoggio immediato pur di conquistarsi la cadrega per entrare al governo, ma poi avrebbero iniziato a fare i distinguo ad ogni proposta di legge non conveniente per la loro parte (e mi sembra che questa esperienza l’abbiamo già vissuta con il governo Prodi)? Quanto al senso di responsabilità dei nostri politici, ci credo poco: i due partiti di maggioranza hanno capito l’uno che avrebbe perso le elezioni e l’altro che avrebbe avuto una maggioranza troppo piccola che l’avrebbe costretto ad alleanze che sarebbero diventate l’ago della bilancia del suo governo. Inoltre governare adesso avrebbe significato prendere decisioni assolutamente impopolari: meglio che a tirar le castagne fuori dal fuoco ci pensi qualcun altro mentre loro pensano a rifarsi un nuovo look per le prossime elezioni.

Ma la cosa che mi fa più paura è che le leggi che proporrà il nuovo governo (che non ha avuto poteri assoluti) dovranno passare dal parlamento e che il consenso che gli è stato attualmente dato è un consenso contrattabile e ritirabile quando queste leggi toccheranno gli interessi personali o di lobby a cui sono legati i nostri politici: se il governo Monti dovrà contrattare ogni decreto, sarà un disastro. Monti ha parlato di rigore, crescita, equità. Credo che sia su quest’ultima parola che dovrà puntare se vuole che i cittadini continuino ad appoggiarlo: credo che ognuno di noi accetterebbe qualche sacrificio pensando che tutti siamo chiamati a farli e non sempre e soltanto i soliti noti che pagano le tasse fino all’ultima lira e che continuano a chiedersi come mai in Italia circolano così tante auto di lusso o non si trova un posto da affittare nei vari porti turistici sapendo che sono ben pochi coloro che dichiarano redditi che permetterebbero di possedere auto di lusso e barche. Il taglio ai costi della politica e la lotta all’evasione fiscale dovrebbero essere le cose da incentivare: nel primo caso il ritorno monetario non sarebbe alto ma sicuramente avrebbe un significato simbolico molto elevato; nel secondo caso si potrebbero recuperare molti soldi che potrebbero servire per attuare un programma di riduzione delle tasse e di sviluppo.

E’ per questo che spero che l’opinione pubblica, che in base alle indagini demoscopiche è molto solidale con il nuovo governo, lo continui ad appoggiare pur sapendo che qualche sacrificio dovrà essere fatto e che non veda solo i sacrifici personali ma che capisca che questi sacrifici sono necessari per rimettere in sesto il nostro paese e per dare un futuro ai giovani e magari una vecchiaia più serena a noi.

 

 
 
 

SCHIAPPE

Post n°104 pubblicato il 12 Novembre 2011 da veuve_cliquot

Bruegel: Giochi di bambini

Qualche giorno fa ho ascoltato su radio 24 una notizia che mi ha fatto pensare: a Livorno (se non sbaglio) un padre ha scritto al giornale lamentandosi del fatto che suo figlio fosse stato escluso dalla squadra di calcio perché considerato una schiappa e il vescovo della città ha detto di voler creare una squadra di schiappe.

Il fatto che si tratti di bambini per cui partecipare al gioco di squadra vuol dire stimolare in loro il senso di collaborazione, l’aggregazione, l’aiuto, la collaborazione per raggiungere un risultato, mi fa anche concordare con le parole del vescovo, ma credo che una visione del genere non dovrebbero essere poi traslata nella vita degli adulti. Forse questa teoria di formare quadre di schiappe può funzionare nello sport quando si tratta di bambini, ma non nella vita.

Fin  dalla giovinezza, ho sentito gridare nelle piazze che la disuguaglianza era un problema sociale e non personale e con questa idea siamo arrivati all’Italia attuale, in cui una retorica dell’abbasso le disuguaglianze ha portato a un livellamento verso il basso in cui non è il merito ma l’uguaglianza a qualsiasi costo che deve essere raggiunta.

Secondo la costituzione tutte le persone hanno gli stessi diritti, ma questi si riferiscono ai diritti primari, alla salute, al lavoro, all’istruzione, alla legge, ma poi è giusto che chi è più intelligente, chi ha più volontà e dedizione, superi gli altri e questi meriti gli vengano riconosciuti. Invece nella nostra società in cui si è sempre voluto mettere allo stesso livello la schiappa e il genio, si è finito (e questo si vede soprattutto negli organismi statali) per demotivare chi aveva più possibilità di emergere, a innalzare la mediocrità per abbassare la competenza, a far sì che chi dirigesse non fosse il migliore ma quello che, spesso con diritti che gli derivavano da questo malinteso senso di uguaglianza e non da un suo merito personale, riusciva ad “accumulare più punti”.

Ricordo un fatto personale: molti anni fa ho partecipato a un convegno in cui si discuteva di salute e di risorse economiche. Era presente un padre gesuita e gli posi la domanda di come, da un punto di vista morale, davanti a risorse economiche limitate, si dovesse scegliere a chi darle escludendo una delle due persone. Mi rispose “Siamo tutti uguali davanti a Dio, ma non lo siamo davanti agli uomini” avvallando quindi la possibilità di creare una disuguaglianza. Sul momento questa risposta mi lasciò interdetta, andava contro tutte quelle idee di cui eravamo stati imbottiti nel post sessantotto, l’idea di uguaglianza.

A trent’anni di distanza mi sto invece rendendo conto di come nel nostro paese, l’idea di uguaglianza abbia esclusivamente portato a un livellamento verso il basso e di questo la nostra società ne sta pagando le conseguenze: abbiamo tarpato le ali alle nostre menti migliori facendole fuggire all’estero, tenendoci spesso i mediocri e facendoli diventare classe dirigente.

Come dice Baricco (che non considero un grande scrittore ma che trovo splendido come affabulatore), nel suo intervento alla Leopolda, non abbiamo saputo creare una classe dirigente perché abbiamo avuto paura di dire che esistono i migliori ed esistono i mediocri e che la scelta dovrebbe cadere sul migliore: finalmente ho sentito qualcuno che ha avuto il coraggio di superare questo italico tabù: quello di dire che a dirigere bisogna mettere i migliori, non avendo paura di pronunciare questa parola perché, anche se siamo tutti uguali davanti a Dio, non lo siamo davanti agli uomini.

 

 
 
 
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Perché un altro blog? Non credo che il mondo ne abbia necessità ed esso non nasce nemmeno da un mio bisogno di esprimere fatti o sensazioni personali.

Non sarà quindi né un diario personale, né una valvola di sfogo di sentimenti ed emozioni.

Scriverò di fatti, articoli di giornali, libri, frasi che mi hanno fatto pensare, ragionare, riflettere, che mi sono piaciuti o non piaciuti, che hanno risvegliato il mio senso critico e anche qualche rotellina un po' arrugginita del mio cervello.

Sarà il blog di una persona che ritiene ancora di avere un cervello pensante libero da ideologie, dottrine, fedi e prese di posizione o di campo acefale.

 

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