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Post n°27 pubblicato il 21 Maggio 2009 da de_Molay88

Salve a tutti i lettori, il sito è stato definitivamente spostato a questo indirizzo:

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grazie

 

GIUSEPPE BARILE

 
 
 

cioè abbazia di s.Agata - Giuseppe Barile

Post n°26 pubblicato il 29 Maggio 2008 da de_Molay88
 
Foto di de_Molay88

Sant’Agata
 Ho già accennato alle condizioni dell’Abbazia nel XIII secolo, mentre non si è certi intorno alla data di fondazione,quindi, non disponendo di documenti anteriori al 1250, dobbiamo ritenere fondata l’ipotesi della nascita di tale complesso intorno al 1200. Per quanto riguarda invece il XIV secolo, forse per motivi ricollegabili al declino del monastero madre, vi è una totale mancanza di documentazione. Nel XV secolo invece i canonici seguirono dapprima il sistema di sfruttamento e in seguito la concessione enfiteutica dei beni e solo in un secondo momento si rivolsero alla colonizzazione del grande possedimento di S.Agata. I possedimenti di S. Agata erano talmente vasti e floridi che attirarono presto l’invidia di tanti avvoltoi pronti ad approfittare di un momento di crisi dell’Abbazia per tentare di affermare il proprio diritto di possessione. Precisamente nel giugno del 1420 i Canonici ottennero una sentenza favorevole nella causa che li opponeva a uno dei tesorieri di Martino V e ancora, nel 1453, ci fu un contrasto con i vescovi molisani e garganici, in particolare con quello di Civitate, il quale aveva avanzato pretese sul possedimento tremitese di S. Agata. Questo possedimento si estendeva dalla foce del Fortore verso l’entroterra era raccolto intorno all’omonima chiesa situata a circa 4-5 km dal mare. I suoi appezzamenti coltivati erano estesi su una superficie di circa 8-9 miglia per 3 con ricche coltivazioni di vario tipo (vigne , grano ecc); anche l’allevamento aveva un ruolo importante. La tenuta era gestita, secondo il Cocarella e il Petrucci, alla maniera di un’azienda latifondista, con un “Economus” (responsabile), un gruppo di dirigente gubernatore qui dicunt massarios, e altri uomini che rivestivano un ruolo “meccanico” dell’attività della comunità e cioè braccianti, allevatori e artigiani vari . Questo grande possedimento era quasi sicuramente il maggiore mezzo di sostentamento delle Isole che richiedevano a ogni factores di tale tenuta un contributo annuo in prodotti di ogni tipo rilasciando in cambio una speciale ricevuta. Inoltre non tutti i massari potevano vendere liberamente i loro prodotti bensì solo un piccolo gruppo di essi, autorizzato dall’abate di Tremiti, poteva vendere a navi in transito dalla Dalmazia. Non ci stupiscono quindi le parole crude del Petrucci che afferma:<< Questo adottato a Sant’Agata era indubbiamente per Tremiti il sistema di coltivazione migliore, consentendo un notevole profitto e, rispetto ad altri sistemi di conduzione diretta, una certa economia di spese. Inoltre, basato com’era su una tenuta di grande estensione e notevole produttività, rendeva l’intero complesso assai meno sensibile alle crisi della produzione e all’oscillare dei prezzi. In una comunità tutta dedita all’amministrazione dei propri beni, ai traffici, ai rapporti colle autorità politiche locali, la religiosità non doveva certo essere di alto livello >>. L’Abate di Tremiti doveva particolarmente tenere a questo insediamento tanto da avere un locale prettamente a sua disposizione durante i suoi frequenti soggiorni sulla terraferma, come testimonia Mons. Tria:<< …[…] e l’Abate di Tremiti, facendovi quasi di continuo dimora, vi ha una comoda abitazione di un palagio ben formato, nel cortile del quale si trovava la chiesa di S. Agata […] >>. Il vescovo di Larino, da cui dipendeva Serracapriola e tutto il territorio, prosegue ponendosi l’interrogativo riguardo al nome, ovvero S.Agata, dato a questa struttura e riguardo al periodo di fondazione della chiesa: << Ma quando la chiesa di questo titolo che ha dato il nome al casale sia stata innalzata finora non abbiamo potuto porlo in chiaro; e forse ciò sarà da due secoli, perché di essa nella sentenza del Cardinal Lombardo non si fa parola, e molto meno nelle bolle dei Papi Lucio III e Innocenzo IV, che è quanto dire che non se ne fa cosa per tutta la metà del secolo XIII >> . Altra testimonianza dell’intensa attività del casale è espressa dal Lucchino, che menziona la fecondità di queste terre e la cura con la quale tali beni sono amministrati:<< è regolata questa Badia dai canonici regolari di S. Agostino a nome della Badia di Tremiti, di cui è grancia. Quivi essi canonici preparano anche tutte le cose necessarie al vitto per l’isola, dove si trasferiscono. È questo luogo capo di tutti i luoghi a quella soggetti e tanta cortesia esercitano quei padri ad ogni persona che vi capita, così grande come bassa, che non pare cosa di religiosi, ma di ricchissimo principe. Quivi anche gli stessi preparano quel prezioso liquore del succo di regolizia per prelati e signori grandi e amici >>. Col passare degli anni e con l’aggravarsi della situazione politica ed economica del monastero di Tremiti, la crisi colpì anche S. Agata anch’essa soppressa nel 1789. Nel 1806 infine, sotto il governo di Giuseppe Napoleone, S. Agata fu alienata al Marchese Giuseppe de Luca di Foggia (atto del 28 marzo 1811) e oggi gran parte degli appezzamenti di terra appartiene ancora ai suoi eredi. Sembra tuttavia che questa Badia abbia continuato a vivere anche nel 1800 come testimoniano gli scritti del Fraccacreta:<< Vi erano allora 100 abitanti, in 60 soprani e sottani fittati annui carl.30, coll’uscio nel gran cortile. Nella numerazione del 1670 furonvi fuochi 10 >>. Lo scrittore continua la sua descrizione menzionando l’interno e le caratteristiche dell’insediamento: << … Evvi panetteria, vigna e giardino, una fontana e due pozzi due miglia verso il mare, uno detto di bracciale presso Civita a mare, l’altro dei quaranta. I coloni là ripongono le derrate nei magazzini ed in sei fosse nel gran cortile. In quel chiostro evvi la cisterna in mezzo, e la chiesa di Sant’Agata colla porta all’Ovest >>. Si sa che quest’abbazia fu abitata fino agli anni 60’, quando pastori abruzzesi, o delle vicinanze, facevano tappa in questo luogo facendo riacquistare una, seppur lieve, attività all’ormai deserto insediamento. note - bibliografia: << L’insediamento era stato abbandonato fino al 1400, anno nel quale i monaci re iniziarono a colonizzare le terre incolte. In questa ripresa delle attività, l’abbazia (e i suoi possedimenti) fu amministrata sul modello latifondista con un capo responsabile (oeconomus), un gruppo di dirigenti (gubernatores, qui dicunt massarios), alcune categorie di lavoratori tecnici (porcari, pastori, custodi di bestie), e infine una massa di braccianti. In seguito vi erano gruppi di artigiani vari (fornai, calzolai, fabbri e cuoiai ecc…) che dimoravano all’interno del cosiddetto Edificio Centrale. I massari e i custodi di bestie invece vivevano sparsi in varie abitazioni fuori le mura, che nella seconda metà del 1600 ammontavano a venti […] >> - Codice Diplomatico del Monastero Benedettino di Santa Maria di Tremiti, Roma 1960, Armando Petrucci. Memorie storiche ed ecclesiastiche della città e diocesi di Larino, 1744, Tria. Del terremoto che addì 30 luglio 1627 ruinò la città di San Severo e terre convicine, 1630, Lucchino. Il Provinciale- Anno X . n°1. Gennaio 1999 - giornale di opinione della provincia di Foggia, L’abbazia che non c’è più, Silvana del Carretto.
continua....


1. Torre
2. Chiesa
3. Sagrestia
4.Ossario
5.Edificio centrale
6.Porta Carraia
7.Forno
8.Mangiatoia
9.Celle dei monaci
10. Fosso in cortile religioso e fosso in cortile laico

PLANIMETRIA COMPLESSO



 
 
 

Abbazia di S.Agata(FG) - a cura di Barile Giuseppe

Post n°25 pubblicato il 28 Maggio 2008 da de_Molay88
Foto di de_Molay88

La storia
La capitanata, specie nell’alto medioevo, è stata uno dei centri di maggiore esplosione del monachesimo, specialmente benedettino. Le testimonianze di ciò sono tangibili, basti pensare che nel giro di 40-50 km, nel nord garganico, ritroviamo insediamenti monastici quali: S. Agata, S. Maria di Ripalta, S. Giovanni in Piano nei pressi di Apricena, S. Giovanni in Lamis (S. Matteo). Non tutti questi edifici rivestivano una grossa importanza, alcuni erano piccoli distaccamenti di un ben più importante centro (molte volte abbastanza lontano). La ragione di una così grande presenza di edifici religiosi è determinata da due fattori: il primo è rappresentato dalle cessioni, da parte dei duchi longobardi, delle loro terre ai cassinesi, in modo da salvaguardare i loro possedimenti, il secondo invece è dovuto al fatto che la Puglia, e in particolare la capitanata, era da sempre uno dei territori con influenza bizantina tra i più forti della penisola, quindi una marcata presenza della “Vita Benedettina” (e della sua Regola) avrebbe, col tempo, piegato la supremazia del monachesimo Orientale, ricco di acefalia e libertà, per affermare la vittoria della chiesa Latina su quella Bizantina. La presenza così forte di monasteri nell’area garganica (e a nord della Puglia in genere) è altresì importante anche da un punto di vista sociale poiché concorreva a una capillare e immediata influenza sulle città e la popolazione. Dal VII secolo, infatti, si hanno le prime notizie di insediamenti cassinesi in capitanata ed è in questo periodo che si colloca la fondazione dell’abbazia di S. Maria di Tremiti, anche se altri la collocherebbero intorno al IX secolo. L'Abbazia delle Tremiti, pur gravitando nell'area bizantina, non mancò di intraprendere rapporti con i conti Longobardi che, nel timore di nuovi invasori, legavano i propri beni, in tutto od in parte alle istituzioni religiose, per il motivo che spesso delle clausole assicuravano al donatore ed i suoi successori il godimento dell'usufrutto o la libera disposizione dei beni. Ad accrescere il numero di tali donazioni concorreva certamente la fama sempre crescente di San Benedetto e la potenza di Montecassino, ragion per cui le proprietà donate erano ritenute maggiormente al riparo da minacce nemiche . Probabilmente l’Abbazia di S. Agata fu proprio il risultato di una di queste donazioni fatte al monastero tremitese e alla cui storia sarà irrimediabilmente legato. La spiegazione al fatto che i monaci di Tremiti si siano spinti sulla costa può essere ricollegata al fatto che, una volta raggiunta l’indipendenza alla fine del IX secolo da Montecassino, i religiosi si siano trovati nella situazione di dover provvedere con più autonomia al sostentamento e alla cura del complesso religioso in tutte le sue componenti (rifornimenti in cibo, cure architettoniche ecc..). Sulla terraferma potevano infatti contare su grossi appezzamenti di terre coltivate a grano, vigna e frutta. Nulla di più vantaggioso quindi per un monastero arroccato su un’isola a poche miglia da una costa così fiorente quale quella pugliese o molisana. Inoltre proprio l’estrema vicinanza faceva si che ogni trasporto risultasse breve e sicuro da ogni pericolo. Possiamo riassumere dicendo quindi che il primo periodo (circa duecento anni stando ai periodi di fondazione prima menzionati) della vita del monastero di S. Maria di Tremiti, amministrato dall’ordine benedettino, fu un periodo di splendore. Questo splendore però andò progressivamente calando a causa della cattiva gestione dei beni (spesso abbandonati o trascurati) e dei fondi e si svanì del tutto nel 1237, quando il Cardinale Raniero da Viterbo incaricò il Vescovo di Termoli di sostituire l’ordine Benedettino con l’ordine dei Cistercensi del Monastero di Casanova presso Parma. I Cistercensi ebbero il compito di salvaguardare le ricchezze del monastero e di apportare ristrutturazioni architettoniche. Quindi il complesso continuò a essere prospero e le sue ricchezze erano ormai enormi da fare invidia a chiunque. Questo fino a quando, nel 1334, quando un gruppo di corsari di Almissa (Dàlmati) si dimostrò talmente furbo da non tentare un attacco diretto ai danni dell’inespugnabile struttura che campeggia tuttora sull’omonima isola di San Nicola. I corsari infatti, facendosi credere pescatori, si recarono presso i monaci in lacrime annunciando la morte di un loro compagno in seguito a un incidente di navigazione e chiedendo per lo stesso defunto una celebrazione funebre di rito cristiano. I frati accettarono e prepararono tutto per la celebrazione facendo entrare nella chiesa la bara (di pochi ornamenti) e gli sfortunati amici del defunto. Quindi, inaspettatamente, la bara si squarciò e ne uscì fuori il capo del gruppo di corsari. A questo punto iniziò un vero e proprio massacro considerando che i frati erano disarmati, mentre i corsari erano armati anche “ben oltre un massacro…”. Con ciò, molte delle ricchezze del monastero finirono nelle stive delle navi dàlmate. Dopo questo evento, per circa ottant’anni, nessuno, né laico, né frate, ebbe più l’ardire di accostarsi alle Isole Tremiti, fino a che papa Gregorio XII convinse l’Ordine dei Canonici Regolari Lateranensi a mandarvi un primo gruppo di audaci. Anche quest’ordine ebbe il grande compito, forse più di chiunque altro dopo la grande sciagura del massacro dei cistercensi, di ristrutturare il complesso e di garantire una certa autonomia come in passato. Si notano tuttora i segni di questi restauri come la facciata della chiesa (nel 1473) e il rafforzamento e l’ampliamento delle mura protettive. I risultati di tali opere di ricostruzione ebbero i loro frutti quando già dal primo periodo grandi masse di fedeli furono richiamate nuovamente alle Isole e quando nel 1567 l’Abbazia resistette al tentativo di saccheggio da parte di una flotta turca. Anche i possedimenti sulla terraferma si ampliarono e le navi del monastero stesso continuarono a trasportare ogni ben di Dio, ma il pericolo di pirati nell’Adriatico era costante. Fu proprio per questo motivo, assieme alle mutate condizioni politiche nei riguardi degli spagnoli di Napoli, che nel 1672, i superiori della Congregazione tornarono a proporre la vendita delle Isole, questa volta ai Celestini. Nel 1674, mentre si stava trattando, il Viceré di Napoli tornò a opporsi temendo che, per i rapporti tra quell’Ordine e la Francia, le Tremiti potessero subirne l’influenza. La fine di una serie di inchieste e pretese di diritti di proprietà delle Isole si concluse nel 1789, quando Ferdinando IV di Borbone soppresse l’abbazia e i Lateranensi furono costretti a lasciare i loro averi che intanto furono incamerati dal demanio regio. A ripopolare il piccolo arcipelago ci pensarono gli stessi Borboni che v’insediarono dei << lazzaroni>> (vagabondi nelle terre del napoletano) che impiantarono la loro dimora nelle due isole di San Nicola e San Domino. Questa lunga premessa è necessaria per comprendere come le vicende di sant’Agata siano direttamente collegate a quelle dei loro possessori e amministratori tremitesi.

continua...

 
 
 

Post N° 24

Post n°24 pubblicato il 13 Febbraio 2008 da de_Molay88
 
Foto di de_Molay88

 

 

Europa Carolingia (VIII
–IX secolo)

 

In Francia
alla morte di
Clodoevo (481-511), i
suoi figli si divisero l’impero come una semplice eredità. Quindi si vennero a
crearsi tre regni del tutto indipendenti:
L’Astrusia
(che comprendeva la zona della Champagne),
la
Neustria
(tra la Schelda e la Loira) e la Borgogna (tra Loira e Rodano). In seguito a successive spartizioni
di territori, la stirpe merovingica andò via via perdendo potere. Quindi si
diffuse la consuetudine, da parte dei re, di designare dei consiglieri o
funzionari di governo tra le famiglie aristocratiche (
maestri o maggiordomi di palazzo). E fu proprio tra le fila di
questi funzionari che si fa spazio la famiglia degli
Arnolfingi, chiamata in seguito dei Pipinidi, e  che col tempo darà vita alla dinastia dei Carolingi. Col tempo questa famiglia
prese un potere enorme che da li a breve sostituì quello reale del re.
L’occasione più grande la si ebbe nel 687, quando il maestro di palazzo di
Austrasia,
Pipino II di Heristal (679-714),
sconfisse il maestro di Neustria e Borgogna. Si era comportato di fatto come un
re che ricomponesse sotto di se l’unità del proprio regno spezzato.
Carlo Martello (714-41), suo figlio e
successore, mantenne il potere di unificare il regno e difendere la
cristianità. Dichiarò guerra ai Sassoni e respinse i musulmani (battaglia di
Poitiers del 732 che contribuì al declino dei re merovingi che furono definiti
re fannulloni” ). I Merovingi erano
re ormai solo sulla carta, visto che alla morte di Carlo Martello il regno fu
diviso tra i suoi due figli:
Carlomanno
e
Pipino il Breve. E qui vi fu la
svolta: Pipino spinse il fratello a ritirarsi in un monastero e tutto il potere
cadde nelle sue mani. Nel 743
Childerico
III
fu deposto. E nello stesso anno Pipino il Breve inviò un’ambasceria a
papa Zaccaria ponendogli il seguente quesito: se si dovesse il titolo di re a
chi, di fatto, deteneva il potere o lasciarlo a chi, pur avendo il titolo
legale, mancava di potere. La risposta del Papa fu che era giusto dare il
titolo di re a chi di fatto aveva l’autorità. Quindi si creò una sorta di
intesa tra la famiglia ascesa al potere e il Papa che si concretizzò realmente
nel 754. Pipino scese in Italia riconquistò l’esarcato, conquistato nel
frattempo dal longobardo
Astolfo, e
appena conquistato lo donò al Papa che si mise in viaggio verso la Francia per
ungerlo con l’olio santo per consacrarlo re dei franchi ( erano stati unti,e
quindi consacrati, anche sua moglie e i suoi figli Carlo e Carlomanno e
inoltre,con questo atto, i vietava ai franchi di scegliere un re al di fuori di
questa famiglia). L’alleanza con i franchi da parte del Papa era stata una
marcia in più per tutto il mondo ecclesiastico che raggiungeva così una
maggiore sicurezza sul potere temporale e spirituale, fu infatti in questo
periodo che “nacque” (anche se non ufficialmente) quello che verrà più tardi
chiamato << stato della Chiesa>>.
Alla morte di Pipino il Breve, il figlio
Carlo, poi detto Magno, il
Grande
(768-814) aveva ereditato una grande ricchezza e una organizzazione
militare molto salda.
Quindi decise di allargare i confini del regno: continuò
la guerra contro i Sassoni(dopo trenta anni di guerra, finalmente si risolse
con una vittoria), a sud, nell’italia settentrionale sottomise il regno
longobardo e a ovest creò una marca-cuscinetto al confine con la Spagna
musulmana. Di certo non mancarono le sconfitte, come la leggendaria rotta di
Roncisvalle, immortalata dalle Chansos de geste: la Chanson de Roland, composta tra il 1060 e 1100 che celebrerà la
resistenza del suo comandante.

 

In Italia,
dopo la conquista del regno longobardo, l’amministrazione complessiva non era
cambiata e Carlo Magno aveva abbandonato momentaneamente i suoi progetti per
dedicarsi più attivamente alla guerra franco-sassone. Quindi i longobardi, a
gruppi, approfittarono dell’assenza del “rex francorum et longobardorum” per cercare
di riconquistare i territori perduti. Ma Carlo scese nuovamente in Italia e
soffocò le rivolte filo longobarde prima con le armi e poi per mezzo di
mediazioni politiche riuscì ad annettere al suo impero il ducato di Benevento.
A questo punto decise di separare la corona dei franchi da quella dei
longobardi, ponendo re di questi ultimi suo figlio Carlomanno, ribattezzato con il nome di Pipino, che nel 781 ricevette dal Papa l’unzione di re d’Italia.
Carlo Magno si era dunque posto indiscutibilmente come protettore della
cristianità per avere una legittimazione sacra del suo potere e viceversa il
Papa si assicurava una sicurezza forte che prendeva le distanze ancor più da Bisanzio.
Questo “accordo” fu ufficializzato nel 800, quando Papa Leone III fu accusato di immoralità e si rifugiò dallo stesso Carlo
che lo assolse (essendo a capo di una assemblea di dignitari). E solo due
giorni più tardi, nel giorno di Natale, Carlo Magno fu incoronato direttamente
dal Papa come Imperatore dei Romani.
Ovviamente questo fu soltanto un atto di propaganda che legittimò ancor più il
potere della stirpe carolingia, che in verità già era già molto grande.


L'Europa Carolingia - Barile giuseppe

 

 
 
 

Post N° 23

Post n°23 pubblicato il 17 Gennaio 2008 da de_Molay88
 
Tag: Maya
Foto di de_Molay88

LA STELE DI PALENQUE
mitologia Maya

é giunto il momento di chiudere
definitivamente un capitolo della Paleoastronautica

che per oltre quarant’anni è stato avvolto da un fitto alone di
mistero: "l’Astronauta di Palenque".
Nonostante la grande passione che entrambi nutriamo da diversi anni per
la Paleoastronautica e la Clipeologia, abbiamo preso la sofferta
decisione di spezzare una lancia a favore dell’archeologia
tradizionale, fornendo con la presente un’interpretazione esplicativa a
nostro parere di gran lunga più plausibile della popolare ipotesi
extraterrestre e di quella convenzionale.
È nostra profonda convinzione, difatti, che i fautori della prima, del
calibro di Peter Kolosimo ed Erich Von Däniken, abbiano male
interpretato, sia pure in buona fede, il complesso ed articolato
bassorilievo raffigurato sulla pietra tombale e che la seconda sia
troppo approssimativa.
Nel 1974 un congresso di studiosi interpretò il simbolismo della stele
di Palenque come una sorta di transfert artistico-metaforico su pietra
del tema della rinascita spirituale; in tale contesto la figura umana
centrale, identificata con il sovrano-sacerdote Hanab Pakal II°,
sarebbe posta sopra una maschera del dio della pioggia da cui erompe un
singolare albero cruciforme con un serpente bicefalo ed il Quetzal. Il
dubbio tuttavia permane tenacemente.
Da recenti studi condotti da alcuni archeologi e sintetizzati in un
videosupporto integrativo della BBC all’opera "Archeologia: luoghi e
segreti delle antiche civiltà" con il titolo "Maya: il popolo
ritrovato", è emerso che la pietra tombale non rappresenta affatto un
velivolo di origine extraterrestre né l’individuo che sembra pilotarlo
è un paleocosmonauta.
L’inusitato bassorilievo, corredato con numerosi motivi ornamentali che
ricorderebbero moderni elementi strutturali meccanici, è in realtà il
risultato dell’euritmica combinazione artistico-allegorica di sei
bassorilievi, rinvenuti singolarmente ed indipendentemente gli uni
dagli altri in differenti siti archeologici e di cui gli esperti di
civiltà precolombiane hanno stabilito incontrovertibilmente l’esatta
valenza simbolica.
Il lucido contrassegnato con il numero 1 prende in esame il glifo che
nella stele disposta verticalmente è visibile in basso. Considerato
singolarmente tale rilievo rappresenta l’occidente, dove il sole
calante si reca a morire e dove è ubicato l’accesso al regno dei morti.
In un’antica mappa Maya, l’occidente è collocato in basso, proprio come
nella stele ed il nord, simboleggiante la terra della pioggia, è a
sinistra di esso. Il sud, a destra, rappresenta il sole a mezzogiorno,
luogo del calore ed infine l’est, in alto, il luogo dove sorge il sole
e quindi dove ha inizio la nascita o la rinascita.
Secondo la mitologia Maya, i quattro punti cardinali sono uniti da una
gigantesca croce che sorge per divenire l'albero del mondo che collega
il cielo, la terra ed il mondo degli inferi.
Tale croce, riconfigurata secondo i canoni estetici dell’arte Maya e
riportata nel lucido numero 3, simboleggia anche l’albero,
nell’accezione naturalistica del termine, la Via Lattea ed il "Bianco
Cammino", la sacra strada che corre da oriente ad occidente, dalla
nascita alla morte.
Nel lucido numero 4 è visibile un serpente a due teste, simbolo di
Itzamnà, il dragone celeste dei Maya ed allegoria della vita e della
morte mentre il lucido numero 5 mostra il Quetzal, l’uccello sacro
della mitologia centroamericana e odierno simbolo nazionale del
Guatemala. Nel lucido contrassegnato con il numero 2 si nota una sorta
di trono su cui è raffigurato in bassorilievo quello che la maggioranza
degli archeologi ritiene essere la maschera ossea scarnificata del dio
della morte, signore del livello dell’Oltretomba.
L’ultimo lucido, il numero 6, ritrae quasi sicuramente Hanab Pakal II°,
sovrano-sacerdote di Palenque, di cui la stele in questione costituisce
il coperchio del sarcofago che ha custodito per secoli le sue spoglie
mortali.
La chiave per decodificare il complesso simbolismo risultante
dall’unione allegorica dei sei bassorilievi è fornita proprio dalla
presenza di Hanab Pakal II° (fiore scudo, nell’antico e non del tutto
decrittato idioma Maya), che nella rigida e piramidale gerarchia
sociale delle città-stato Maya rappresentava il fulcro dell’universo.
In virtù di tale privilegiata condizione gli artefici della stele di
Palenque lo hanno collocato al centro del bassorilievo. Secondo
l’interpretazione che alcuni archeologi danno della pietra tombale, la
comprensione della modalità ideologica con cui la figura di Hanab Pakal
II° si incastra nel contesto allegorico generato dal mosaico glifico,
scaturisce dalla considerazione che nella mitologia Maya la farina di
frumento rappresenta la materia primordiale ed amorfa da cui tutti gli
esseri umani vengono procreati. Tale credenza nasce dalla sublimazione
della consapevolezza che il mais è la fonte primaria di alimentazione e
se in una qualsiasi cultura il benessere fisico è garantito, allora la
società, l’economia e la potenza militare possono gettare solide
fondamenta su un fertile "pabulum". In tale ottica Hanab Pakal II°
sarebbe quindi identificabile con il dio del mais. La conclusione a cui
siamo giunti dopo aver meticolosamente esaminato il materiale
letterario e filmico in nostro possesso e soprattutto il simbolismo di
cui ciascuno dei sei glifi è portatore, diverge in parte da quella a
cui sono approdati alcuni archeologi e si ispira, accostandovisi per
alcuni elementi, a quella scaturita da ricerche condotte da altri
studiosi, interpretazione quest’ultima a nostro parere più plausibile e
realistica.
Testata d’angolo su cui la civiltà Maya edificò, come del resto tutte
le grandi culture del passato, l’impalcatura religiosa, fu la profonda
consapevolezza interiore che l’anima fosse immortale e che una volta
deperito il corpo fisico si elevasse in cielo in un atto di rinascita
spirituale per continuare ad esistere in eterno.
Secondo il nostro modesto parere, questo iter spirituale è descritto
con dovizia di particolari, probabilmente con intento propiziatorio,
proprio nel bassorilievo della stele di Palenque, di cui Hanab Pakal
II° è la figura dominante e centrale, il fulcro dell’universo appunto.
Egli è raffigurato nell’atto di emergere dall’accesso al regno
dell’oltretomba, allegoria questa della sconfitta della morte e della rinascita
spirituale.
Gli artefici del manufatto hanno voluto conferire alla genesi
escatologica del re-sacerdote una soluzione di continuità attraverso il
"Bianco Cammino" ritraendo Pakal, che proprio a questo punto del suo
viaggio spirituale si identifica secondo alcuni archeologi con il dio
del mais, nell’atto di percorrere in senso inverso rispetto a quando
era in vita la strada che decorre da oriente ad occidente, dalla
nascita alla morte, quindi nell’ottica post mortem da quest’ultima alla
rinascita dell’anima immortale. Il Quetzal, il sacro uccello, simbolo
del cielo, rappresenta la meta finale del percorso spirituale di Pakal
oppure il veicolo grazie al quale egli ascende in cielo dove vivrà in
eterno.
A questo punto ci sembra doveroso passare in rassegna alcuni dettagli
anacronistici che potrebbero ancora instillare dubbi sulla correttezza
della nostra analisi.
I ricercatori di Paleoastronautica hanno voluto vedere nella cintura
cerimoniale di Pakal una moderna cintura di sicurezza, tuttavia tale
interpretazione, se inquadrata nell’ottica allegorica della stele di
Palenque, risulta priva di fondamento.
Da notare inoltre che la cintura in questione è della stessa foggia dei
bracciali che il re-sacerdote indossa ai polsi ed alle caviglie,
bracciali impreziositi da denti di giaguaro.
Il bizzarro copricapo che sovrasta la testa dell’uomo della stele non è
affatto un casco spaziale bensì un copricapo da guerra. Una prova di
ciò è fornita dal rinvenimento in alcuni siti archeologici di
bassorilievi raffiguranti guerrieri con tale copricapo indosso ed il
contesto in cui queste figure sono inserite induce a ritenere che i
copricapi in questione abbiano una valenza bellica.
Un’analisi superficiale della pietra tombale potrebbe trarre in inganno
la percezione visiva di un osservatore poco accorto, creando in lui la
convinzione illusoria che il re-sacerdote azioni con entrambe le mani
una sorta di leve o pomelli, tuttavia è lapalissiano come il presunto
dispositivo di pilotaggio manovrato con la mano sinistra sia in realtà
uno dei molteplici motivi decorativi dell’albero del mondo. La mano
destra invece non afferra alcunché.
Qualche studioso sostiene che l’uomo "cavalchi" il presunto velivolo
che in ragione di ciò è stato da molti identificato con una sorta di
aereomoto.
Risulta evidente, tuttavia, come ciascun arto inferiore individui nello
spazio contestuale del bassorilievo un piano ben delimitato,
raffigurato anteriormente rispetto all’albero cruciforme. Se gli arti
inferiori di Pakal fossero stati ritratti uno per lato sarebbe stato
corretto concludere che il sovrano-sacerdote assumesse effettivamente
la postura di chi conduce una moto o monta un cavallo, tuttavia tale
condizione situazionale non è riscontrabile nel bassorilievo.
Il presunto dispositivo raffigurato in prossimità del naso di Pakal,
proprio in ragione dell’estrema vicinanza ad esso, è stato interpretato
come un moderno inalatore d’aria, simile a quelli di cui i piloti degli
aerei militari usufruiscono quando volano ad alta quota, tuttavia ci
sembra più plausibile considerarlo, anche in questo caso, uno degli
innumerevoli motivi ornamentali che costellano il bassorilievo.
Ad un esame più approfondito risulta chiaro come esso non penetri
affatto nelle cavità nasali del regnante bensì sia posto in
corrispondenza dell’estremità distale del naso senza peraltro neanche
sfiorarlo.
L’esame dei resti di Hanab Pakal II° ha consentito di quantificare la
sua statura in 173 centimetri, quasi 20 centimetri in più rispetto
all’altezza media dei Maya (circa 155 centimetri).
Questa apparentemente anomala peculiarità anatomica non deve essere
frettolosamente ed acriticamente ricondotta alla sia pur remota
possibilità che il sovrano-sacerdote non fosse originario di questo
pianeta in quanto in tutte le culture passate e presenti vi sono
individui la cui altezza è ben oltre la media senza che per questo
portino nella propria struttura cellulare un genoma alieno.
 

 
 
 

Crolla l'Impero Romano d'occidente... inizia il Medioevo

Post n°22 pubblicato il 06 Dicembre 2007 da de_Molay88
 
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Considerazioni terminologiche e cause strutturali della caduta dell'Impero
Sono ormai molti anni che si è finalmente lasciata la convinzione secondo la quale il medioevo fosse essenzialmente un periodo "buio", "oscuro" della storia. Purtroppo però esistono ancora espressioni di questo tipo nel parlare comune o negli articoli, saggi e libri scolastici. Una concezione questa che piano piano si sta sgretolando, ma che certo non fa bene a un 'epoca che ha concorso alla formazione della nostra società moderna.

La parola "Medioevo ", sta a significare letteralmente età di mezzo. Esso abbraccia un periodo di circa mille anni, dal V al XV secolo circa ed è così chiamato perchè comprende l'arco di tempo che divide due mondi, due età: quella classico-antica da quella moderna. Questo periodo è caratterizzato dal fatto che presenta alcuni fattori che non sono riconducibili ne a un mondo classico nè ad un moderno. E' un periodo che ha sicuramente avuto i suoi lati negativi, le sue grandi disgrazie, i suoi errori ma è anche un periodo che ha visto nascere nuovi assetti politici,sociali e ha contribuito al mescolamento delle culture e quindi all'integrazione. Convenzionalmente si è soliti far partire il Medioevo dal 476 d.c. , più precisamente dal 5 settembre dello stesso anno, quando Odoacre, generale di un esrcito mercenario che serviva l'Impero, si fece eleggere dai soldati Capo delle milizie accampate tra Milano e Pavia. Questi quindi, depose e mandò in esilio il tredicenne imperatore Romolo Augustolo,eletto dal padre Oreste,prendendo il potere. Ma Odoacre, a differenza degli altri imperatori, non volle rivestire questa carica. Infatti inviò le vestigia all'imperatore d'Oriente Zenone, riconoscendolo come unico Imperator e considerandosi un funzionario della Pars Occidentalis. Erano forse due i motivi per i quali Odoacre non divenne imperatore: il primo era che lasciare in mano di Bisanzio gli affari occidentali avrebbe fruttato di più alla sua permanenza al potere,il secondo era che forse Odoacre, germanico, non si riconosceva nell'essere capo di una cultura latina che è stata da sempre abituata ad acclamare i suoi capi romani. Detto ciò, possiamo finalmente parlare di un inizio del Medioevo che coincide quindi con la caduta dell'Impero Romano d'Occidente. Questo però è solo il risultato di un processo che gradualmente già dal IV(e ancor prima) ha portato allo
sfacelo dell'Impero. Non pensiamo infatti che l'avvento dei barbari abbia segnato l'inizio della fine... Ma pensiamo che le invasioni barbariche hanno piuttosto messo in evidenza grossi poblemi che erano pronti ad esplodere. Vediamo dunque di descriverli brevemente:

1) Integrazione di più popoli: è importante ricordare che più che la visione violenta di un invasione barbarica, ciò che ha inciso di più è stata l'integrazione di popolazioni germaniche nella società latina. Già prima dell'inizio delle invasioni, molte popolazioni barbariche avevano superato i confini (del Reno e del Danubio), spinte dalla pressione degli attacchi sempre più dilaganti degli Unni a partire dal 320. Lo scontro era inevitabile: da una parte le popolazioni germaniche che avevano uno stile di vita quasi "incontrollato" e molto semplice, dominati e governati da una ristretta cerchia, molto spesso una famiglia. Dall'altra il popolo romano che era abituato tutt'altro: Organizzazione statale, stabilità, commercio fiorente e a un senso comune di civiltà che i germani non conoscevano.

2) Il fattore economico: Verso l'ultimo secolo, l'Impero d'Occidente, poteva già dirsi in decadenza. La migrazione di grandi masse dalle campagne alle città rendeva queste sempre più affollate più di quanto potessero esserlo e ciò non poteva che peggiorare le condizioni igenico-sanitarie. Conseguenza di queste "migrazioni" era anche la progressiva diminuzione di prodotti agrari che aggravò il già tremante sistema di autosussistenza. L'importazione,si, rimaneva sempre uno dei rimedi migliori per far fronte a queste crisi, ma quasi sempre le spese per rafforzare i confini (come dicevamo minacciati dai barbari)erano così enormi da soffocare altre spese necessarie. Inoltre, il controllo del "mare nostrum", e quindi di gran parte della sicurezza del commercio marittimo, era messo in crisi dal graduale affievolirsi dei domini ai confini.

3) Una crisi politica: L'impero degli ultimi secoli non era certo quello dello splendore repubblicano, ma anche quando venivano eletti nuovi imperatori, si continuava a parlare di "res pubblica". Ebbene era abitudine,negli ultimi tempi, che i generali di varie legioni si facessero eleggere imperatori dal proprio esercito tentando così una sorta di "colpo di stato". Ovviamente il fatto non si presentava sporadicamente, basti pensare che nell'arco di cinquant'anni, dal 235, ben ventidue imperatori governarono spesso anche per pochi anni per poi essere assassinati o esiliati.

4)Il fattore religioso: quest'ultimo aspetto è molto importante considerando il ruolo che in seguito ha avuto nel medioevo. L'esplodere del cristianesimo, dopo un periodo di persecuzione, investì anche le cariche più importanti dell'Impero per poi ufficializzarsi all'inizio del IV secolo con l'avvento di Costantino che con l'editto di Milano (313) aveva liberalizzato il culto della religione cristiana. Costantino aveva intuito nella centralità monoteistica della fede cristiana, la legittimazione del suo potere. Il cristianesimo era infatti compatibile con il suo dirigismo teocratico e porsi come legittimatore della fede ai cristiani non poteva che giovare alla sua figura. Oltre a ciò, vennero restituite tutte le proprietà confiscate concedendo ai cristiani la possibilità di gestire ed essere proprietari di beni. La simpatia del culto si fece palese al punto che il vescovo di Cesarea, Eusebio (314-40), nella sua Historia Ecclesiastica, aveva identificato Costantino con il nuovo David dell'Antico Testamento. Il culto si espanse ben presto con grandi risultati tra le popolazioni alle quali mancavano all'appello molto spesso solo le genti che abitavano le campagne, legate ancora a culti naturali, quasi "agrari". A questi fu attribuito il nome di "pagani" da pagi (campagne molto lontante di centri abitati). L'ufficializzazione del cristianesimo si ebbe infine con il concilio di Nicea ( primo concilio ecumenico), che stabilì il dogma della trinità, gettando le basi per un unico e universale culto e con il successivo Editto di Tessalonica (380) indetto da Teodosio che aboliva qualsiasi culto non cristiano ponendo come religione dell'Impero quella cristiana(ciò provocò la distruzione di molti templi, biblioteche e monumenti non cristiani e la persecuzione di altri culti).Inoltre con l'avvento dei barbari (popolazione prettamente ariana) gli scontri si evidenziarono immediatamente anche dal punto di vista religioso.
5)Il fattore militare: L'Impero ormai non disponeva più di un grande e forte esercito ed era spesso costretto a servirsi di mercenari. Ciò cambiò notevolmente le sorti belliche di Roma: il mercenario combatteva per soldi... non per la patria... non gli interessava la Repubblica...

Quindi possiamo fare il punto della situazione asserendo che le invasioni barbariche sicuramente influirono sulla decadenza dell'Impero romano d'Occidente ma non furono la "causa unica" dello sfacelo, bensì fecero da detonatore a tutta una serie di problemi sopra elencati.

Europa al crollo dell'Impero romano d'occidente ( Visualizza CARTINA)




Continua...

Barile Giuseppe


tratto da: appunti di Storia - Barile Giuseppe


 
 
 

MEDIOEVO: accendiamo le luci sui " Secoli Bui" dell'Europa

Post n°21 pubblicato il 06 Dicembre 2007 da de_Molay88
 
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Marco Meschini Quando il professor Cristoforo Keller, in una tarda serata del 1688, vergò l’ultima pagina del suo lungo lavoro, non sapeva d’aver scritto un’opera storica. O meglio, sapeva d’aver composto una storia - Historia, infatti, l’aveva intitolata - ma non immaginava che il resto del suo titolo sarebbe stato un colpo di genio epocale: Historia Medii Aevi, Storia del Medio Evo. Keller - anzi, Cellarius, perché il latino era ancora la lingua nobile, e si usava latinizzare il proprio nome -, docente di storia ed eloquenza in un’università tedesca, aveva d’un tratto inventato un mondo: fra l’Età Antica e l’Era Moderna - o Recente, come la chiamava lui - fra Roma e i moderni c’era stato un lungo intermezzo, una monolitica Età di passaggio. Era “nato” il Medio Evo. Certo, già Giorgio Vasari, nel 1550, aveva distinto tre epoche per la storia dell’arte; e a ben vedere pure l’umanista Flavio Biondo aveva scritto, intorno al 1450, una storia di quei circa mille anni che Keller avrebbe raggruppato con due parole, presto fuse in un unico vocabolo. Ma fu a partire dall’opera del professor Cellarius che iniziò uno dei più duraturi dibattiti culturali che il mondo occidentale abbia mai conosciuto. Da allora a oggi infatti - e son più di trecento anni - storici e filosofi, politici e preti, lettori e appassionati si son dati battaglia sul senso del Medioevo. Così, in pieno Settecento, Voltaire e i suoi epigoni illuministici hanno scaricato sul Medioevo tutto il marcio che passava nelle loro penne: oscurantismo, irrazionalità, intolleranza. Per far risplendere maggiormente i loro Lumi era necessario far calare il buio sopra il passato prossimo; ed ecco che il Medioevo finiva ripudiato perché troppo segnato dalla fede e dalla Chiesa cattolica, l’«Infame», il nemico che si doveva schiacciare per sempre. Contro questa visione si erse l’Ottocento dei romantici: nel Medioevo non c’era forse stato l’afflato unitario della fede, l’impresa immensa delle crociate? Non era forse nato l’amore cortese, non erano sorte le cattedrali? Medioevo diveniva sinonimo di Cristianità, di unione nel nome d’un ideale superiore. Eppure l’Ottocento era anche il tempo delle nazioni europee in lotta le une contro le altre. Ed ecco quindi i francesi a cercare la propria superiorità nazionale nel millennio medievale: le crociate, in fin dei conti, non le avevano fatte loro? E i tedeschi a trovare ovunque, scorrazzando per i famosi mille anni, segni della loro «germanicità» (protestante), da ripulire dal contatto con la cultura latina (cattolica). E l’Italia non derivava forse dal Medioevo i suoi Comuni, capaci di rovesciare a Legnano la tirannia tedesca del Barbarossa? E non era forse l’Austria di metà XIX secolo l’immagine dell’Impero tedesco medievale? Così bistrattato, il Medioevo finì nei manuali di storia come un lungo elenco di papi e imperatori, re e battaglie, finendo con l’annoiare anche lo studente più diligente. E finì obliato, a parte un manipolo di storici che, da un capo all’altro dell’Europa, andavano chiedendosi: «Ma cos’è davvero il Medioevo?». Iniziò una lunga stagione di studi, svoltasi per oltre metà del XX secolo nel silenzio degli archivi a togliere polvere, riportare alla luce le tracce di un mondo sommerso ma non scomparso del tutto. Poi la ruota della Fortuna fece un altro giro. Qualcuno rivelò Il nome della rosa, e fu un bestseller mondiale: i segreti all’ombra dei chiostri medievali ridivennero all’improvviso alla moda, come non erano più almeno dall’inizio del XIX secolo, da sir Walter Scott con il suo Ivanhoe, pieno di cavalieri splendenti, nobili vergini e luridi templari. Già, i templari e i loro inconfessabili segreti. E i tesori dei catari. E i misteri del Graal. Una caccia senza freni s’è scatenata da allora alla ricerca degli enigmi «medioevali». Ma cos’è dunque questo Medioevo? «Il mondo europeo, in quanto europeo, è una creazione del Medioevo»: queste parole di Marc Bloch, lo storico belga che versò il suo sangue contro il nazismo nel 1944, sono il viatico che vogliamo prendere prima di cominciare il nostro viaggio. Perché la storia d’Europa è nata nel Medioevo, dal crogiolo di popoli che si sono scontrati e incontrati su questa propaggine d’Asia, su questa terra che non è Asia e che anzi è Europa, come capivano bene gli uomini che, nel 732 dopo Cristo, combatterono a Poitiers contro un’incursione musulmana: «Allora gli europenses, gli europei, serrarono gli scudi. E vinsero». I mille anni del Medioevo sono il lungo formarsi della civiltà europea, anche se l’Europa non si è fermata con la fine dell’Età di Mezzo. Il Medioevo non si può liquidare con un’alzata di spalle, come se «mille anni fossero un giorno che passa»: sarebbe la protervia di chi si crede Dio, o almeno un dio, e scorda la storia da cui proviene, il maestoso albero sul quale svettano le nostre conquiste. Sarebbe dimenticare che «siamo come nani sulle spalle di giganti», secondo le parole di Bernardo di Chartres, maestro del XII secolo. Rileggere la storia del Medioevo ci porta lontano da noi, nel senso che ci porta in un tempo che certamente è finito: ed è il bello della scoperta di terre nuove, di imprese spesso dimenticate e invece degne di ricordo. Ma soprattutto la storia medievale ci conduce alla riscoperta di noi stessi, delle nostre radici: di ciò in cui abbiamo sbagliato, certo, ma principalmente di ciò che è nobile e grande. È questa la stella che vogliamo seguire nel nostro viaggio, nella vasta selva del Medioevo.

                                                                                             Marco Meschini

Articolo apparso sul: www.ilgiornale.it

 
 
 

Vaticano, pubblicata la pergamena di Chinon sull'assoluzione ai Templari

Post n°20 pubblicato il 28 Ottobre 2007 da de_Molay88
 
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Il 'Processus contra Templarios' è la riproduzione fedelissima di quattro pergamene dove sono annotati 38 verbali di interrogatori ai monaci-guerrieri. Mons. Pagano: ''Non ha alcuna volontà celebrativa e tantomeno riabilitativa'' dell’Ordine del Tempio.


Roma, 25 ott. (Adnkronos/Adnkronos Cultura) – Non si tratta di una scoperta. Così il prefetto dell’Archivio segreto del Vaticano, monsignor Sergio Pagano, ha esordito presentando il volume “Processus contra Templarios”, sgomberando il campo da alcune imprecisioni apparse sulla stampa degli ultimi giorni. ''È il terzo numero di una collana che si chiama ‘Exemplaria Praetiosa’ – ha precisato - inaugurata nel 2000'' e che prosegue oggi con una pubblicazione che non ha ''alcuna volontà celebrativa e tantomeno riabilitativa'' dell’Ordine del Tempio.

È inoltre “del tutto accidentale” il fatto che, proprio quest’anno, ricorra il settimo centenario dall’inizio del processo ai templari. La pubblicazione racchiude al suo interno la riproduzione fedelissima di quattro pergamene, la cui lunghezza complessiva somma 5 metri e mezzo e in cui sono stati annotati 38 verbali di interrogatori.

I primi tre documenti si riferiscono all’inchiesta pontificia sull’Ordine dei templari tenutasi a Poitiers e costituiscono gli esemplari superstiti di un corpus originario di cinque rotoli membranacei. La quarta pergamena rappresenta il documento più importante e intorno al quale si concentra l’interesse degli studiosi e degli appassionati della vicenda. Essa è stata rinventuta solo nel 2001 ed è l’atto originale di assoluzione concessa dai cardinali plenipotenziari del Papa Clemente V al Gran Maestro del Tempio Jacques de Molay e agli alti dignitari templari rinchiusi nel castello di Chinon, da cui prende nome la pergamena.

Il documento in questione, in realtà, era già stato censito nei cataloghi una prima volta nel 1628 e successivamente nel 1912. Tuttavia solo sei anni fa è riapparso fisicamente, grazie alle ricerche di Barbara Frale, officiale dell’Archivio segreto Vaticano. “La grande cosa – ha detto l’archeologo e scrittore Valerio Massimo Manfredi - è la pubblicazione definitiva di questi documentii, sarebbe un film stupendo, ne ho anche parlato con De Laurentis che ha manifestato un interesse di massima. E' un dramma di proporzioni epocali, quasi apocalittiche, con una conclusione di una drammaticità smisurata e un duello all’ultimo colpo e all’ultimo inganno tra un re e un pontefice francesi”.

Il processo ai Templari si svolse infatti per la quasi totalità nel periodo della “cattività avignonese” che vide, dopo gli scontri tra il papato e la monarchia francese, l’arcivescovo di Bordeaux, Bertrand De Got, salire al soglio pontificio con il nome di Clemente V e spostare la sede papale da Roma ad Avignone: era il 1309. Cinque anni dopo, il 18 marzo 1314, “moriva sul rogo Jaques de Molay, l’ultimo Grande Maestro dell’Ordine del Tempio – ha ricordato Barbara Frale - con una condanna per eresia, benché fosse stato precedentemente assolto dall’autorità pontifica. Un cronista dell’epoca riportò la versione secondo la quale prima di morire avrebbe chiamato il re di Francia e il papa Clemente V davanti al tribunale di Dio”.

Proprio da questo episodio sarebbe nata “l‘infinità di leggende” sulla vicenda dei templari, favorite anche dalla “grande perdita di documenti di un processo durato sette anni - ha osservato la Frale - che è stato inoltre un enorme intrigo internazionale in cui si scontrarono l’autorità della Chiesa e quella del sovrano di Francia e di altri sovrani laici desiderosi di smantellare l’Ordine del Tempio, oramai una specie di fossile del tempo delle crociate”. Contrariamente agli scrittori di fantasia “gli storici hanno giocato al ribasso, negando le colpe dei templari”.

La verità, come sempre, sta nel mezzo e proprio l’ammissione delle proprie responsabilità di fronte al papa e il contestuale pentimento degli alti dignitari dell’ordine determinò la loro assoluzione, documentata nella Pergamena di Chinon. “E' questo il contenuto della pergamena ed è veramente sorprendente che sia stata sempre custodita fin dai tempi di Clemente V nell’archivio pontificio e censita già nel 1628 e più tardi in un dettagliato catalogo del 1912”, pur passando inosservata agli studiosi. Forse essi sono stati “depistati” da una serie di eventi, tra i quali la Frale cita gli autorevoli studi di Scottmuller, “che non riconobbero la reale importanza di quell’inchiesta, scambiandola per un’inchiesta diocesana tra le tante celebrate in Francia”. La Frale invece, è stata insospettita dalla presenza tra i giudici di Berenger Fredol, nipote e braccio destro del papa e “l’uomo più importante del collegio dei Cardinali”.

L’intervento di una tale autorità non poteva essere che giustificato dall’importanza della circostanza, che coinvolgeva i Capi dell'Ordina e sarebbe termionata con la loro assoluzione. Dalla vicenda emerge anche una nuova figura di Clemente V, solitamente visto come il “cappellano di Filippo il Bello”. “L’Ordine del Tempio è un pezzo della Chiesa di Roma. Il papa che non poteva acconsentire che venisse distrutto per sottrargli beni da utilizzatre in una guerra contro un altro sovrano cattolico re di Inghilterra era impossibile. Clemente V ha subito il processo contro l'Ordine dei templari, che che in realtà fu sacrificato per evitare l’apertura di uno scisma che avrebbe portato alla formazione della Chiesa di Francia”.


articolo tratto da: www.adnkronos.com

De Molay

 
 
 

Processo ai templari, il Vaticano svela i documenti segreti

Post n°19 pubblicato il 28 Ottobre 2007 da de_Molay88
 
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Settecento anni dopo, qualche sprazzo di verità in più sul mistero dei Templari, i cavalieri dell’ordine nato per difendere i luoghi santi di Gerusalemme e trasformatosi poi in una ricca e potente organizzazione sovranazionale accusata di seguire strani rituali. L’Archivio Segreto Vaticano sta infatti per pubblicare Processus contra Templarios, un volumeprezioso in edizione rigorosamente limitata a 799 esemplari, dove si potranno leggere le riproduzioni fedeli di antiche pergamene, una delle quali scoperta di recente. L’opera sarà presentata in Vaticano, nella sala vecchia del Sinodo, il prossimo 25ottobre alla presenza dell’Archivista bibliotecario di SantaromanaChiesa, l’arcivescovo Raffaele Farina (futuro cardinale), dal Prefetto dell’Archivio Segreto Vaticano, il vescovo Sergio Pagano, e da altre personalità fra le quali il medievalista Franco Cardini e l’archeologo e scrittore Valerio Massimo Manfredi.

Tra le novità più significative, la riproduzione del cosiddetto «monoscritto di Chinon», inedito scoperto nel settembre 2001 dalla studiosa Barbara Frale nell’Archivio vaticano: la pergamena era sfuggita fino a quel momento ai ricercatori a causa di un errore di archiviazione commesso nel Seicento. Il documento getta una nuova luce sulla fine dei Templari e attesta che il Papa di allora Clemente V, non li considerava eretici e aveva cercato in tutti i modi di salvarli dal re di Francia Filippo IV il Bello, vero ideatore della loro messa al bando e del loro annientamento.

«Tra le accuse che vennero rivolte ai Templari - spiega il professor Franco Cardini al Giornale - c’erano quelle di essere stati in qualche modo sedotti dall’islam e attirati dall’eresia catara. Due elementi che non potevano coesistere». Cardini, che parteciperà alla presentazione del volume vaticano, sta per pubblicare un libro intitolato La tradizione templare (Vallecchi Editore, pp. 176, 14 euro), che ricostruisce l’intera parabola dell’ordine cavalleresco arrivando fino alle fantasiose e fumettistiche ricostruzioni del Codice Da Vinci di Dan Brown. «Gli avvocati del re di Francia - continua il professore - non avevano in fondo bisogno di costruire un coerente edificio accusatorio: quel che interessava loro era che fosse efficace e credibile al livello di opinione pubblica. Le accuse erano un segnale per il Papa: il sovrano voleva che l’ordine fosse soppresso e poco importava la verifica delle prove». Un’altra delle accuse riguardava il cerimoniale segreto previsto per l’affiliazione: prevedeva che il cavaliere rinnegasse Cristo e sputasse sulla croce. L’atto,a prima vista sconcertante, poteva avere una sua logica, perché il neofita veniva in questo modo sottoposto alle possibili angherie che avrebbe subito se fosse finito prigioniero dei musulmani in Terrasanta. Cardini non esclude che vi potessero essere «inquinamenti ereticali» nei Templari, ma tende a pensare che si trattasse di «cerimonie scherzose, di carattere quasi goliardico», più simili a pesanti episodi dinonnismo cheaculti esoterici.
Clemente V, che viveva con la sua corte ad Avignone, capì che il destino dei Templari era segnato dalla volontà di Filippo il Bello e finì per sciogliere d’autorità l’ordine in modo da non farlo condannare, pur non assolvendolo per non compromettere i rapporti tra la Santa Sede e la Francia. Il nuovo manoscritto, scoperto dalla dottoressa Frale presso il fondo di Castel Sant’Angelo dell’Archivio Segreto Vaticano, contiene proprio l’assoluzione concessa per autorità del Papa a Jacques de Molay e ai maggiori dignitari del Tempio fatti rinchiudere dal re nelle prigioni del castello di Chinon. Lì si recò una speciale commissione, composta dai cardinali plenipotenziari Bérenger Frédol, Etienne de Suisy e Landolfo Brancacci, per condurre un’inchiesta. Il 20 agosto 1308 l’accusa da eresia venne derubricata a quella di apostasia: lo sputare sulla croce veniva infatti considerata una forma di auto-scomunica. Il Papa era dunque ben convinto che i Templari non fossero eretici e non avessero aderito a dottrine sbagliate. Ma pur assolvendoli, Clemente V non riuscì a salvare loro la vita: de Molay e il suo vice Geoffroy de Charny, saranno arsi vivi sul rogo per volontà di re Filippo.

Tutte le storie riguardanti l’adorazione del Baphomet (immagine dell’androgino alato con testa di caprone sormontato da un pentacolo, la stella a cinque punte) e i rituali esoterici che rappresentano i Templari come una setta iniziatica direttamente collegata con la moderna massoneria non sono invece altro che leggende ottocentesche che hanno avuto una straordinaria diffusione. Anche la connessione tra l’antico ordine cavallersco e i miti sulla custodia del santo Graal è, secondo Cardini, «del tutto arbitraria e insostenibile sotto il profilo storico ». Il libro esclusivo e prezioso che il Vaticano si appresta a editare, come quello - più accessibile - del professor Cardini, sono pubblicazioni serie, utili a chi vuol conoscere la storia. Per le «patacche», ci si puòrivolgere a Dan Brown e alla lunga schiera dei suoi anticattolici predecessori.


Articolo tratto da : www.ilGiornale.it

de Molay

 
 
 

Verbale inquisitorio - processo a Mercuria

Post n°18 pubblicato il 13 Ottobre 2007 da de_Molay88
 
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27 novembre 1646




Oggi ha avuto inizio il primo processo di stregoneria, al quale io partecipo come cancelliere. E’ ancora vivo il dolore per la morte di mia moglie e di Lisabetta, ma farò del mio meglio per essere preciso e zelante.

Davanti al signor giudice delegato Paride Madernino della giurisdizione di Castellano, nel pretorio di Nogaredo, si è presentata nelle ore tarde del pomeriggio Domenica vedova Camelli, detta Menegota. Interrogata che rapporti avesse con Maria Salvatori, detta la Mercuria, raccontò di una disputa ch’ebbe con lei per un po’ di canape, che essa, secondo l’accusa della Mescuria, le avrebbe rubato.

Le fu chiesto se frequentava il palazzo dei conti di Lordon; rispose che c’era stata qualche volta per portarvi dei gamberi, ma che ci andava più spesso più spesso per chiedere l’elemosina. Disse che ci andava spesso anche la figlia Lucia.



“Avete qualche segno sul corpo?”, le chiese allora il giudice.

“No”, rispose, “se ce ne sarà bisogno, mi spoglierò alla vostra presenza. Ma non fatemi di queste domande, perché io non

sono la Morandina.”

“Perché parlate cosi?”

“perché tutti dicono che la Morandina è una malvagia; ma io non la conosco.”



29 novembre 1646



Interrogatorio di Lucia, figlia della Menegota e moglie di Antonio Caveden. Ha dichiarato di essere lavoratrice nei campi e di fare lino in casa.



“Dove eravate quando vennero per arrestarvi?”

“Andavo a chiamare mio marito. Gli sbirri mi legarono il braccio destro con una corda e mi tagliarono le trecce.

Io dissi allora: ‘Io non sono una strega, per grazia di Dio.’”

“Perché avete detto questo?”

“Perché ho saputo che quando la Mercuria fu arrestata, le furono tagliate le trecce.”

“Conoscete la Mercuria?”

“La conosco benissimo. E’ mia nemica.”

“Le avete mai dato un pomo?”

“No, mai.”

Lucia raccontò poi la storia del canape:

“Quando tornai a casa, mio marito mi rimproverò di aver litigato in pubblico e mi diede un sacco di bastonate. E tutto per

colpa sua.”



30 novembre 1646



Giornata piena di emozioni. Ne sono ancora tutto sconvolto.

Lucia è stata interrogata la seconda volta: ha negato ostinatamente di aver dato alla Mercuria quel tal pomo, destinato a far abortire la marchesina Bevilacqua. Ha negato anche di aver aiutato la Mercuria a stregare Cristoforo Sparamani. Ma sono bastati alcuni tratti di corda per farla confessare. Ciò che ha narrato mi riempie di orrore. Lucia ha confessato che, un anno e mezzo fa, fu invitata a casa di Domenica vedova di Valentino Gratiadei, dove vi trovò la Mercuria, intenta a preparare un vasetto d’unguento.



“Che cosa ne volete fare?” chiese Lucia. “Vogliamo conciar per le feste il signor Cristoforo”, rispose ridendo. “E poiché io non volevo andar con loro”, continuò, “mi toccarono sul naso, e io fui costretta a spogliarmi. Mi accorsi allora che diventavo sempre più piccola e che mi trasformavo in gatto. Tutte sotto forma di gatto, ce ne andammo a casa di Cristoforo, che dormiva solo sul suo letto. Domenica e la Mercuria lo unsero per bene dalla testa ai piedi, ma io non volli aiutarle. Dopo una mezz’ora ritornammo a casa di Domenica, che mise sulla tavola pane, formaggio e un boccale di vino. Ci mettemmo a mangiare e a bere. Esse ridevano soddisfatte.”



Il racconto di Lucia ha sconcertato anche il giudice, che sembrava non riuscisse a capire certe cose.



“In casa di Domenica c’era anche un uomo, e a me pareva che fosse Antonio Gratiadei;

ma la Mercuria mi disse che era il diavolo. A un certo punto, costui abbracciò la Mercuria e Domenica, ma me no.”

“E’ proprio vero che il diavolo non vi ha mai abbracciata?”

“Può essere che l’abbia fatto sotto la forma di mio marito.”

Siete mai stata al congresso delle streghe?”

“Ci sono andata più volte insieme alla Mercuria, con Domenica, con Morandina di Maran, e qualche volta anche con mia

madre.

Il diavolo in forma d’uomo c’era sempre: si conduceva dietro alcuni suonatori e persino un cantante. Noi ballavamo e

facevamo baldoria.”



A questo punto Lucia ha fatto quella tremenda rivelazione, che mi ha atterrito. Ha raccontato che Domenica, un giorno ch’io ero assente da casa, era entrata in cucina e aveva messo sotto il naso di mia moglie una certa cosa. Mia moglie è morta per opera di quella strega! Ma sarà mai fatta giustizia di tutte queste malfattrici e il mio sdegno sarà placato.

In tanto dolore, ho la soddisfazione di avere dalla mia parte il favore del signor giudice, il quale, all’udire quell’orribile notizia, ha comandato che Lucia fosse sottoposta a più severa tortura. Lucia ha urlato come una bestia. Ma che cosa non meritano queste maledette! Anche sua madre è una strega: l’ha accusata lei stessa.



2 dicembre 1646



Oggi il bargello Giuseppe Goriziano ha finalmente arrestato Domenica Gratiadei, l’assassina di mia moglie.

Lucia è stata interrogata di nuovo: ha confermato le sue deposizioni precedenti e ha supplicato di non essere torturata. Da lei ho conosciuto gli ingredienti che sono serviti a manipolare l’unguento con cui mia moglie fu uccisa: olio comune, finocchio pesto, ravano, aglio, polvere di ossi di morti; a tutto ciò il diavolo ha mescolato una certa polvere. Evidentemente, deve essere stata questa l’ingrediente micidiale.



3 dicembre 1646



Interrogatorio della Menegota, madre di Lucia. E’ parsa pallida e debole. Le furono comunicate le deposizioni, fatte contro di lei dalla figlia Lucia e dalla Mercuria. Sembrò sorpresa e negò con insistenza.

Il giudice l’ha messa a confronto con la figlia, che l’ha accusata di aver preso parte allo stregamento di Cristoforo. La vecchia, dopo aver molto riflettuto, confermò le dichiarazioni di Lucia; ma aggiunse altre nortizie, che il giudice non aveva sollecitato.



“Sono stata più volte al congresso delle streghe. Mi specialmente uno, cui partecipai dodici anni fa, in casa di Francesco

Delaiti; c’era anche un uomo vestito da prete, che assomigliava tutto a don Rinaldo; ma era il diavolo.”



E’ possibile che il demonio rappresenti nel Sabba la figura di un prete innocente? E se quello era davvero don Renaldo, può Dio permettere che il suo gregge sia contaminato a tal punto?



4 dicembre 1646



Finalmente ho visto in faccia Domenica Gratiadei, l’assassina di mia moglie. E’ una donna dall’espressione dura e cattiva. Ha negato di aver partecipato allo stregamento di Cristoforo. Messa a confronto con Lucia, è impallidita. Il giudice ha posto sul tavolo i vasetti e le boccette trovate a casa sua.



“Ecco”, ha sostenuto Lucia, “qui dentro avete preparato l’unguento per stregare Cristoforo.”

Domenica rispose:

“Sono incolpata a torto; fate quel che volete; se mi fate morire, sarò condannata ingiustamente.”



Le furono lette le deposizioni della Mercuria.



“Rispondete, dunque; dite che sono vere.”

“Vossignoria”, rispose Domenica con un tono di falsità che non poteva non essere palese a tutti, “scriva che l’ho fatto; non

so però d’averlo fatto.”



Qui la tortura era indispensabile per strapparle da bocca la verità. Il giudice fece il suo dovere, e gliene sarò sempre riconoscente.



5 dicembre 1646



Oggi l’ipocrisia e la perfidia di Domenica so sono rivelate appieno. Quando il giudice le chiese di confermare quanto aveva dichiarato ieri, ebbe il coraggio di sconfessare, affermando che i vasetti trovati a casa sua le servivano per usi comuni. Lucia le rinfacciò che mentiva e, mostrandole certa farina, disse:



“Questa è la polvere che hai adoperato per stregare la moglie di signor cancelliere.”

“Questa è farina”, ribatté l’altra, “e non è vero ch’io abbia rovinato la moglie del signor cancelliere; né mai sono stata nella

sua cucina.”



Lucia ripeté che quelli erano ingredienti per malefizii. Domenica, spudoratamente, sostenne che erano grani di frumento, destinati parte per il suo vitto, parte per le galline.

Scoppiò allora un violento diverbio fra le due donne, che il giudice saggiamente stroncò sottoponendo ancora una volta l’assassina di mia moglie ad alcuni tratti di corda.

Domenica si decise di confessare tutto e dichiarò cose terribili e denunciò altre persone. Perciò il bargello ha ordinato di comparire davanti al giudice per deporre sotto giuramento alle seguenti persone: Cecilia Sparamani e Maria sua figlia, Santo Peterlino e suo figlio Gratiadei, fabbri; Donato Beltrami, servo degli Sparamani; Giovanni Battista dei Maistri e la moglie Caterina.



6 dicembre 1646



Stamani Cecilia Sparamani ha dichiarato che il figlio Cristoforo va soggetto a periodici attacchi di epilessia e che non sono valse le cure dei medici a guarirlo. Consigliata da molto religiosi, nonché dal cappellano del paese, che lo ritenevano fatturato, aveva deciso di mandarlo al Santo di Padova; ma, essendo le strade impraticabili per il cattivo tempo, l’aveva condotto a Brondolo, dove il vescovo aveva fatto gli scongiuri.



“Ora si trova a Trento”, concluse, “dove il padre Macario gli ha dato alcuni suoi bollettini contro le fatture.”

“Sospettate di qualcuno?”

“No, non sospetto di nessuno.”



Si è presentato anche Giovan Antonio Ferrari, detto Scarambea, e ha fatto le seguenti dichiarazioni:



“Qualche anno fa fui morsicato da una vacca e da una vitella in maniera piuttosto grave. Ma non ho mai avuto sospetti di

nessuno.”

“Nemmeno di Lucia Caveden?”

“Veramente di lei non so cosa pensare. Mia moglie l’altro giorno m’ha raccontato che Lucia venne una volta a casa mia a

pregarla ch’io volessi tenere un suo bambino a battesimo; se l’avessi fatto, assicurò, non mi sarebbe più morto bestiame.”



7 dicembre 1646



Deposizione di Gratiadei Peterlino, giglio di Santo, intorno allo stregamento di Cristoforo.



“Hai mai visto gatte per la casa?” gli chiese il giudice.

“Più di una volta”, ha risposto. “E benché io mi provasse a cacciarle, non ci sono mai riuscito. Esse ritornavano sempre e

facevano urli e versacci.”



Anche Domenica Gratiadei ha subito oggi il suo terzo interrogatorio. Dichiarò di non sapere in nessun modo come sia stato stregato Cristoforo, ma confessò finalmente di aver dato alla Mercuria il pomo che avrebbe dovuto far abortire la marchesina Bevilacqua.



13 dicembre 1646



Lucia ha fatto questa deposizione:



“Domenica mi ha confidato che il diavolo le aveva dato un anello in segno di patto e me l’ha mostrato; ci sono incise sopra alcune lettere. Ma ne aveva anche un altro senza pietra, e con quello ha bollato me, qui sulla spalla.”



Le furono mostrati due anelli che furono trovati in casa di Domenica. Lucia dichiarò che erano quelli.

Richiesta dello stregamento dei buoi dello Scarambea, disse ch’era operato ungendo le greppie; e ce ne descrisse il modo.



17 dicembre 1646



Stamane Lucia ha fatto altre orribili deposizioni. Domenica è l’assassina anche di Lisabetta. Con l’aiuto di sua figlia Benvenuta, una ragazza di diciassette anni, la vecchia ha preparato un’insalata malefica, che ha causato la morte della mia figliola. Domenica ha confermato tutto: di aver consacrato al diavolo Benvenuta, di averla indotta a rinunciare al battesimo e agli altri sacramenti, di aver preparato l’insalata malefica. E quando il giudice le ha chiesto il modo con cui aveva imbastito quella fattura, si è indugiata a lungo e con massima indifferenza a descriverci quella pietanza infame, come se ci avesse descritto il piatto più prelibato.



18 dicembre 1646



Lucia è stata interrogata di nuovo. Il giudice dubitava della sua sincerità, poiché gli sembrava che le accuse da lei prodigate con tanta sfacciataggine fossero accuse il frutto di malanimo e di astio personale. Essa ha giurato sui Vangeli di aver detto tutta la verità e ha sostenuto che l’avrebbe riconfermata anche nei tormenti. E cosi ha rinnovato le sue accuse contro Benvenuta, contro Isabella Brentegana e la figlia Polonia, contro Santo Peterlino, contro Delaito Cavaleri: tutta gente dedita alla stregoneria, che più d’una volta ha partecipato al Sabba, che è stata presente alla manipolazione degli unguenti malefici, che s’è trasformata in forma bestiali. Riconfermò quanto aveva già deposto sulle Ostie ricevute dalla Mercuria, ma, presa forse da uno scrupolo, precisò che l’anello con le lettre incise, di cui aveva parlato il 13 del mese, non era stato consegnato dal diavolo a Domenica, ma alla suocera di lei, ch’era anch’essa una strega.

Il giudice irritato dalle sua contraddizioni l’ha fatta torturare. La tortura è durata circa dieci minuti fra urli e gemiti; durante i tormenti ammise di non aver mai avuto Ostie consacrate dalla Mercuria e di non sapere se Santo Peterlino avesse rinunciato al battesimo.

La tortura di Domenica è durata di più, forse mezz’ora. Non ho mai udito dele grida cosi bestiali, ma non mi sono commosso. La vecchia ha ammesso finalmente di aver preparato l’insalata per la mia Lisabetta.



20 dicembre 1646



Benvenuta Gratiadei interrogata la prima volta. Mi è sembrata sincera.



“Che opinione hai di tua madre?” le ha chiesto.

“L’ho sempre ritenuta onesta.”



Il giudice le lesse le denunce di Lucia.



“Mi sembra di non aver mai fatto quelle cose. Sono stata si, più di una volta, in compagnia di ragazze e abbiamo riso e

ballato, ma non ho idea di aver fatto altro. Qualche volta veniva anche un giovane, che io non conoscevo, e ballava con

me.”



Il giudice, minacciandola, le raccomandò di dire la verità su quel giovane.



“Mia madre mi disse che quello era il diavolo e che non dovevo aver paura di lui. Un giorno egli mi applicò sulla spalla un

suo ferro infuocato e mia madre vi pose sopra un suo anello. Un’altra volta mi diede del denaro, che io consegnai a mia

madre. Ma sono passati alcuni anni da allora e io me ne ricordo appena. Mi sembra un sogno.”

“ E’ vero che hai portato l’insalata a Lisabetta?”

“ Si, per ordine di mia madre. Lucia mi veniva dietro per vedere se Lisabetta l’avrebbe mangiata. C’erano anche la Mercuria

e la Menegota. Quando videro che la mangiava, tutte si misero a ridere gridando: ‘L’ha mangiata! l’ha mangiata!’”

“Hai qualche segno diabolico?”

“Si, qui sulla spalla sinistra.”



Sono stati chiamati i medici Betta e Bosini, che riscontrarono effettivamente il segno: era una macchiolina della grandezza di una lenticchia.  
23 dicembre 1646 Benvenuta ha dichiarato che allo stregamento dei buoi dello Scarambea hanno contribuito Zinevra vedova di Valentino Chemol e Caterina Baroni detta Fitola.



24 dicembre 1646



Lucia ha denunciato come complice Maddalena Andrei, detta la Filosofa, e ha confermato che Santo Peterlino non è soltanto uno stregone, ma capo degli stregoni, e che per questa ragione è chiamato il caporale.

Per fortuna, il Peterlino è già arrestato! Il cerchio dei malfattori si allarga sempre di più.



Natale 1646



Il Natale dovrebbe essere una gioia per tutti. Ma io sono solo, privato degli affetti familiari dalla perfidia di quattro donne maledette. Tutto qui dentro mi pare stregato: il pane che mangio, il letto su cui dormo i miei sonni inquieti…



2 gennaio 1647



L’anno nuovo è cominciato sotto il segno di Satana. Domenica ha descritto i congressi diabolici, ai quali ha assistito assieme con le altre e con Santo Peterlino: le solite nefandezze.



10 gennaio 1647



Interrogatorio della Filosofa. Prima ha negato tutto, poi ha detto molto di più di quanto il giudice volesse sapere. Raccontò di aver rinunciato al battesimo per istigazione della Brentegana e di aver partecipato più volte alla congrega diabolica.



“Mi sapete dire com’era composto l’unguento di cui vi ungevate per andare alla congrega?”

“Ecco: si prende un’Ostia consacrata, del sangue di piccole creature, dell’acqua santa, del grasso di bambini morti e si

mescola il tutto, pronunciandovi sopra parole segrete della maledizione.”



Ha aggiunto di aver essa stessa disseppellito alcuni bambini e di aver aiutato le altre a tagliarli a pezzi e a estrarne il grasso per manipolare l’unguento.



“Quei pezzi”, concluse, “si mettono in pentola e si fanno bollire, poi si portano in tavola e si mangiano; qualche parte si mette ad arrostire.”



13 gennaio 1647



La Filosofa ha dichiarato falso tutto ciò che aveva confessato il 10 del mese.



“Chi vi ha consigliato di comportarvi in questo modo?” le ha chiesto il giudice in tono severo.

“Scusatemi signor giudice: ho detto quelle frottole un po’ per paura, un po’ per stupidità, perché speravo che se avessi

confessato tante cose, voi mi avreste rimandato a casa. Ora mi accorgo di essere stata una citrulla a raccontarvi tante

bugie.”



Il giudice le ha fatto dare alcuni tratti di corda. La Filosofa non ha resistito e si è messa ha gridare:



“Tiratemi giù, per carità. Tutto quello che vi ho raccontato è vero. Si, sono una strega. Ma tiratemi giù, per carità”.



La tirarono giù e le misero a posto le ossa. Lei continuava a lamentarsi guardandosi con terrore le mani, ch’eran diventate paonazze.



25 gennaio 1647



Santo Peterlino è stato sottoposto alla tortura. Benché settantenne, ha avuto la forza di negare sino in fondo. E’ stata la forza della coscienza, o l’aiuto di Satana? E’ una distinzione, che non sono in grado do fare.



27 gennaio 1647



La giovane Benvenuta è stata interrogata di nuovo, ma ha dichiarato falso quanto aveva confessato in precedenza.



“Eppure, nessuno vi ha costretto. Avete parlato liberamente e avete poi confermato le vostre deposizioni. Perché dunque?”

“Ho confessato per paura e ho raccontato quelle cose, non perché io le abbia fatte, ma perché le intesi dire. E se non dissi

subito cosi come dico adesso, è perché allora io rispondevo conforme a quanto mi veniva domandato.”



Messa a confronto con Lucia, ha persistito nel negare. Le due donne si sono colmate di contumelie e di improperi.



28 gennaio 1647



La Menegota è stata torturata e ha palesato il nome di altre complici. La tortura è stata leggera, in considerazione della sua età avanzata.

Sera. Anche Domenica Gratiadei è stata torturata. Niente di nuovo.



10 febbraio 1647



Il bargello ha arrestato Caterina, detta Filosofa, e Zinevra, vedova di Valentino Chemol, e ha presentato l’inventario degli oggetti che sono stati trovati in casa della Fitola: un vaso di terra pieno di grasso, un fungo di larice, un fazzoletto sporco di unguento, un fiaschetto con poca roba dentro. Indubbiamente, strumenti di stregoneria.



19 febbraio 1647



Caterina Fitola ha confessato di essere strega , di aver rinunciato al battesimo e di aver suscitato temporali.



20 febbraio 1647



Anche Zinevra Chemol si è professata strega. La tortura è davvero uno strumento infallibile!



1 marzo 1647



Con decreto del 26 febbraio Domenica Camelli, Lucia Caveden e la Filosofa sono state dichiarate ree convinte. Oggi ho notificato loro il decreto e ho chiesto se intendano difendersi. La Filosofa ha rinunciato:



“Chi volete che mi difenda?” ha detto, “quale avvocato potrà prestar fede alle mie protesete d’innocenza?”

“Non sappiamo come fare”, hanno risposto Domenica e Lucia, “né abbiamo le possibilità; però se dev’esserci assegnato un

difensore d’ufficio, vorremmo che ci fosse dato il dottor Passerini, nel quale abbiamo fiducia.”
9 marzo 1647 Stamane, al levar del sole, il bargello, nel fare il consueto giro d’ispezione alle carceri, ha trovato la Filosofa morta. Chiamato a verificarne il decesso, l’ho vista distesa al suolo e già fredda. La mia emozione è stata profonda, Cosi finiscono i nemici di Dio!



Notte. Ho ripensato alla morte della Filosofa. Non riesco a capire come si sia uccisa. E’ da escludere che si sia impiccata o che abbia adoperato un’arma qualsiasi. Forse l’ha strangolata il demonio; non sarebbe il primo caso.



14 marzo 1647



Oggi Caterina Fitola e Zinevra Chemol sono state torturate per l’ultima volta, ma non hanno aggiunto niente di nuovo a quanto conosciamo.

L’avvocato Bertelli è stato scelto come patrocinatore di tutte queste donne maledette. Domani gli trasmetterò copia degli interrogatori.



dal 14 marzo al 14 aprile 1647 , giorno dell’esecuzione, il diario del cancelliere Frisinghello non fa menzione di nulla; non una parola sulla difesa del patrocinatore, non un cenno sugli ultimi giorni vissuti dalle sciagurate. Soltanto un’osservazione, un po’ sarcastica, gettata là come per caso, senza indicazione del giorno:



“Il fosco ha poco da rallegrarsi della confisca dei beni di quelle pezzenti!”



La difesa dell’avvocato Bertelli, in trentasei pagine, che troviamo allegata agli atti del processo fu brillante, ma vana. Le sue argomentazioni a favore delle patrocinate rivelano un buon senso, un equilibrio, uno spirito critico, che forse agli giudici e al cancelliere dovettero sembrare ingenuità e dabbenaggine. Egli lamentava che molte interrogazioni fatte alle inquisite fossero state “suggestive” e che le risposte, registrate negli atti, fossero state “piuttosto scritte che dette”; osserva che il cancelliere Frisinghello, essendo diventato parte in causa nel corso del processo, avrebbe dovuto dimettersi dal suo ufficio; che alle malvagie denunce della Mercuria si doveva dare il valore che meritavano, e in tal modo non sarebbe scatenato quel complesso di errori, di volgarità, di calunnie, che aveva tanto allarmato quei paesi; che non si deve attribuire importanza a “segni” che le sventurate confessano di avere sul loro corpo, poiché quei segni, come dichiarano i medici stessi, potrebbero essere naturali; che illegale è chiamare a testimonio, in cause che comportano la pena capitale, la figlia contro la madre, la moglie contro il marito, eccetera; che le cose riferite erano assolutamente inverosimili.



Il giudice non tenne in nessuna considerazione la difesa del Bertelli e condannò Domenica Camelli, Lucia Caveden, Domenica Gratiadei, Caterina Fitola e Zinevra Chemol a essere decapitate e poi arse. Isabella Gratiadei, la figlia Polonia e Valentina Andrei si salvarono perché assenti, ma furono bandite in perpetuo; il vecchio Santo Peterlino fu scarcerato. La sentenza fu eseguita il 14 aprile.



Da quel giorno è datata l’ultima pagina del diario di Frisinghello_



14 aprile 1647



la sera



Oggi le streghe, ree convinte sono state decapitate dal carnefice Leonardo Oberdorfer: i loro corpi sono stati arsi alla presenza della popolazione. Giustizia è stata fatta; di lei non potranno lamentarsi i signori di Lodron, né i marchesi Bevilacqua, né la ceneri di mia moglie e della mia carissima Lisabetta. Il dominio di Satana dev’essere annientato nel corpo delle sue fedeli, a dispetto di tutti i Bertelli del mondo, che lo sostengono coi cavilli giuridici e vorrebbero perpetuarlo sulla terra

 
 
 

Dalla leggenda al Best-seller

Post n°17 pubblicato il 08 Ottobre 2007 da de_Molay88
 
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FRANCO CARDINI



la "leggenda templare" comincia presto. Era almeno dalla fine del Dodicesimo secolo, parallelamente con le ripetute sconfitte dei crociati e degli eserciti "franchi" in Terrasanta, che sulle militiae, gli ordini religioso-militari, giravano strane e non sempre edificanti dicerie. Erano troppo orgogliosi e alteri, ma non sempre così intrepidi in battaglia come la loro regola avrebbe richiesto; tenevano un comportamento ambiguo con i musulmani, e si diceva che i Templari fossero perfino in amicizia con il "Veglio della montagna" e la setta degli "Assassini"; non erano affatto così casti e temperanti come avrebbero dovuto, si mormorava di loro eccessi, di riti tra il magico e l´erotico, di bagordi («bibere templariter», si diceva: bere come un Templare). E come spiegare le immense ricchezze, se non col fatto che sapessero fabbricar oro e argento per mezzo d´alchimia?
Il fatto è che ormai, specie con la fine del Duecento, la loro funzione era giunta a una svolta. I crociati avevano perduto la Terrasanta e, se l´ordine gemello ed emulo del templare, quello di San Giovanni di Gerusalemme, aveva saputo riciclarsi abilmente come potenza marinara ponendo la sua prestigiosa nuova base nell´isola di Rodi, la Militia Templi non era stata capace di fare altrettanto. Da parecchio tempo, anche nella curia pontificia di Roma, si ventilava l´idea di fondere i due ordini in uno solo, se non addirittura di scioglierli.
Nel continente europeo, l´Ordine aveva sviluppato da tempo una complessa attività economica, sia di tipo fondiario, sia legata al prestito e al trasferimento di danaro. Qualcuno si è stupito del fatto che, in quella fatale notte dell´ottobre del 1307, gli agenti di re Filippo IV di Francia riuscissero ad arrestare tutti i Templari del regno senza un cenno di resistenza da parte loro. Ma tale stupore, del tutto fuori luogo, nasce da un malinteso. I Templari, in terra cristiana, erano sempre disarmati: ed era loro vietato rigorosamente l´uso delle armi contro i correligionari. Per giunta, c´era l´uso antico di rimpatriare dalle aree d´azione militare nelle retrovie europee i cavalieri feriti, invalidi e anziani. Le case templari d´Europa somigliavano più a ospizi e a pensionati che a conventi-caserma.
La "passione" dell´Ordine del Tempio durò cinque lunghi anni, dal 1307 al 1312, e si concluse con la disposizione di papa Clemente V che lo scioglieva formalmente, anche per prevenire ed evitare una condanna inquisitoriale per eresia che almeno in Francia sarebbe stata senza dubbio formulata, perché tale era la ferma volontà del sovrano intenzionato a liberarsi dei fratres e a incamerarne i beni. Di recente, Barbara Frale ha scoperto altresì un documento che prova come il pontefice assolvesse in segreto i Templari da qualunque residuo sospetto d´eresia. Ma il maestro dell´ordine, Giacomo di Molay, che si era confessato colpevole e che colto da un forte scrupolo ritrattò la confessione, fu arso nel 1314 come relapsus, eretico caduto di nuovo nell´errore, secondo la pratica inquisitoriale che in quel caso non perdonava.
All´indomani dello scioglimento dell´Ordine, l´opinione pubblica della cristianità appariva divisa. Se personaggi come Dante presero posizione in favore dell´innocenza dei Templari, altri - ad esempio Raimondo Lullo e Arnaldo di Villanova - si espressero in senso opposto. Tuttavia, fino alla Riforma, dell´affare del Tempio ci si andò progressivamente disinteressando. La citazione dei Templari come eretici e in qualche modo affini a una setta stregonica, che troviamo nel De occulta philosophia di Cornelius Agrippa di Nettesheim, resta molto sul generico, anche se quei brevi cenni sono stati responsabili dell´idea diffusa che fossero praticanti di magia, o addirittura maestri espertissimi in quell´arte. Ma è significativo che fosse proprio il più grande teorico della politica del Sedicesimo secolo, ch´era anche un fedele servitore della corona di Francia - e gran cacciatore di streghe - , Jean Bodin, a sostenere con pacato rigore la tesi dell´assoluta innocenza dei Templari e della loro condanna dovuta alla volontà regia d´incamerarne terre e beni.
La "rinascita misterica" dell´Ordine del Tempio, insieme con il misterioso ordine dei Rosacroce, è legata alle vicende della cultura ermetica dell´ultimo Rinascimento e all´alba dell´età dei Lumi e coincide anche con la trasformazione delle logge massoniche da sodalizi artigianali o professionistici in gruppi di esoteristi animati da una forte volontà di autonobilitazione cavalleresca incentrata su complessi rituali e su una costante meditazione esegetica relativa alla costruzione simbolica del tempio di Salomone e ai segreti che da allora si sarebbero occultamente tramandati.
Quest´improbabile ma affascinante mitologia ha i suoi principali iniziatori in personaggi come il nobile scozzese cattolico André Michel Ramsay, residente in Francia e a lungo segretario di François Fénelon. Con un suo celebre discorso alla massoneria francese, pubblicato nel 1736, il Ramsey collegava con ingenua e acritica convinzione - ma anche con una grande forza mitopoietica - le origini delle organizzazioni massoniche alle Crociate e ai sodalizi di cavalieri. Frattanto, un preciso rapporto tra antica sapienza cristiana e Ordine templare era stato proposto in Germania, dove era stato coniato il "romanzo" secondo il quale, prima di morire sul rogo nel 1314, il maestro del Tempio aveva confidato il nucleo della sua saggezza ad alcuni seguaci che, superstiti, erano finiti in Scozia dove si erano tramandati quella preziosa eredità. L´autentico iniziatore del templarismo tedesco fu Karl Gotthelf von Hund, un proprietario terriero sassone che aveva compiuto il tirocinio massonico in Francia e si era convertito al cattolicesimo.
Attraverso una intricata e complessa storia di filiazioni, di scismi, di liti e di reciproche denunzie che giunge a sfiorare anche personaggi come Napoleone, il seme gettato dal Ramsey e dal von Hund produsse un albero rigoglioso, i rami e le fronde del quale coprirono tutta l´Europa sette-novecentesca e continuano a coprirla. Più o meno geniali falsari come Pierre Plantard - l´ex-collaborazionista francese ideatore del "Priorato di Sion", che ha dato la stura alle favole contemporanee relative a Rennes-le-Château alle quali ha attinto, di quarta mano ma anche a piene mani, Dan Brown - punteggiano questa storia che è stata riraccontata, ritessuta, scompigliata e ricostruita fino alla noia. Eppure quest´infinita storia noiosa non ha ancora annoiato. Essa continua ad appassionare molti illusi, convinti che per accedere senza fatica all´esclusivo "tiaso", la confraternita dionisiaca degli happy fews che conoscono i Grandi Segreti dell´universo, basti acquistare uno di quei libri dalla copertina ornata di simboli inquietanti che si vendono nelle edicole delle stazioni ferroviarie.

Articolo segnalatomi dal gent.ssimo prof. Michele de Pasquale  - docente di storia e filosofia presso il liceo scientifico C.Rispoli in S.Severo (FG)

 
 
 

Le segrete dei Templari

Post n°16 pubblicato il 08 Ottobre 2007 da de_Molay88
 
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Il 13 ottobre di sette secoli fa il re di Francia ordinò l´arresto di tutti i monaci-guerrieri del Tempio di Gerusalemme. Processo e condanna furono un´atroce montatura. Nel castello di Chinon ne restano le tracce
PAOLO RUMIZ



CHINON
è invisibile, sulla collina, la prigione dei cavalieri di Dio. L´ha inghiottita la pioggia, e uno strato di nubi atlantiche che dall´imbrunire ristagna compatto sopra il fiume. Nessuna traccia, a Chinon, della sinistra muraglia dietro la quale sette secoli fa il gran maestro dei Templari Jacques de Molay fu chiuso e torturato, insieme ad altri dignitari, prima di essere messo al rogo. È l´epicentro di una storia terribile, e di una leggenda nera che risveglia ancora furibonde passioni.
Alle nove di sera, sotto il maniero, il silenzio è così totale che par di sentire le pendole nelle case. A quell´ora sulla vecchia Francia scatta il coprifuoco, e a Chinon il tempo si ferma. Palazzi in tufo giallino, vecchi hotel deliziosamente fané, odore di limo fluviale, antichi selciati e una nebbia dove ci si perde come in un bicchiere di Pernod. Per strada, solo un ubriaco, che parla da solo sotto un terrificante monumento a Giovanna d´Arco, in groppa a un cavallo indemoniato che pare trascinarla all´inferno più che al cospetto di Dio.
«Ma lei che ci va a fare a Chinon? Dei Templari non è rimasto niente», mi hanno avvertito a Parigi. A sentire gli studiosi la Francia sembra il posto meno adatto d´Europa a ritrovare i monaci guerrieri. Tutto sembra spazzato via dalla persecuzione, che qui ebbe il suo micidiale epicentro. Ma ci si mise di mezzo anche la Rivoluzione, che fece a pezzi ciò che restava. A partire dal "tempio" di Parigi, trasformato in prigione dall´ancien régime e poi abbattuto come la Bastiglia.
Tutto, nel viaggio, è sembrato depistarmi da questo luogo maledetto. La pioggia, l´inferno delle tangenziali parigine, i saliscendi infiniti della Francia profonda, i boschi labirintici dopo Orléans, oltre la Loira, dove son finito davanti ai cancelli di una centrale nucleare, e poi sulla strada - sbagliata - di Laudun, la città dei "diavoli" e del rogo per stregoneria. In fondo, questo villaggio nella pioggia che pare in capo al mondo.
In posti così addormentati sette secoli non sono niente, e forse tutto cominciò in una notte così, il 13 ottobre 1307, quando gli sgherri del re - sguinzagliati nello stesso momento in tutta la Francia - uscirono per le strade per arrestare migliaia di monaci-guerrieri con l´accusa di eresia, usura, sodomia e altro. «Un crimine orribile, lamentabile, detestabile, esecrabile, inumano e abominevole», così Filippo il Bello nell´apocalittica ordinanza che in gran segreto fece scattare il primo rastrellamento su vasta scala della storia. Li presero tutti, per mettere le mani sul loro tesoro. Li separarono in prigioni diverse, li torturarono col fuoco e li obbligarono a confessare le stesse cose.
Il mattino dopo un rumore di chiavistelli mi strappa alle fantasticherie mentre aspetto nella pioggia, sotto la fortezza. È madame Esnard, la guida, che si scusa per la quantità enorme di lucchetti da aprire. Annuncia che il torrione di Coudray, dove fu incarcerato il gran maestro, è chiuso da mesi - me la sentivo - e per visitarlo ci vuole un permesso da Tours. Spiega che a Chinon trionfa la leggenda di Giovanna d´Arco, che qui fu investita della sua missione dal re di Francia. Per i Templari non viene quasi nessuno.
È strano, racconta, perché ci sono graffiti di prigionieri. Mani, cuori raggianti di luce, scudi e croci, che hanno fatto impazzire cercatori di simboli come Louis Charbonneau e il grande René Guénon. A Chinon, è vero, non è rimasto niente. È il luogo meno templare che ci sia. Ma i muri, quelli sì, parlano eccome, a strapiombo sulla Vienne, sulla collina crivellata di grotte, mascella cariata sopra i vigneti della Turenna.
Entriamo in un labirinto di gallerie, passerelle e ponteggi formicolanti di operai: a Chinon è in corso un restauro, uno dei più grandi d´Europa, un´operazione da quattordici milioni di euro, e la prigione dei Templari è là in mezzo, sigillata da un recinto, dimenticata nella pioggia. Un dentone cilindrico in tufo che affonda nella gengiva della collina per una profondità che pare collegarlo all´altro mondo.
Intanto da Tours arriva il via libera: aprono il torrione solo per noi. Entriamo con torce elettriche, molti dei graffiti possono essere letti solo così. Sotto un soffitto esagonale, formano un puzzle sulle pareti, seguono la sequenza dei pietroni di tufo come le pagine di un libro. I più noti sono all´ingresso sulla sinistra, protetti da una teca di vetro. «Lì dentro», sorride madame Esnard, «una femmina di pipistrello è venuta a ripararsi la scorsa stagione». La torcia illumina gigli, scudi, asce, costellazioni, figure di santi, croci con la base a scalini. Ma appena gli occhi si abituano al buio, ecco apparire ragnatele di iscrizioni meno profonde, addensate nelle tre feritoie aperte sul versante sud del torrione.
Nel contorno di un vascello sta scritto: «commanda eis philipe rege papa clemens quintus diabolis et dragonibus». Che significherebbe: papa Clemente e re di Francia Filippo, siete stati mandati dal diavolo e dal dragone. Filippo è definito "il falsario". Niente di esoterico: è la maledizione di uomini comuni, con le loro rabbie e le loro paure. Finemente incisi, i nomi di possibili progionieri: Jehan Galubia, Geoffroy Verceil, Besançon Philippe, Pierre Safet cuciniere del maestro del Tempio.
«Da qualche parte, in fondo alla feritoia più occidentale», spiega la guida, «c´era la firma di Jacques de Molay, ma ora non si riesce più a leggerla». Racconta che i graffiti sono stati inventariati solo trent´anni fa da un certo Yvon Roy, che li vide quando caddero i primi intonaci. Ma gli storici non si fidano, perché lo scopritore «venne lasciato solo per mesi a lavorare nella torre» e si teme abbia manipolato qualcosa per aggiungere prove in favore dei Templari. Il problema è che nessuno, ancora, ha trovato prove "contro" l´autenticità degli straordinari graffiti di Chinon.
In fondo al finestrone centrale, oltre un tappeto di escrementi di pipistrello: «Nous sommes amenes devant l´inquisiteur de france humbert paris qui tortura les freres», siamo portati davanti all´inquisitore Umberto che ha torturato i fratelli. E ancora, un po´ più in alto, oltre a un ferro di cavallo: «Abbiamo ricevuto colpi di frusta da Robert Fribault che è il boia del re…». E, infine, su una pietra in alto a sinistra della feritoia orientale: «Robert Talmont, precettore di Francia, è morto a Chinon per le torture infertegli». Per leggere, bisogna mettere la torcia lateralmente, per esaltare l´ombra nelle fessure. Ma tutto è fantasticamente chiaro, ed è forse per questo che gli storici non si fidano ancora e la Soprintendenza ha preferito lasciare i graffiti nell´ombra.
Fuori piove ancora, dall´alto della muraglia le isolette della Vienne sembrano risalire la pigra corrente come chiatte oceaniche. I muri parlano? «La realtà è che, dopo tutto il polverone sui Templari, c´è ancora tanto da sapere e tanti documenti da setacciare», brontola Alain Demurger, maxi-esperto francese sul tema, prima di consigliarmi una buona cantina da vino. È scettico sui graffiti di Chinon; preferisce lavorare sugli atti del processo, una documentazione più che sufficiente. Ma la conclusione non cambia: i cavalieri di Dio erano «gente comune», non «extraterrestri». Militari e monaci, reclute e novizi insieme, avevano il loro inevitabile "nonnismo", ed è a quei vizi che s´è aggrappato il re per le sue accuse. Colpevoli o innocenti? La Francia - giurano qui - è ancora spaccata in due.

Articolo segnalatomi dal gent.ssimo prof. Michele de Pasquale  - docente di storia e filosofia presso il liceo scientifico C.Rispoli in S.Severo (FG)

 
 
 

Le Torture dell'Inquisizione

Post n°15 pubblicato il 07 Ottobre 2007 da de_Molay88
 
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La Santa Madre Chiesa così attenta ai diritti di un singolo spermatozoo, guai a "disperdere il seme" ! , ha mostrato una sensibilità infinitamente inferiore nei confronti di poveri esseri umani la cui unica colpa era magari di aver bestemmiato perchè non avevano nulla da mettere sotto i denti.
I supplizi e le torture applicati dalla "Santa" Inquisizione nel corso dei secoli
L'Inquisizione nacque nel XII secolo come tribunale ecclesiastico adibito ai processi contro catari e valdesi. Con il passare del tempo, il suo compito si specificò sempre di più nel ricercare e giudicare tutti gli eretici. Il criterio con cui si attribuiva a una persona il reato di eresia era alquanto discutibile e molto spesso i capi d'accusa erano del tutto privi di fondamento, tuttavia gli accusati arrivavano ad attribuirsi i più fantasiosi reati pur di porre fine alle atroci torture cui erano sottoposti. L'esecuzione non era possibile senza una confessione, che non poteva certo essere estorta con le buone maniere. Si ricordano 3 Inquisizioni: quella medievale, quella spagnola e quella romana. Sebbene si collochino in luoghi ed epoche differenti, i loro metodi di procedura furono essenzialmente gli stessi. Vennero impiegati antichi sistemi di tortura e ne furono inventati di nuovi, grazie anche al contributo di presunti esperti di stregoneria e demonologia. Essi erano convinti che il diavolo lasciasse un "marchio" sulla pelle del suo servo: segno invisibile, ma che rendeva insensibile la pelle in quel punto. Per questo le carni degli accusati venivano penetrate da lunghi spilloni fino a identificare il punto in cui il "servo di Satana" non provava dolore ovvero non urlava (magari perchè sfinito dalla tortura). Questa era considerata una prova sufficiente. I supplizi più usati furono i seguenti:

ANNODAMENTO: era una tortura specifica per le donne. Si attorcigliavano strettamente i capelli delle streghe a un bastone. Robusti uomini ruotavano l'attrezzo in modo veloce, provocando un enorme dolore e in alcuni casi arrivando a togliere lo scalpo e lasciando il cranio scoperto. Questa tortura fu usata in Germania anche contro gli zingari (1740-1750) e in Russia nel corso della Rivoluzione Bolscevica nel 1917-1918;
CREMAGLIERA:
era un modo semplice e popolare per estorcere confessioni. La vittima veniva legata su una tavola, caviglie e polsi. Rulli erano passati sopra la tavola (e in modo preciso sul corpo) fino a slogare tutte le articolazioni;
CULLA DELLA STREGA: questa era una tortura a cui venivano sottoposte solamente le streghe. La strega veniva chiusa in un sacco poi legato a un ramo e veniva fatta continuamente oscillare. Apparentemente non sembra una tortura ma il dondolio causava profondo disorientamento e aiutava a indurre a confessare. Vari soggetti hanno anche sofferto durante questa tortura di profonde allucinazioni;
CULLA DI GIUDA O TRIANGOLO: l'accusato veniva spogliato e issato su un palo alla cui estremità era fissato un grosso oggetto piramidale di ferro. Alla fine alla vittima venivano fissati dei pesi alle mani e ai piedi;
DISSANGUAMENTO: era una credenza comune che il potere di una strega potesse essere annullato dal dissanguamento o dalla purificazione, tramite fuoco, del suo sangue. Le streghe condannate erano "segnate sopra il soffio" (sfregiate sopra il naso e la bocca) e lasciate a dissanguare fino alla morte;
FANCIULLA DI FERRO O VERGINE DI NORIMBERGA: era una specie di contenitore di metallo con sembianze umane (di fanciulla appunto) con porte pieghevoli. Nella parte interna delle porte, erano inserite delle lame metalliche. I prigionieri venivano chiusi dentro in modo che il loro corpo fosse esposto a queste punte in tutta la sua lunghezza, ma senza ledere in modo mortale gli organi vitali. La morte sopraggiungeva lentamente fra atroci dolori;
FORNO: questa barbara sentenza era eseguita in Nord Europa e assomiglia ai forni crematori dei nazisti. La differenza era che nei campi di concentramento le vittime erano uccise prima di essere cremate. Nel XVII secolo più di duemila fra ragazze e donne subirono questa pena nel giro di nove anni. Questo conteggio include anche 2 bambini;
GARROTA: non è altro che un palo con un anello in ferro collegato alla vittima, seduta o in piedi; le veniva fissato e andava stretto poi per mezzo di viti o di una fune. Spesso si rompevano le ossa della colonna vertebrale;
IMMERSIONE DELLO SGABELLO: questa punizione era usata più spesso sulle donne. La vittima veniva legata a un sedile che impediva ogni movimento delle braccia. Questo sedile veniva poi immerso in uno stagno o in un luogo paludoso. Varie donne anziane che subirono questa tortura morirono per lo shock provocato dall'acqua gelida. L'immersione dello sgabello era usata per le streghe in America e in Gran Bretagna nonché come punizione per crimini minori, prostituzione e ai danni dei recidivi;
IMPALAMENTO: è una delle più antiche forme di tortura. Veniva attuata per mezzo di un palo aguzzo inserito nel retto della persona, forzato a passare lungo il corpo per fuoriuscire dalla testa o dalla gola. Il palo era poi invertito e piantato nel terreno, così, queste miserabili vittime, quando non avevano la fortuna di morire subito, soffrivano per alcuni giorni prima di spirare. Tutto ciò veniva fatto ed esposto pubblicamente;
MASTECTOMIA: alcune torture erano elaborate non solo per infliggere dolore fisico, ma anche per sconvolgere la mente delle vittime. La mastectomia era una di queste. La carne delle donne era lacerata per mezzo di tenaglie, a volte arroventate. Uno dei più orribili casi noti in cui fu usata questa tortura era quello di Anna Pappenheimer. Dopo essere già stata torturata con lo "strappado", fu spogliata, i suoi seni furono strappati e, davanti ai suoi occhi, furono spinti a forza nelle bocche dei suoi figli adulti. Questa vergogna era più di una tortura fisica; l'esecuzione faceva una parodia sul ruolo di madre e nutrice della donna, imponendole un'estrema umiliazione;
ORDALIA DELL'ACQUA: in questo tipo d'ordalia, l'acqua simboleggia il diluvio dell'Antico Testamento. Come il diluvio spazzò via i peccati così l'acqua "pulirà" l'anima della persona. Dopo 3 giorni di penitenze, l'accusato doveva immergere le mani in acqua bollente, a volte fino ai polsi, in altri casi fino ai gomiti. Si aspettavano poi 3 giorni per valutare le sue colpe.
Veniva messa in pratica anche un'ordalia dell'acqua fredda. Alla persona imputata venivano legate le mani e i piedi con una fune, in modo tale che la posizione non fosse certo propizia per rimanere a galla dopodiché veniva immersa in acqua: se galleggiava, era sicuramente colpevole, in quanto l'acqua "rifiutava" una creatura demoniaca; se andava a fondo, era innocente,
ma difficilmente sarebbe stata salvata in tempo;
ACQUA INGURGITATA: l'accusato, incatenato mani e piedi ad anelli infissi nel muro e posato su un cavalletto, è costretto a ingurgitare più di NOVE litri d'acqua, e ancora altrettanti se il primo tentativo non risulta convincente, per un totale di DICIOTTO litri.
ORDALIA DEL FUOCO: prima di iniziare l'ordalia del fuoco, tutte le persone coinvolte dovevano prendere parte a un rito religioso. Questo rito poteva durare fino a 3 giorni nel corso dei quali gli accusati dovevano partecipare a preghiere, digiuni, sottostare ad esorcismi, ricevere vari tipi di benedizioni e prendere i sacramenti; dopodiché aveva inizio l'ordalia che poteva avvenire in diverso modo. Uno di questi consisteva nel trasportare per una certa distanza un pezzo di ferro incandescente, di peso variabile tra mezzo chilo e un chilo e mezzo.
Un altro tipo di ordalia del fuoco consisteva nel camminare a piedi nudi sopra carboni ardenti, a volte con gli occhi bendati. Dopo la prova, le ferite venivano coperte e, allo scadere di 3 giorni una giuria controllava lo stato delle ustioni. Se le ferite non erano rimarginate l'accusato era colpevole, altrimenti era considerato innocente;
PERA: era un terribile strumento che veniva impiegato il più delle volte per via orale. La pera era usata anche nel retto e nella vagina. Questo strumento era aperto con un giro di vite da un minimo a un massimo dei suoi segmenti. L'interno della cavità ne risultava orrendamente mutilato, spesso mortalmente. I rebbi costruiti alla fine dei segmenti servivano per aumentare il danno fisico. Questa era una pena riservata alle donne accusate di avere avuto rapporti sessuali col Maligno;
PRESSA:
anche conosciuta come pena forte et dura, era una sentenza di morte. Adottata come misura giudiziaria durante il XIV secolo, raggiunse il suo apice durante il regno di Enrico IV. In Bretagna venne abolita nel 1772.
PULIZIA DELL'ANIMA: era opinione diffusa in molte zone che l'anima di una strega o di un eretico fosse corrotta, sporca e covo di quanto di contrario ci fosse al mondo. Per pulirla prima del giudizio, qualche volta le vittime erano forzate a ingerire acqua calda, carbone, perfino sapone. La famosa frase "sciacquare la bocca con il sapone", che si usa oggi, risale proprio a questa tortura;
ROGO: una delle forme più antiche di punizione delle streghe era la morte per mezzo di roghi, un destino riservato anche agli eretici. Il rogo spesso era una grande manifestazione pubblica. L'esecuzione avveniva solitamente dopo breve tempo dall'emissione della sentenza. In Scozia, il rogo di una strega era preceduto da giorni di digiuno e di solenni prediche. La strega veniva strangolata, avendo cura di farla rimanere in uno stato di stordimento; il suo corpo, a volte, era immerso in un barile di catrame prima di venire legato a un palo e messo a fuoco. Se poi, per qualche fortuita coincidenza la strega fosse riuscita a liberarsi dal palo e ad uscire dalle fiamme, la gente la rispingeva dentro;
RUOTA: in Francia e in Germania la ruota era popolare come pena capitale. Era simile alla crocifissione. Alle vittime venivano spezzati gli arti e il corpo veniva sistemato tra i raggi della ruota che veniva poi fissata su un palo. L'agonia era lunghissima e poteva anche durare dei giorni;
SEDIAINQUISITORIA: era una sedia provvista di punte e aculei alla quale il condannato era legato mediante strette fasciature. Il fondo poteva essere arroventato per produrre gravi ustioni;
SEGA: terribile metodo di esecuzione applicato, nella maggior parte delle volte, agli omosessuali. Il condannato veniva appeso a testa in giù con le gambe divaricate e con una sega veniva tagliato in 2 verticalmente. Veniva tenuto a testa in giù affinché il dissanguamento fosse più lento e perchè il maggior afflusso di sangue al cervello acuisse la sensibilità al dolore. Pare anche che la vittima restasse cosciente finchè la sega arrivava al cranio;
SQUASSAMENTO: era una forma di tortura usata insieme alla "strappata". L'accusato qui veniva sempre issato sulla carrucola, ma con dei pesi legati al suo corpo che andavano dai 25 ai 250 chili. Le conseguenze erano
gravissime;
STIVALETTO SPAGNOLO: le gambe venivano legate insieme in una sorta di stivale di ferro, che il boia stringeva fino allo spappolamento delle ossa;
STRAPPATA: l'accusato veniva legato a una fune e issato su una sorta di carrucola. L'esecutore faceva il resto tirando e lasciando di colpo la corda e slogando, così, le articolazioni;
TORTURA DELL'ACQUA: veniva inflitta frequentemente a personaggi compromettenti, dal momento che i suoi risultati non erano visibili esteriormente. Veniva fatta ingurgitare all'accusato una quantità spropositata d'acqua, finché il suo ventre non raggiungeva dimensioni abnormi, quindi veniva messo a testa in giù perchè la massa d'acqua pesasse sul diaframma e sui polmoni. Oltre al fortissimo dolore, ciò provocava gravi strappi e lesioni agli organi interni;
TORTURA DELL'ANIMALE: un insetto, per lo più un tafano, a volte anche una o più api, veniva messo nell'ombelico dell'imputato, chiuso da un bicchiere di vetro. Alternativamente si poteva inserire la testa del malcapitato in un sacco pieno di bestie inferocite, spesso gatti;
IL TOPO: Tortura applicata a streghe ed eretici. Un topo vivo veniva inserito nella vagina o nell'ano con la testa rivolta verso gli organi interni della vittima e spesso, l'apertura veniva cucita. La bestiola, cercando affannosamente una via d'uscita, graffiava e rodeva le carni e gli organi dei suppliziati. Chissà come i disgraziati riuscissero a sopportare il terrore provocato alla sola vista del topo che da li a poco sarebbe entrato nel suo corpo
TURCAS: questo mezzo era usato per lacerare e strappare le unghie. Nel 1590-1591 John Fian è stato sottoposto a questa e altre torture in Scozia. Dopo che le sue unghie vennero strappate, degli aghi furono inseriti nelle sue estremità;
VEGLIA: consisteva nel privare del sonno gli accusati. Matthew Hopkins la usava in Essex. La vittima, legata, era costretta a immersioni nei fossati anche per tutta la notte per evitare che si addormentasse.

 
 
 

La morte nera

Post n°14 pubblicato il 07 Ottobre 2007 da de_Molay88
 
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Tutto poteva condurre alla paura della fine del mondo… ma era solo la fine del Medioevo…

Cosa ne sarebbe avvenuto, dopo la peste, di questa tormentata umanità?

K. Bergdolt ne fa una analisi dettagliata, oggetto di un libro tutto a ciò dedicato [14].

Il 1348, l’anno della peste nera, fu verosimilmente l’anno del concepimento dell’uomo moderno. Prima della peste l’Italia e le Fiandre apparivano come i Paesi più agiati in Europa, poi un insieme di fattori contribuì a svolte che poterono apparire decisive ed effettivamente lo furono, nella costruzione di quella che fu una nuova era storica.

Possono essere considerati i seguenti fattori: il commercio, le banche, la cultura, i rapporti sociali, la situazione politica, la carestia, i cambiamenti di potere ai vertici assieme alle paure ed alle preoccupazioni crescenti, mai sommerse, anzi alimentate da nuove guerre e dalla cresciuta criminalità.
Anche crisi spirituali e riforme dei diritti feudali accompagnarono nuovissime ma determinanti evoluzioni, quali le armi da fuoco con la polvere da sparo, la stampa, con la crescente influenza sull’analfabetismo valutato a quasi il 90% della popolazione, lo sviluppo della tecnologia con la misurazione del tempo, grazie all’orologio.

Ma furono certamente molteplici le ragioni (e le invenzioni) per cui vennero a scomparire gli ideali cavallereschi e le tradizioni che avevano accompagnato la storia del Medioevo [15].

Nello stesso periodo vi fu anche un sensibile mutamento delle condizioni climatiche, con la diminuzione delle temperatrure ed anche alcuni terremoti in varie aree del pianeta. Tutto sembrava indicare che la PESTE poteva essere la chiave di volta per una “annunciata” catastrofe globale.

Attorno alla metà del secolo XIV apparvero anche nuove informazioni e nuovi dati relativi a terre lontane che diventavano “realmente esistenti” e non più solamente frutto di fantasie e racconti improbabili. Il Catai, la Persia, al pari del Nord europeo iniziavano ad avere la consistenza di Paesi in cui era iniziata o si era diretta la grande pestilenza.

La PAURA della fine dell’umanità o della stessa morte era vissuta con ansie simili dall’Italia (primo paese ad essere colpito in Europa) alla penisola Iberica, dalla Germania all’Inghilterra.

La FAME e l’insicurezza generale, motivata anche da ripetute piccole pestilenze negli anni seguenti, determinarono le tre principali crisi che accompagnarono quegli anni:

GRAVE CRISI RELIGIOSA, con la ricerca di colpevoli, l’attesa dell’anticristo e l’epiazione di peccati;

GRAVE CRISI DEL COMMERCIO, con emergenze economiche, perdita di consolidate consuetudini etiche;

GRAVE CRISI DELLA MEDICINA, con la inesauribile richiesta di cure efficaci ed oscure profezie.

Tutto ciò per nominare solo alcuni degli eventi che presagivano la fine di un’epoca, la fine del Medioevo.


La Chiesa e la Società laica sembravano proprio aver bisogno di un rinnovamento, dopo il chiaro imbarbarimento e la cronica “crudeltà” dell’uomo medievale e il bisogno di una nuova fiducia nelle autorità (sia civili, sia religiose), per dare avvio ad inattese (per allora) consuetudini e speranze per il futuro.

In definitiva: si voleva smettere di aver paura si voleva iniziare (nuovamente) ad apprezzare la vita, intesa anche come piacere e divertimento oltre allo sviluppo economico, all’arte ed all’avventura. Il tutto, ovviamente, salvaguardano la propria anima, magari compiendo viaggi ai luoghi santi o un pellegrinaggio a Roma (v. Anno Santo, 1350). La medicina, in particolare, rinnovò l’etica professionale e la deontologia ebbe anche una nuova importanza, anche politica, sempre più orientata al bene comune.

Le Università acquisirono l’importanza che viene ad esse destinata, la mentalità orientata al dovere ed alla morale, con la richiesta (e l’offerta) di un impegno totale, indipendente da ricompensa, guadagno ed anche rischio di vita.

Non mancarono settori in cui le conseguenze della peste non furono “novità”.

Furono decisivi la crisi economica, il crollo demografico, le aumentate ricchezze dei sopravvissuti e l’incredible formazione di un nuovo ceto sociale: il ceto medio, con l’aumentata intolleranza verso gli stranieri e le minoranze etniche.

Non mancarono fenomeni (oggi facilmente prevedibili) affatto conseguenti a tale crisi generale: rivolte, reati contro la proprietà, l’esodo dalle campagne, il cambio delle professioni (l’allevamento, la filatura), l’inasprirsi delle pene e la crudeltà delle esecuzioni, l’intensificarsi di crisi latenti.


Le città ebbero nuovi cittadini; furono favoriti il lusso, la ricchezza, il piacere.

Grandi rinnovamenti erano in atto: la peste ne determinò l’apice; essa non fu la sola causa degli sviluppi, ma li favorì in modo decisivo.

Ma, per fortuna, c’erano anche...



5.3.7 I santi protettori dalla peste [16]

Quando infuriava la peste, venivano invocati, in particolare, tre santi:

San Sebastiano, nativo di Narbona e cittadino di Milano, nella prima metà del secolo V era una guardia pretoriana di Diocleziano e svolgeva una intensa attività caritativa verso i bisognosi. è il principale santo protettore invocato contro la peste; durante il suo martirio venne condannato a morte mediante il supplizio delle frecce e sopravvisse miracolosamente ai colpi infertigli dai commilitoni.

Curato da santa Irene, si presentò di nuovo all'Imperatore che lo fece uccidere a bastonate. Le ferite causate dalle frecce sono paragonate ai segni (bubboni) della peste: oltre al santo si è salvato perciò anche il popolo che, rivolgendosi a lui, spera di salvarsi dalla peste. Ma c’è un altro legame tra le frecce e la peste: l’ira divina è paragonata alle frecce scagliate da un arco e, nel Medioevo, il diffondersi della peste fu visto come lo scatenarsi dell’ira di Dio. Il suo corpo fu sepolto sulla via Appia e forse successivamente traslato.


San Rocco era francese. Nacque a Montpellier in una famiglia agiata della grande borghesia mercantile tra il 1345 ed il 1350. Secondo la tradizione, una volta morti i genitori e donate ai poveri tutte le sue ricchezze, lasciò la Francia e venne in Italia, dove infuriavano pestilenze e guerre, con lo scopo di curare i pellegrini ammalati. A Piacenza, dove giunse nel luglio 1371, mentre assisteva gli ammalati di peste dell’Ospedale di Santa Maria di Betlemme, si ammalò egli stesso. Tormentato da un dolorosissimo bubbone all’inguine, si ritrovò cacciato dagli altri ammalati, stanchi dei suoi lamenti. Trascinatosi fino a Sarmato (a 17 km dalla città), Rocco si riparò in una grotta ad aspettare la morte. Fu un cane che lo salvò. La bestiola, accortasi della sua presenza e della sua sofferenza, gli portò ogni giorno un pezzo di pane, fino alla sua guarigione. San Rocco una volta guarito, non tornò in Francia, ma riprese la sua attività a favore degli appestati per la quale ancora oggi è ricordato.
San Rocco

Sant'Antonio abate era un eremita che viveva nel deserto. La sua vita, che si svolse attorno all’anno 340, sotto Costantino imperatore, fu narrata da Anastasio. Viene raffigurato spesso con un maialino, che forse indica il demonio piegato e vinto. Non è chiaro il rapporto tra sant'Antonio abate e la peste, ma anche lui venne invocato, forse a causa delle numerose rinuncie e privazioni e della ben nota santità della sua vita (cfr. anche 5.2. Ignis sacer, Ergotismo e Fuoco di sant' Antonio).

C’erano altri santi protettori per tante altre malattie ma la cosa che più terrorizzava nel Medioevo, era la morte improvvisa (detta la "mala morte") perché non dava il tempo di confessarsi e così si rischiava l’inferno.

La morte improvvisa, a quei tempi, era piuttosto frequente: guerre, sommosse, cadute da cavallo, da balconi, da impalcature, ecc. Il santo più invocato, in questi casi, era san Cristoforo: bastava guardare la sua immagine al mattino, appena svegli, e si poteva star tranquilli per tutto il giorno.

San Cristoforo era un gigante pagano («cananeo dell’altissima statura di dodici cubiti e di terribile aspetto») che aiutava ad attraversare un fiume pericoloso per i viaggiatori e per i pellegrini. Un giorno trasportò sulle spalle un bambino che diventava sempre più pesante man mano che il santo procedeva. Cristoforo si appoggiava a un tronco d’albero che rischiava di rompersi e riuscì a raggiungere l’altra sponda e solo allora riconobbe nel piccolo passeggero Gesù Bambino, che, come segno della propria divinità, trasformò il tronco d’albero in una palma da frutti. Il nome "Cristoforo" significa infatti "portatore di Cristo".

Anche san Cristoforo, come san Sebastiano, fu condannato al martirio delle frecce; però le frecce non lo colpivano e tornavano indietro, colpendo i persecutori. In seguito, San Cristoforo divenne il protettore dei viaggiatori in pericolo e la sua immagine era comune presso i valichi alpini.


Bouts il giovane: San Cristoforo

Santo e martire, probabilmente palestinese, fu convertito al cristianesimo dal vescovo Antiocheno
Babila e martirizzato per la fede sotto Decio nel 250. San Cristoforo è uno dei quattordici santi detti
"ausiliatori" particolarmente invocati in occasione di gravi calamità naturali o per la protezione da disgrazie o pericoli specifici. Il patrocinio di San Cristoforo era particolarmente ricercato sotto la peste.



POST SCRIPTUM

«[...] già erano gli anni della fruttifera incarnazione del Figliuolo di Dio al numero pervenuti di milletrecentoquarantotto, quando nella egregia città di Fiorenza [...] pervenne la mortifera pestilenza: la quale, per operazion de’ corpi superiori o per le nostre inique opere da giusta ira di Dio a nostra correzione mandata sopra i mortali, alquanti anni davanti nelle parti orientali incominciata [...] senza ristare d’un luogo in un altro continuandosi, verso l’Occidente miserabilmente s’era ampliata. [...] Nascevano nel cominciamento d’essa a’ maschi e alle femine parimente o nella anguinaia o sotto le ditella certe enfiature, delle quali alcune crescevano come una comunal mela, altre come un uovo, e alcune più e alcun’altre meno [...] A cura delle quali infermità né consiglio di medico né virtù di medicina alcuna pareva che valesse o facesse profitto [...] E più avanti ancora ebbe di male: ché non solamente il parlare e l’usare cogli infermi dava a’ sani infermità o cagione di comune morte, ma ancora il toccare i panni o qualunque altra cosa da quegli infermi era stata tocca o adoperata pareva seco quella cotale infermità nel toccator transportare [...] Che altro si può dire [...] se non che tanta e tal fu la crudeltà del cielo, e forse in parte quella degli uomini, che infra’l marzo e il prossimo luglio vegnente, tra per la forza della pestifera infermità e per l’esser molti infermi mal serviti o abbandonati ne’ lor bisogni per la paura ch’aveono i sani, oltre a centomila creature umane si crede per certo dentro alle mura della città di Firenze essere stati di vita tolti, che forse, anzi l’accidente mortifero, non si saria estimato tanti averne dentro avuti?».

(BOCCACCIO, Decameron, I, introduzione).

 
 
 

NEWS: I segni del Tempio

Post n°13 pubblicato il 15 Giugno 2007 da de_Molay88
 
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RESTAURI - Ad Anagni, un intervento dell'Istituto Centrale di Roma ha restituito evidenza a una rara sinopia raffigurante un cavaliere templare. Che, scampata alla furia iconoclasta dei nemici dell'Ordine, rimane oggi a testimoniarne la presenza nella città di Bonifacio VIII.

Negli anni successivi alla perdita di Acri e al trasferimento della sede del Tempio a Cipro, Jacques de Molay, che ricopriva la carica di Gran Maestro dell'Ordine, cercò d'incrementare il reclutamentodi nuovi confratelli, recandosi in Occidente e rivolgendo un personale appello alle varie corti europee.

Il viaggio del Gran Maestro

Nella lettera a Giacomo II d'Aragona raccontava di essersi trovato presso la curia papale nel dicembre del 1294 al tempo della rinuncia di Celestino V e dell'ascesa di Bonifacio VIII. Probabilmente si fermò per alrei sei mesi nell'Italia centrale prima di proseguire per Parigi e Londra.Durante il viaggio, che può essere durato fino al 1297, ma che più probabilmente si concluse nell'arco di un anno, Molay sembra aver avuto contatti, oltre che con il pontefice, anche con Carlo II di NApoli, Filippo IV di Francia e Edoardo I d'Inghilterra, direttamente con loro rappresentanti, come nel caso di Giacomo II. Gli esiti concreti di questa intensa attività si possono scorgere sia nell'immediato che nel decennio successivo.

Il dono do Bonifacio VIII

Nel luglio del 1295 Bonifacio VIII emanò una bolla iin cui si confermava che i privilegi del Tempio a Cipro sarebbero stati gli stessi goduti in Terrasanta e lo stesso giorno scrisse anche al re d'Inghilterra, chiedendogli di consentire agli uomini del Tempio la libera esportazione di beni destinati al loro sostentamento nell'isola. Il 20 luglio del 1296 il pontefice, con una apposita bolla,concesse in Anagni una casa con orto e dei terreni ai cavalieri templari poichè, sono le sue parole, << questo Ordine non aveva più alcun receptaculum nella provincia di Campangna e Marittima>>. Non è da escludere che questa donazione possa essere ricondotta alla frequente presenza di papa Caetani nella propria città natale, che in quegli anni stava attraversando il periodo del suo massimo splendore.

                                                                                          De Molay ... continua

 
 
 

L'Astronomia dei Maya

Post n°12 pubblicato il 09 Giugno 2007 da de_Molay88
 
Tag: Maya
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Primo interesse degli astronomi Maya era il passaggio allo zenit del Sole, evento possibile per la loro latitudine: molte delle città Maya erano a sud della latitudine 23,5 gradi (altezza solare nel solstizio d'estate), dalle quali si poteva osservare il passaggio zenitale del Sole due volte l'anno.

I Maya potevano determinare facilmente quelle date, per la mancanza di ombra, e le attribuirono ad un dio, il Dio Immergente.

Venere

I Maya osservarono Venere molto accuratamente:periodo di 584 giorni tra gli allineamenti (congiunzioni inferiore e superiore) Terra-Venere rispetto al Sole;periodo di 2922 giorni tra gli allinementi Terra-Venere-Sole rispetto a delle stelle.Durante la congiunzione inferiore, Venere scompare per circa 8 giorni. Quando sorge dopo la congiunzione inferiore, primo oggetto visibile all'alba, si parla di sorgere eliacale.Venere raggiunge la massima brillantezza alla massima elongazione ovest, e si muove poi rapidamente verso il Sole con moto retrogrado. E quindi rimane visibile per circa 260 giorni nel cielo mattutino fino a quando raggiunge la congiunzione superiore (dalla parte opposta della Terra rispetto al Sole). Il pianeta diventa sempre meno brillante fino a tornare sotto l'orizzonte, e riapparire dalla parte opposta rispetto al Sole dopo circa 50 giorni. Sorge quindi come stella serale e permane nel cielo notturno per quasi 260 giorni, fino a che raggiunge la massima elongazione est con massima brillantezza, e andare nuovamente alla congiunzione inferiore.Venere aveva effetti psicologici sui Maya e le altre culture centroamericane, è stato dimostrato che i loro tempi di guerra erano basati sugli stazionamenti di Venere e Giove. I sacrifici umani avvenivano al momento della prima apparizione di Venere dopo la congiunzione superiore (momento di massima magnitudine, minima brillantezza) e avevano timore del primo sorgere eliacale dopo la congiunzione innferiore.

I Maya avevano un Almanacco (Codice di Dresda) con la descrizione dell'intero ciclo di Venere, suddiviso in cinque settori di 584 giorni, cioè 2920 giorni, approssimativamente 8 anni o 5 cicli venusiani.Il Sole era stato osservato soprattutto per il suo passaggio zenitale. A Chichen Itza, durante il tramonto il Serpente Solare sale dalla parte della scalinata della piramide El Castillo nei giorni degli equinozi primaverile e autunnale.Nei calendari Maya c'era anche una componente lunare. I periodi lunari erano di 29 e 30 giorni alternativamente. Essendo il periodo sinodico della Luna di quasi 29,5 giorni, riuscivano a inserire la luna nei loro calendari senza difficoltà. Avevano cognizioni sui periodi lunari tali da poter predire le eclissi (Codice di Dresda).I Maya descrissero l'Eclittica nei loro disegni come un Serpente a due teste. Non si sa esattamente come i Maya descrivessero le costellazioni dell'eclittica (Zodiaco). Sappiamo che parlavano di uno scorpione, equivalente al nostro Scorpione, nei Gemelli i Maya individuavano un maiale o un pecari (suino americano). Altre costellazioni dell'eclittica erano identificate come un giaguaro, almeno un serpente, un pipistrello, una tartaruga, un mostro xoc (squalo o mostro marino). Le Pleiadi erano assimilate alla coda di un serpente a sonagli, chiamato Tz'ab.

La Via Lattea era oggetto di forte venerazione, veniva chiamata Albero del Mondo, un albero fiorito molto grande e maestoso. Altro nome era Wakah Chan (Wak=sei, eretto; Chan=quattro, serpente,cielo). Gli ammassi nell'Albero erano visti come fonte di vita e particolare importanza aveva il punto dove la Via Lattea interseca l'eclittica, vicino al Sagittario. L'Albero comprendeva anche il mostro Kawak, un gigante. In cima all'Albero c'è il dio Uccello Principale o Itzam Ye. Veniva preso in considerazione anche il passaggio del Sole nella Via Lattea nel solstizio invernale .Il periodo dei mesi invernali, quando la Via Lattea è ben visibile, era chiamato del Sepente dalle ossa bianche.

 
 
 

La musica nel Medioevo

Post n°11 pubblicato il 09 Giugno 2007 da de_Molay88
 
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La musica medievale è caratterizzata da due diversi filoni, uno sacro, quello del canto gregoriano, ed uno laico, quello dei trovatori e dei trovieri.
Si intende con la designazione di canto gregoriano tutto il complesso della musica fiorita durante il Medioevo in seno alla Chiesa, dalle origini del cristianesimo fino alla nascita della polifonia. Esso era musica vocale monodica, inquadrata negli schemi della liturgia cattolica. Fu codificato da S.Gregorio Magno, fondatore anche della Schola Cantorum, e si diffuse rapidamente nei paesi europei, specialmente in Inghilterra, Francia e Svizzera, dove predicatori e sovrani, come ad esempio Carlo Magno, lo accolsero per mostrare la loro appartenenza alla religione cristiana.
A fianco alla musica di Chiesa, ed in antitesi ad essa, nacque nell'alto Medioevo anche un genere musicale popolare, di cui però non abbiamo testimonianze se non indirette, da testi di condanna da parte del mondo ecclesiastico. Tale musica era cantata dai saltimbanchi, probabilmente discendenti dagli istrioni del mondo latino. Ed il latino inizialmente le loro musiche erano cantate : un esempio sono i Carmina burana, una raccolta di canti goliardici, nei quali però già si può notare come alla lingua di stato si mescolino progressivamente elementi delle nascenti lingue volgari. E' in questo contesto che nacquero le prime canzoni profane totalmente in lingua volgare, come ad esempio quelle nate nella Francia meridionale, scritte in lingua doc e cantate dai trovatori, o quelle nate nella Francia settentrionale, in lingua d'oil e cantate dai trovieri. Temi principali di queste canzoni erano l'adorazione della donna con artificiose espressioni di omaggio cavalleresco, tolte alle costumanze feudali dell'epoca esaltazione dei modelli della società aristocratica dell'epoca (modelli cortesi). Esse venivano spesso diffuse dal giullare o dal menestrello, sorta di cantore e giocoliere ambulante, con qualcosa del saltimbanco e dell'aedo che tipicamente si accompagnava con qualche strumento a corda come ad esempio la cetra. Commisto del carattere laico e di quello ecclesiastico sono sicuramente le laude, canzoni religiose in volgare, diffusesi in Italia tra le masse popolari grazie alla poesia trovadorica, il francescanesimo e i movimenti flagellanti.
Verso la fine del Medioevo si diffuse il primo tipo di musica polifonica, di cui abbiamo esempi sottoforma di contrappunti, ballate e madrigali
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Prima della nascita dell'ordine

Post n°10 pubblicato il 09 Giugno 2007 da de_Molay88
 
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Dopo la conquista di Gerusalemme

Dopo la conquista crociata di Gerusalemme, la Terra Santa diventò presto meta di grandi masse di pellegrini, la maggior parte dall’Europa. Il pellegrinaggio si svolgeva naturalmente in più tappe nel tragitto tra Jaffa e Gerusalemme, l’ultima delle quali era il Santo Sepolcro. Ma la situazione non era certo favorevole per un pellegrinaggio sicuro. Quasi tutto il territorio intorno a Gerusalemme era nelle mani dei musulmani che muovevano i loro attacchi da più direzioni, con rapidità e ferocia incredibile, tanto da diventare un enorme problema non solo per i pellegrini ma anche per tutti coloro che intendessero uscire fuori dalle mura della città Santa. Fonti antiche ci narrano di un tratto particolarmente pericoloso tra Ramlha e Gerusalemme, situato tra le montagne, dove vi erano molte caverne brulicanti di musulmani. Tuttavia, “gli Infedeli”, il più delle volte, non avevano enormi bastioni o fortezze(come i cristiani), ma si annidavano in posti nascosti come caverne, foreste o monti. Ciò no poteva che andare a loro vantaggio, poiché potevano contare su una fuga velocissima in un territorio che conoscevano benissimo. Molti cronisti e visitatori ci narrano del clima che vigeva in una simile condizione. L’abate russo Daniele ci parla della Terra Santa come un luogo pericolosissimo: << … i Saraceni giungono per uccidere chi viaggia lungo queste strade […] >>.[1] Ancora, Fulcherio, cappellano di Baldovino I è tra coloro che presero parte alla Prima Crociata, scelse di dimorare in Outremer, e la sua cronaca onesta e diligente offre un un’attestazione inestimabile delle condizioni dell’Oriente sotto la generazione dei nuovi insediati[2].Lo stesso descrive con queste parole il clima di tensione tra la popolazione:<<  La popolazione qui vive in un perenne stato di insicurezza, sempre in attesa dello squillo di tromba che mette in guardia dal pericolo […] >>.[3] Dai resoconti delle cronache storiche del quadro di attacchi nel territorio di  Gerusalemme, risultano quattro le principali vie sotto grave e costante pericolo. La prima, come già detto, situata sulla strada principale del pellegrinaggio tra Jaffa e Gerusalemme. La seconda tra Gaza e la stessa Città Santa, dove i musulmani avevano il loro covo situato su una montagna nei pressi di Hebron (a circa 23km da Gerusalemme) [ fonte n° -----]. Terza fonte di attacchi era quella a nord-est, sulla sponda occidentale del fiume Giordano,punto strategico per i musulmani per l’approvvigionamento di acqua [ fonte n°-----]. Infine abbiamo l’ultimo fronte a nord, in Galilea. Qui, nei pressi della città di Bahan, Daniele , descrive il territorio con queste parole:<< Codesto luogo è davvero terribile e pericoloso […] Il posto è terrificante […] >> [fonte n° ----].

È chiaramente tangibile la situazione di pericolo che vivevano i cristiani. La loro era una goccia cristiana in un mare musulmano. Come si comprende, tutta la città era effettivamente circondata poiché l’unica via libera era quella a ovest che conduceva alla riva del Giordano.

In questo contesto, molte sono le teorie che affiorano ai nostri occhi sulla nascita dell’ordine dei cavalieri Templari. Alcune, a livello storico naturalmente, più attendibili di altre per precisione, minuziosità di dettagli e altre caratteristiche storiche compatibili con i nostri dati certi. Altre invece tendono a mitizzare o a “epicizzare” la nascita dei “poveri cavalieri di Cristo”, ma come dalla procedura, nessuna fonte deve essere scartata dal principio, quindi prenderemo in esame tutto il materiale pervenutoci.



[1] L’ Abate russo Daniele in pellegrinaggio in Terra Santa tra il 1106 e il 1107, recandosi presso la chiesa di s.Giorgio a Lydda ( a circa sei miglia da Jaffa), scriveva:

<< Vi sono qui molte fonti; i viandanti si avvicinano all’acqua ma con grande timore, poiché è un luogo deserto prossimo alla città di Ascalona, dalla quale i Saraceni giungono per uccidere chi viaggia lungo queste strade. Una paura altrettanto grande insorge spostandosi da quel luogo verso le colline>>. - Daniel. The life and Journey of Daniel. Abbot of Russian Land, in J.Wilkinson (a cura di), Jerusalem Pilgrimage, Hakluyt Society 167, London 1988, pp. 126,136,145,156.

[2] Barber, La storia dei Templari, AL 2005 , pp. 11.

[3] Fulcherio di Chartres, Histiria Hierosolymitana, a cura di H. Hagenmeyer, Heidelberg 1913, 2.4, pp. 373-37; 3.2, p. 763

 

 
 
 

Le crociate -  pt 2

Post n°9 pubblicato il 05 Giugno 2007 da de_Molay88
 
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I crociati realizzarono in tutto 45 chiese durante la loro permanenza. In definitiva però bisogna riconoscere l’effettiva divisione del mondo arabo che senza dubbio favorì la relativamente facile incursione da parte degli occidentali a Oriente.

Una volta espugnata la città, venne proposto al grande fautore della vittoria cristiana Goffredo di Buglione di governare ma egli prontamente rifiutò forse avendo intuito la superficiale e limitata vittoria sui musulmani. In effetti tutto il territorio intorno a Gerusalemme stessa era nelle mani dei musulmani che muovevano i loro attacchi con una delle più efficaci tecniche di offesa: l’imboscata. Molto veloci e crudeli nei loro attacchi si rilevarono un enorme problema. Uno dei più significativi è quello contro il “Guado di Giacobbe”(1179). I crociati erano li impegnati a costruire un castello, quando Saladino sferrò un attacco prima che i lavori fossero terminati. Sappiamo che all’interno della costruzione vi erano circa 1500 crociati. Ciò è stato accertato dall’archeologo israeliano Ronnie Ellenbloom che da molti anni effettua ricerche presso questa località, ed è proprio qui che è stato protagonista di una stupefacente quanto macabra scoperta. Nella cisterna del forte sono state rinvenute molte ossa umane: centinaia di crociati trucidati. Dalle analisi effettuate sulle ossa, si capisce con quanta crudeltà e furia i musulmani attaccarono, tanto che Ellenbloom asserisce che i colpi venissero sferrati anche dopo che la vittima fosse ormai defunta. In questa battaglia furono uccisi circa 700-800 soldati e,cosa sconcertante, furono uccisi anche i cavalli. Saladino voleva in questo modo disonorare i cristiani. Le analisi effettuate sugli scheletri dei cavalli, portano delle domande interessanti: Che tipo di cavallo accompagnava il crociato in Terra Santa? La dottoressa Rivka  Rabinovich( università ebraica di Gerusalemme), si aspettava di trovare resti di cavalli slanciati e di grossa  mole,come si apprende dalle fonti antiche, e invece la scoperta servì a sfatare questo mito. La dentatura ha permesso di stabilire di che razza di animale si trattasse e alla fine si è giunti alla conclusione che questi fossero di taglia piuttosto piccola o addirittura dei muli. A questa battaglia seguirono molti trattati di pace, ma ben presto vennero tutti infranti. Quando gli europei assalirono dei pellegrini maomettani che si dirigevano alla Mecca, Saladino fece appello a una pratica islamica da tempo dimenticata: proclamò la “ gihad”[1]. La gihad è una guerra santa dichiarata a scopo difensivo e fu proprio questo annuncio a coalizzare i musulmani. La prima battaglia in gihad fu quella del monte Hattin (1187).

Continua... 



[1] B.S. Amoretti, ”tolleranza e guerra santa nell’Islam”, Firenze 1974.

 
 
 

Articolo sul mio convegno del 28 Marzo 2007

Post n°8 pubblicato il 05 Giugno 2007 da de_Molay88
 
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Chieuti : Processo ai Templari

un convegno per "rivalutare" la figura dei cavalieri Templari

Il 28 Marzo scorso, presso il teatro comunale di Chieuti, si è svolto un convegno culturale, che ha visto come relatore, Giuseppe Barile, studente al quinto anno del Liceo scientifico di San Severo, grande appassionato di storia medievale, che ha effettuato approfondite ricerche sull’ordine dei“Templari”, esponendole ad una platea interessata ed entusiasta.

Sulle scie delle polemiche nate intorno a questi leggendari “Cavalieri di Cristo”, impegnati nelle crociate dall’XI al XIII secolo, nel Basso Medioevo, polemiche riprese anche dal discusso libro e poi film di Dan Brown “Il codice da Vinci”, Giuseppe Barile, con grande personalità, ha saputo ridefinire i giusti confini che dividono la leggenda – spesso fuorviante e facile preda di inesattezze storiche – dalle vere gesta che contraddistinsero questi eroi.

L’essenza del convegno era cercare di spezzare l’alone di mistero che ha circondato per secoli l’ordine Templare, così da far riemergere gli ideali di fede, forza, coraggio che hanno contraddistinto e mosso queste semplici persone, pronte a combattere e ad immolarsi in battaglia nel nome di Cristo.

Sono risultati molto interessanti i temi riguardanti Hugues de Payen, il primo accertato fondatore dell’ ordine Templare. Secondo alcuni documenti, de Payen risulterebbe di origine francese, altri invece lo vorrebbero italiano con il nome di Ugo dei Pagani, precisamente nato a Nocera( in Campania).

Altro argomento toccante è stato quello concernente i disumani metodi di torture, che furono costretti a subire i Templari. L’ultimo argomento di Giuseppe Barile è stato più che altro, un appello rivolto al mondo ecclesiastico, perché riveda il processo ai Templari, riconosca l’innocenza dell’Ordine e consideri questi cavalieri prima di tutto come difensori impavidi della fede cristiana. Giuseppe Barile ha saputo ricostruire un memorabile spaccato di storia con grande professionalità, intrecciando momenti gloriosi e frangenti, ha intrattenuto per due ore circa, un pubblico vivacemente partecipe ed alla fine è stato ripagato con un diffuso consenso e un lungo caloroso applauso. Sarà ad esporre il suo interessante lavoro presso il museo civico di San Severo e presso il comune di Serracapriola in giorni ancora da stabilire.

                                                                             Armando Mercuri

Estratto da "La Portella". Anno XIV n°2(n°99)

 via A.d'Adamo, 19

71010 Serracapriola (FG)- Italy.

www.laportella.it - email: laportella@libero.it

 

 

 
 
 
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