Creato da unavocenarrante il 30/10/2006

Voci narranti

Un libero incontro di voci narranti

 

 

Pensiero notturno errante in camera mia

Post n°7 pubblicato il 18 Novembre 2006 da PedroBolos

Capita, invece, che un treno passi dalla mia stanza e si fermi al mio letto e rumore di ferro che si muove e binari dritti sensa sosta che parrebbero non finire mai  -  treno di pensieri sfuggenti e svolazzanti che viaggiano -
Un uomo potrebbe scegliere di vederli passare, seguirli muovendo il collo per afferrarne almeno uno - troppo veloci - allora si gira aspetta che passino e se ne va.
Un uomo potrebbe scegliere di vederli passare, seguirli muovendo il collo per afferrarne almeno uno - troppo veloci - allora si alza sale sul treno e si lascia portar via.
Scrive.
Non va ne forte ne piano, solo guardare, solo gli occhi fanno sapere - se vuoi - quale pensiero val la pena di fermare, quale si riesce a vedere oltre il finestrino e oltre gli alberi e le case, i campi e le strade, le colline che si muovono piano lontano e ancora più distante magari lo vedi - sembra un tramonto ma può essere un alba -  è lontano ma poi apri la mano e te lo ritrovi li.
Scrive un pensiero.
Non sa bene ancora cosa aspettarsi dal viaggio, quell'uomo in quel vagone stretto e l'aria ferma che sa di gente che passa, eppur tutto intorno gli alberi, le case e le colline e quel pensiero che inonda quasi tutto.
Non è proprio un pensiero, potrebbe esserlo, ma deve essere diverso, qualcosa che se cerchi di afferrare è peggio di una mosca, se cerchi di fermare ti travolge, se cerchi di aspettarlo non arriva, se lo scacci bussa insistente dentro gli occhi.
Scrive un pensiero, per fissarlo.
Vorrebbe aprire un po' il finestrino, quell'uomo, ma ha paura che scappi via, un uccello bellissimo dentro una voliera che vorresti vedere volare sapendo che sarà l'ultima volta, stringi forte il pugno chiuso e provi a immaginare quelle ali che si muovono piano per dipingere il cielo.
Scrive un pensiero, per fissarlo, per non lasciarlo volare via.
Sa, quell'uomo, prigioniero quel pensiero ne morirà.
Sa, se riuscirà a farlo suo diventerà impalpabile, chiuderà le ali lasciandosi cadere, e leggerissimo sarà foglia sul pelo d'acqua caduta piano senza rumore, inchiostro sbiadito su carta bagnata. 
Scrive un pensiero, per fissarlo, per non lasciarlo volare via, imprigionarlo e vederlo cadere.
Chiude gli occhi e ascolta il treno, annusa l'aria che sa di gente che passa, rallenta il battito, apre la sua mano e lo lascia volar via.
Nel cielo, dipinto da piume, il cuore di un uomo e un pensiero che meraviglia il mondo

 
 
 

Immagini di te

Post n°6 pubblicato il 08 Novembre 2006 da Elyrin
 

“Questa sera sarò il tuo cavaliere. Verresti a cena fuori, con me?”
Ecco le parole con cui ti ho accolta appena hai messo piede in casa oggi nel tardo pomeriggio. Avevo voglia di stare in tua compagnia e di passare una serata in un qualsiasi locale a rimirarti e bearmi di te. E poi, sinceramente, vorrei parlarti, chiederti una cosa; o almeno vorrei provarci.
E non resisto,sai?
Più ti osservo più diventa forte il bisogno di porti questa domanda. Lo so che è indiscreta e che la mia curiosità potrà metterti a disagio e magari irritarti al punto da tenermi il broncio, ma io devo farla, questa dannata domanda.
Ogni volta che con lo sguardo eviti qualcosa o qualcuno che non approvi e nel frattempo arricci il naso, ignara della buffa espressione che ti dipingi in volto, assumendo un aria da piccolo pipistrello rabbioso, ecco, in quei precisi momenti sento quell’interrogativo pulsarmi nelle tempie e danzarmi sulla lingua.
Chissà perché mi trattengo!
Probabilmente qualcuno direbbe che ho paura di una tua replica. Vero, è assolutamente vero. Devo ammettere che nutro un guizzo di timore quasi reverenziale nei tuoi confronti…d’altronde, come non potrei? La tua camminata è la prima tua caratteristica fra tante che mi salta in mente, così avida e rapida, quasi non avessi dita ai piedi, ma artigli affilati pronti a straziare il terreno di fronte a te. Ci credi che non mi stupirei se ti vedessi arrampicare su un albero con ai piedi i tuoi stiletti aguzzi? Probabilmente nemmeno cadresti, mentre io…io sarei proprio buffo!
E’ dolce osservare come i miei pensieri ricalchino la tua forma anche quando tu non fai nulla per stuzzicarli. Sei seduta qua, di fronte a me, sento il tuo profumo esasperantemente fruttato; se avessi un naso al posto degli occhi sarei convinto di aver a che fare con un qualche cocktail tropicale guarnito con frutta multicolore e sconosciuta.
Ti respiro.
Tu non fai caso ai miei occhi che giocano con le tue linee, non hai nemmeno idea dei pensieri che sto intrecciando ora, sei troppo impegnata a sfogliare il menù del ristorante in cui questa sera, in preda ad un raptus, ho deciso di portarti. Sei rimasta piacevolmente disorientata alla notizia, ma sei stata comunque pronta nel correre in camera ad imbellettarti e, dopo una breve attesa, sei riapparsa dalla stanza in cui ti eri nascosta, con un sorriso quasi più sfavillante dei tuoi tanti gioielli. Vederti così mi ha doppiamente reso fiero del mio fuori programma. Adoro farti risplendere.
Proprio ora mi rendo conto che dietro la poltroncina di verde velluto arabescato su cui sei seduta, ancora intenta a scegliere un piatto che sappia soddisfare in eguale misura la tua fame di estetica e le tue papille, c’è un grande specchio, immenso, che ricopre tutta la parete, riflettendo buona parte della sala del locale.
Come ho fatto a non accorgermene?
Sono stato vittima di un’illusione ottica: ero convinto di essere entrato in un arioso ristorante e ora invece mi rendo conto di essermi sbagliato a causa di uno specchio.
Curioso. Non che sia troppo piccolo ora, anzi, lo definirei più intimo, ma mi sorprende come i miei sensi siano ingannevoli e come i miei occhi non siano riusciti a valutare oggettivamente la realtà. Come se avessi quasi perso per un momento la capacità di osservare e avessi indossato inconsapevolmente una maschera le cui fessure erano rivestite di velina colorata.
Da dove sono seduto posso vedere riflessi l’ingresso della sala e i camerieri che vorticano fra i tavoli, interpreti di una strana danza dell’equilibrio tutta loro, eseguita in circostanze decisamente ostili. Vedo gli altri tavoli e i loro ospiti, alcuni immersi come te in un dibattito mentale sulla validità del gusto di un sufflè rispetto ad un altro, altri invece persi come me, a guardarsi attorno, ma persi soprattutto a guardare colui o colei, come nel mio caso, che ci sono seduti di fronte e, come vedo nella maggioranza dei casi, ci ignorano. Di certo non intenzionalmente. E’ solo che il menù al momento appare più interessante e fruibile di noi eremiti elucubranti che gli siamo di fronte. E come biasimarli, io farei altrettanto, in particolare ora che mi sto guardando in volto. Non sembra proprio che in realtà io sia sereno e tranquillo, tutt’altro, ce l’ho proprio scritto in faccia: devo farti quella domanda. E forse ti ho portato fuori solo per portela. Sono come una pellicola in negativo, per una volta gradirei che i miei muscoli facciali non si contraessero dettati solo dagli scuri malumori, ma anche dai bianchi sentimenti che mi animano. Mi sorrido e distendo le guance e con il piede sfioro uno dei tuoi. Rispondi alla mia periferica carezza, soprappensiero. Dal grande specchio di fronte a me posso vedere anche la tua schiena e il tuoi collo, nonché i tuoi capelli e tutte quelle parti di te che ti angosciano tanto, dal momento che non riesci mai a verificare se siano a posto o meno.
Bè, te lo dico ora: sei perfetta, simmetricamente impeccabile, rigorosa fino alla follia e tremendamente bella.
Questa mattina eri tutta trafelata, presa dai tuoi progetti giornalieri lavorativi, che sei scappata di casa dimenticando il tuo rossetto vicino alla tazza vuota di caffè. Quando me ne sono accorto ho riso, pensando all’orrore che si sarebbe dipinto sui tuoi occhi una volta arrivata in ufficio, dove ti saresti specchiata di sfuggita all’ingresso e ti saresti resa conto che il tuo viso aveva qualche tono di rosa in meno.
I brividi! Mi sono venuti per te. E non sia mai; ho preso lo stick e l’ho messo in una busta bianca insieme ad un biglietto con le parole: “a stasera ,arlecchino” e, mentre mi recavo al negozio l’ho lasciato alla reception della tua ditta, raccomandandomi che ti venisse recapitato non prima di una mezz’ora. Su, dai, un po’ di disperazione dovevo infliggertela, non trovi? Magari d’ora in poi deciderai di farne a meno, per me sei bella anche senza.
E’ l’intera giornata che raccolgo idee e parole per poterti chiedere ciò che fastidiosamente ed inopportunamente mi ulcera la mente e ora che è calata la sera non dispongo del vocabolario che mi sarei aspettato, accidenti. Vedo le tue dita amorevolmente smaltate girare l’ultima pagina del menù e quindi mi decido subito ad inventarmi quale piatto ordinare, o sarò io anche questa volta a fare la figura dell’eterno indeciso. Penso, penso…ma non mi viene in mente niente. Una novità. Quando arriverà il cameriere e inizierà la trafila della comanda le tue risposte e risate argentine lasceranno il turno al mio imbarazzato silenzio e ai miei “boh” detti con lo sguardo. Allora tu alzerai un sopracciglio con disappunto e ordinerai per me un piatto che volevi assaggiare ma che non volevi ordinare per evitare di sembrare ingorda. Buffo che ogni volta questo piatto si riveli delizioso e che tu voglia assolutamente fare cambio con uno dei tuoi perché non erano proprio come te li aspettavi,ahimè, poco male, tanto io sono onnivoro e mangio di tutto, anche i cibi neri, mentre tu no.
Accenno ad un colpo di tosse. Nello specchio vedo la tua nuca castana e liscia alzarsi un poco.
“Ho quasi deciso” mi dici.
“Anche io” replico.
Mi guardi e mi sorridi. Che ciglia lunghe che hai, non riesco a non guardarle. Le hai talmente lunghe che ti dà addirittura fastidio portare gli occhiali. Ogni volta che devi usarli è una commedia in cui io, da spettatore, mi godo le tue traversie con le lenti che ti piegano tutte le ciglia e ti tanno un fastidio insopportabile, senza contare che macchi i vetri con il mascara ed allora è davvero impossibile leggere in quelle condizioni. Mi chiedo come sarebbe la tua vita senza rimmel. Forse sembreresti meno gatta, ma almeno potresti mettere gli occhiali.
“Sai, c’è una cosa che mi gira per la mente…”accenno io, accarezzandomi il collo in un gesto di latente imbarazzo.
“Una cosa COSA?” mi rispondi.
Bella domanda. Se potessi parlare con la tua nuca sarebbe più semplice, sembra così indifesa, di certo potrei porle domande inaccettabili per i tuoi occhi, che sono la tua arma più affilata, quasi più delle tue fluide parole velenose.
“Una cosa sul genere di una domanda” formulo io. Stiamo per ordinare, forse non dovrei chiederglielo ma non resisto, le parole mi scappano di bocca disordinate e infantili.
“Chiedimi tutto quello che vuoi…Cameriere!” Alzi la mano per attirare l’attenzione di uno dei tanti ballerini che vorticano sullo specchio lucido, dietro alla tua nuca.
“Io…bè, ecco. Perché, perché hai rimandato tutto di nuovo?”
Ecco, l’ho detto. Mi sembra di scorgere due fiammelle che ti sbucano dalle narici.
“Mi sembrava di averti già spiegato le motivazioni della mia scelta, io…” La tua voce ha cambiato modulo.
“No, no, non voglio sapere il perché di questo in particolare” la interrompo “vorrei sapere perché tutte le volte che fai una cosa, qualsiasi cosa, come il letto la mattina, poi ripassi e lo rifai nuovamente. Anche oggi, in cucina; hai lavato un bicchiere e lo hai posato sullo sgocciolatoio. Poi poco dopo sei ripassata e lo hai rilavato. Ecco quello che mi chiedevo. Perché rifai sempre tutto?”
Lei mi guarda perplessa, come se le avessi fatto la domanda più sciocca della sua intera esistenza. Ma non fa in tempo a dire nulla perché arriva il cameriere. E’ affannato, ma cerca di non darlo a vedere, sorride plasticamente e si appresta a registrare i nostri desideri di una sera. Ordiniamo abbastanza velocemente. Il mio stomaco borbotta in sottofondo, ho una discreta fame.
Andatosene, il cameriere si avvicina ad un altro tavolo: stesso affanno, stesso sorriso: mi chiedo se non sia meccanico.
Attiri la mia attenzione toccandomi il dorso della mano.
“Non capisco bene ciò che dici. Non è poi vero che rifaccio tutto, mi piace solo verificare che ciò che ho sistemato prima sia in buono stato e che non abbia quindi più bisogno di essere risistemato.”
Decido di intavolare questa discussione con te, ma senza guardarti negli occhi, facendo scivolare il mio sguardo sulla tua guancia fino allo specchio e osservando la tua nuca, invece dei tuoi occhi, poiché mi sembra meno ingannatrice di loro, almeno per me.
Da anni non so più dove cercare la tua anima, ma ora mi sembra di averla ritrovata. Ed è a lei che parlo, come se mi stessi rivolgendo ad un ricordo o ad una fotografia impolverata.
“Non credo sia solo questo, è quasi un affanno, il tuo. Se scrivi un biglietto poi lo strappi e lo riscrivi, sempre. Mi chiedo se per caso tu non sia insicura di te stessa e di come fai le cose.”
“Io?Santo cielo, stai scherzando! Non ho certo fatto anni di terapia per sviluppare un’insicurezza patologica!Ti sbagli, stanne certo” Ghigni.
Dentro di me sorrido. Non oso farlo sul viso perché temo penseresti che ti sto prendendo in giro, ma non è così. E’ solo che ricordo il tuo temperamento di dieci anni fa, e di come tentennavi ogni momento per tutto e di come mi tenevi la mano per strada quasi avessi il timore che qualcuno ti avesse fatto inciampare di proposito. Eri molto più fragile, come la tua nuca ora, non che lo lasciassi trasparire ma io avevo il privilegio di vederlo, come mi sembra ora di vederla tremare riflessa nello specchio. Solo io posso farlo.
“Pensaci, per favore. Hai rimandato anche la festa del nostro anniversario. Eppure avevi organizzato tutto. Non credo sia solo precisione, temo ci sia qualcosa di più. Come se ti dessi da sola delle incertezze rivedendo tutto ciò che hai già fatto. Non inquisirti troppo.”
“Oh, che sciocchezza. Si chiama precisione, tutto qua, non ha altri nomi. Uh, guarda, sta arrivando il cameriere”
Il ragazzo si avvicina al tavolo con una bottiglia di vino, la poggia sul tavolo con charme preconfigurato e se ne va. Vuoi finire il discorso, perché non ti versi nemmeno da bere, nonostante poco prima ti fossi lamentata di avere sete. Si vede che l’argomento ti mette a disagio e mi dispiace.
“Tu prima hai parlato di incertezze…pensi sia sbagliato non essere sempre sicuri del proprio operato? Tu lo sei? E se per caso a me piacesse sentirmi disorientata?”
Disorientato. Come lo sono io ora mentre guardo te e poi il tuo riflesso nello specchio. Sembrano due persone differenti e continuo a chiedermi a chi mi stia rivolgendo in realtà e perché stasera io veda due te.
Resto in silenzio, per darti un poco di tregua e lasciarti sorseggiare il vino rosso, mentre rifletto sulla strana atmosfera creatasi stasera, con questo grande specchio di fronte a me e te che sembri trasfigurata. Dal momento che stasera mi rendo conto di essere in preda ad un inganno orchestrato da me stesso a mia insaputa, una domanda la vorrei porre a me stesso: qual è la tua percezione della realtà? Cosa vedi nella tua donna ora e cosa hai sempre visto in lei da quando la conosci? E colei che ora ti è davanti pensi sia reale? O la realtà è quella che lo specchio ti sta rivelando? Scruto con ansia le due donne e mi trovo più confuso che mai. Non avrei dovuto chiedere nulla, la mia domanda mi si è rivolta contro e ora l’insicuro dei due sono io.
Disorientato.
Come faccio dall’inizio di questa serata, ti guardo e cerco di capire se l’immagine che ho di te è distorta da una patina che ho ti ho messo addosso o che mi sono creato. Il tuo modo di muovere le mani e di sistemarti i capelli, il tuo sbattere le palpebre e lo nascondere uno sbadiglio: ti guardo ma non riesco più a trovare aggettivi per te. Che serata strana, e che strano questo specchio. Fra le due te quella che ora riconosco meglio è il tuo riflesso, sai?
“Guardati alle spalle” ti dico, curioso.
“Cosa?” mi dici più perplessa che mai. Stasera ti ho davvero esasperato e incuriosita.
“Voltati, guarda cosa c’è dietro di te” la incito. Voglio vedere una cosa. Voglio vedere se per caso lo specchio può aiutarmi nel mio enigma e può sciogliere i miei nodi, poicjè io sono annegato nella mia mente.
Ti giri lentamente ed esclami sorpresa quando vedi lo specchio, alto, e ti chiedi come tu non possa averlo visto prima e subito dopo sei già lì che controlli che il tuo viso sia tutto a posto. Stai tranquilla, sei bellissima, ogni imperfezione diventa virtù su di te, vorrei dirti. Poi ti vedo vagare con lo sguardo per la sala riflessa: ora vedi anche tu gli altri tavoli e la danza dei camerieri e all’improvviso vedi anche me, seduto dietro di te. E io rivedo te, seduta davanti a me. Ma dietro di te.
Mi sorridi e io replico la gradevole smorfia e ti osservo con grande intensità. Forse ora starai pensando che sono in preda ad un desiderio improvviso e incalzante, ma in realtà mi sto solo accorgendo che sei diversa riflessa in quello specchio, che le tue labbra sottili sono più incerte e i tuoi occhi scuri sono più profondi. Mi sembra impossibile, ma credo di riuscire a carpire i tuoi pensieri e ciò che ti preoccupa in questo esatto momento.
“Non preoccuparti, vedrai che le portate arriveranno subito”
“Lo spero, sai, ho una fame…” mi dici. Ma io sapevo che stavi morendo di fame, l’ho visto nello specchio proprio un secondo fa.
Distolgo un attimo gli occhi da te e cerco il cameriere, impaziente anche io per la lunga attesa e decisamente affamato, vista l’ora. Tu navighi ancora nelle acque argentee guizzanti di colore dello specchio. Sentiamo dei rapidi passi e ci voltiamo di scatto entrambi, speranzosi: ecco il cameriere con i nostri antipasti: che gioia! Affondiamo le posate nei cibi con puro piacere e ai primi bocconi siamo invasi da una sorta di delirio. Sono così preso dalle pietanze che per un poco non ti considero, che infame che sono. Ma prima di guardarti nuovamente osservo lo specchio imponente e la sagoma del ragazzo in divisa che ci ha servito che scompare dietro ad una porta. L’occhio mi scivola sulle tue spalle riflesse, intente a dondolare mentre tagliuzzi una fettina di formaggio francese decisamente odoroso; l’immagine non è cambiata, sei sempre la tu effimera di dieci anni fa, quando ancora non avevi dedicato giorni e giorni della tua vita a costruirti una in cui ti saresti rinchiusa ostinatamente, senza nemmeno lasciare uno spiraglio per me. Eri meravigliosa, come lo sei ora, naturalmente, ma non posso fare a meno di adorare l’immagine della donna a cui ho deciso di dedicare la mia vita.
“Ti piace il formaggio!” Mi chiedi. Così facendo mi costringi a guardarti per risponderti e…
“O-ottimo!Davvero…” rispondo. Ora si che sono decisamente disorientato. Sei tu? Qua, seduta di fronte a me, sei davvero tu?Che strano, eppure mi sembri più radiosa e più fragile, quasi sonora nei tuoi movimenti e con la curva delle spalle più dolce, più…
“Stai bene?” chiedo cauto.
“Eccome!Mai stata meglio, è un locale molto carino e mi sento davvero bene. Grazie.” Rispondi cristallina. E improvvisamente mi rendo conto che alle tue spalle, riflessa allo specchio, la tua immagine è cambiata.E’ rigida.
Per qualche secondo mi spavento, convinto che tu sia stata risucchiata dallo specchio e che lui abbia sostituito il tuo riflesso a te. Oppure che questo abbia rubato i miei occhi e mi abbia restituito quelli di un tempo. Sono cosi’ turbato che mi dimentico di mangiare. E mentre tu invece ti godi quelle delizie io ti osservo, ti osservo e mi chiedo: perché, perché…perché lo specchio ora riflette la mia visione di te degli ultimi anni? Perché ora sto capendo che per quasi una vita ho percepito di te solo la forza, mentre ho sempre rifiutato la tua debolezza, che era la caratteristica più affascinante e dolce di te? Con cosa mi hai rubato il cuore tu tanto tanto tempo fa? Te lo ricordi? Io si. E’ stato lo stesso modo di accarezzarti il lobo dell’orecchio che vedo ora, questo tuo inconscio gesto dettato forse solo dalla paura di perdere il prezioso orecchino, ma eseguito con una leggerezza tale da lasciarmi incantato, quasi fosse un movimento magico.
La cosa più folle è vederti muovere un braccio nella realtà e al tempo stesso vederti non farlo nel riflesso dello specchio.
‘E’ la mia mente’, mi dico. Oppure più semplicemente è lo specchio che ha illuso la mia realtà imprimendomi la sua. Si, è sicuramente così, perché ora ti vedo più mia.
E mi sto giusto chiedendo come sia successo che i miei occhi ti hanno persa per tanti anni che mi chiami e mi dici: “Il secondo è arrivato da un po’, non vorrai mica lasciarlo raffreddare, vero?”
E mi sorridi, dolce e piena di luce. Io afferro una forchetta e inebetito mi tuffo nelle tue fossette sulle guance felice di averti di fronte e di averti portato qua e di averti guardata in due modi diversi nello stesso tempo, ma soprattutto felice di aver ritrovato la donna grazie a cui ho imparato ad assaggiare la vita.
Non guarderò più lo specchio per il resto della serata, ma quando sarò a casa la prima cosa che farò sarà quella di trascinarti davanti a quello della camera da letto e di scambiarci lì di fronte un bacio appassionato e sincero, cosicché, fra non so quanti anni, potrò riguardarti riflessa nella stessa superficie e magari riscoprire che, come un idiota, i miei occhi hanno disimparato nuovamente a guardarti, ma che, grazie ad una nuova illusione, potrò riaverti come ti ho riavuta stasera.

 
 
 

Quella volta al Distretto Nord

Post n°5 pubblicato il 07 Novembre 2006 da rdevil0

“Quella volta al distretto Nord”
di Riccardo Pastorello

Il bastardo sedeva arrogante sulla seggiola della sala degli interrogatori mentre il detective leccava sfacciatamente una Marlboro per indurre il sospettato a chiedergliene una.
Il suo collega Jack Darmon si gustava la scena da dietro lo specchio invisibile.
Jack e Steve Stanson si conoscevano sin dai tempi della scuola addestramento reclute e dopo 12 anni di vita passati insieme sulle strade di Chicago si consideravano culo e camicia e i migliori cazzuti poliziotti del distretto nord.
Il sospettato, un certo Jason Pardy, 45 anni bianco, con il viso illuminato da una lampada da quattro soldi dell’Ikea aveva il ghigno contorto in una smorfia che tradiva il suo desiderio disperato di una paglia.
Con il grosso culo incastrato nella sedia con i braccioli, sottratta alla sala briefing, e i gomiti appoggiati al tavolo rettangolare di formica gialla tutto chiazzato di bruciature di sigaretta il sospettato voleva sembrare un duro ma aveva piuttosto l’aria di un pugile suonato, un peso massimo per l’esattezza dati i suoi 110 chili e un torace da armadio ambulante.
Dopo averla tutta sbiascicata di saliva nel corso dei dieci minuti in cui, girandogli continuamente intorno aveva incalzato Jason di domande, finalmente il detective Stanson si accese la sua sigaretta.
“Ora ci divertiamo” pensò Jack da dietro lo specchio.
Stanson prese la lampada e gliela sparò a 20 centimetri dalla faccia, si abbassò all’altezza degli occhi di Jason e guardandolo fisso estrasse una seconda sigaretta dal pacchetto e facendo il gesto di avvicinargliela alla bocca gli disse : “ Te lo chiedo per l’ultima volta…Se mi dici come sono andate le cose ti passi un bella nottata in gattabuia con tutte le sigarette che vuoi e magari ti procuro anche due caccole di fumo di quello buono. Poi ti svegli, andiamo dal giudice che ti fissa la cauzione, la fai pagare a quello stronzo di tuo fratello e se siamo fortunati alle 11 di domani mattina sei fuori. Altrimenti, se mi fai incazzare ti lascio qui tutta la notte nella sala degli interrogatori in compagnia del mio compare Jack che ti assicuro è un tipo piuttosto incazzoso e a volte gli scappa di usare le mani, mica come me..”.
Jason, ormai alla seconda ora di interrogatorio, aveva già cominciato a perdere la spocchia e a quel punto cominciò a piagnucolare: “Dammi questa cazzo di sigaretta, ok ti racconto tutto ma mi devi credere non sono stato io… però ero presente e ho visto tutta la scena…e toglimi la luce dagli occhi.”
Stanson rimise la lampada da scrivania sullo schedario accanto alla porta della saletta e rivolto allo specchio fece l’occhiolino sapendo che Jack dall’altra parte avrebbe inteso che l’usignolo aveva cominciato a cantare e non ci sarebbe stato bisogno del suo intervento per spaventarlo ulteriormente.
Guardando verso lo specchio solo per una frazione di secondo a Stanson parve di intravedere la faccia di Jack al di la del vetro, ma pensò di essersela immaginata.
Jack in effetti si rilassò e da seduto allungò i piedi sulla scrivania di fronte allo specchio invisibile che dava sulla saletta degli interrogatori. Da quella posizione si poteva vedere nella saletta senza essere visti e attraverso l’interfono si poteva sentire tutto.
Era contento di essersi risparmiato quella scocciatura, a lui non piaceva mai fare la parte del poliziotto stronzo ma quella sera aveva perso a pari e dispari con Steve e quindi sarebbe toccato a lui recitare quella parte.
C’è una sola cosa che può far rompere una amicizia ultradecennale e ipercameratesca fra due uomini come quella che legava Steve e Jack, e quella cosa aveva appena varcato la soglia della stanza dove si trovava Jack: il suo nome era Veronica e il genere era “appariscente” per usare un eufemismo.
Veronica era quel genere di donna che non si accontenta di essere al centro dell’attenzione del gruppo di uomini che frequenta, ma li vuole dominare e manipolare a suo piacimento per soddisfare la sua smisurata vanità ed il suo infinito egocentrismo.
Era entrata in polizia nove mesi prima, era ambiziosa e fin dai primi giorni aveva fatto il filo a Steve ritenendo che una relazione con il detective più brillante e rispettato del dipartimento potesse aiutarla nei suoi primi passi in quell’ambiente estremamente maschilista.
Non era particolarmente intelligente ma era furba e con l’esperienza aveva capito che era molto più efficace adoperare con gli uomini di certi ambienti la seduzione del corpo che quella del cervello.
Da lei nessuno si sarebbe aspettato un trattato di criminologia o una analisi del profilo psicologico di un assassino, ma molti si sarebbero stupiti se un giorno si fosse presentata negli uffici del dipartimento senza la sua divisa ritoccata ovvero gonna accorciata sopra il ginocchio, camicetta sempre scollata e calze velate, al limite del regolamento, con tacchi di 10 cm.; per non parlare di come si conciava quando era destinata alle missioni in borghese.
Steve ovviamente non si era fatto pregare ed erano finiti presto per andare a letto insieme pur mantenendo entrambi, sul lavoro e in ufficio, alla presenza dei colleghi, un atteggiamento discreto e distaccato l’uno nei confronti dell’altra.
Comunque Steve non era uno stupido e aveva compreso con che genere di donna si era messo.
Ben lungi da lui quindi l’idea di innamorarsi seriamente di Veronica. Lui la considerava come uno splendido trofeo da esibire nei confronti degli altri maschi ed un accessorio che contribuiva ad accrescere la sua aurea di supermaschio agli occhi del genere femminile. Inoltre era un piacevolissimo trastullo nelle rare pause del lavoro.
Il punto era che Steve era un ottimo detective, forse il migliore, ma non era ambizioso. Jack, invece, lo era eccome.
Da quando era entrato in polizia non aveva smesso di studiare e di prendere diplomi per migliorare il suo curriculum ed al dipartimento si diceva che fosse in lizza per la prossima nomina a tenente.
Veronica con il suo senso pratico ed il fiuto per il cavallo vincente, al momento in cui era entrata nella stanza dove c’era Jack, era già una settimana che faceva la gatta morta con lui.
Gli si avvicinò con camminata lenta e ondulata, prese una sedia e si sedette il più vicino possibile a Jack.
- “Complimenti ragazzi” - disse: -“sembra che il porco che avete incastrato abbia deciso di spifferare il nome del pesce grosso. Un’altra tacca sul Vostro numeroso elenco di casi risolti brillantemente”.
- “Che c’è, Veronica, sei gelosa dei tuoi colleghi?” – ribattè Jack.
- “Di voi due non potrei mai essere gelosa. E poi siamo una squadra, no? Devi riconoscere che il lavoro d’ufficio che ho svolto su questo caso vi ha dato un mano notevole, sopratutto la ricerca su internet dei siti illegali di scommesse clandestine” – rispose Veronica.
- “Senti, Jack”- lei aggiunse – “questa mattina mi sono slisciata un po il capo ed alla fine mi ha confidato che la tua nomina a tenente è cosa quasi fatta. Sarò anche l’ultima arrivata, ma quando ho saputo che avevano pensato a te per la nomina mi sono data da fare per tessere le tue lodi ed un po di influenza credo di essere riuscita ad esercitarla”.
- “Ah si? E come?” - Fece lui sarcastico.
- “Uomo di poca fede” – e così dicendo allungò la mano sinistra sul cavallo dei calzoni di Jack, attese una attimo per percepire la sua reazione e quando fu certa si
tolse le scarpe, si alzò e salì a cavalcioni sulle gambe di Jack e cominciò a sbaciucchiarlo sul collo e poi piano piano più su fino alla bocca.
Jack all’inizio rimase passivo e poi pensò “al Diavolo..” e cominciò a partecipare realizzando che avrebbe potuto finalmente soddisfare le fantasie erotiche che si era fatto su di lei, oltre che procurarsi una occasione per sbarazzarsi di una presenza ingombrante al dipartimento.
Lui non la voleva in “squadra” come diceva lei e non aveva mai gradito la sua relazione con Steve.
Anche se a livello di attrazione fisica a Jack Veronica faceva girare la testa, la considerava una donna pericolosa dalla quale potevano scaturire guai e casini a non finire.
Le nuove tecnologie a volte possono giocare brutti scherzi e quella sera fu una di queste.
Siccome una settimana prima la lampada al neon della sala degli interrogatori aveva cominciato a ronzare e a diventare intermittente prima di spegnersi definitivamente , venne fatta immediata richiesta all’Ufficio Economato e Manutenzioni per provvedere alla sua sostituzione.
Con i tempi biblici con i quali intervenivano quelli della manutenzione si decise di provvedere temporaneamente.
Fu così che Steve si recò all’Ikea per comprare una di quelle lampade snodabili da scrivania e due cuscini rossi che si intonavano alla grande con il divano del soggiorno nel suo bilocale da scapolo di fronte al parco del centro; il tutto in un unico conto spese a carico del dipartimento, ovviamente.
La lampada in questione era l’ultimo modello in termini di tecnologia dell’illuminazione, il commesso che gliela descrisse la definì “a cristalli alogeni di quarzo anodizzato”.
In effetti faceva una bella luce bianca, ma naturale, simile a quella di una bella mattina di maggio con cielo azzurro poche nuvole e uno scarso grado di umidità.
Il punto però era un altro: quei particolari cristalli utilizzati in questa modernissima lampada ancora poco diffusa, dopo due ore di funzionamento si surriscaldavano e cominciavano ad emettere dei raggi ultravioletti che indirizzandosi verso il finto specchio della sala degli interrogatori ne vanificavano la sua preminente caratteristica, ovvero quella di sembrare un semplice specchio agli occhi di chi guardava dall’interno.
Quando a Steve parve poco prima di vedere il viso del suo compare Jack guardando il finto specchio in realtà ciò non era stato frutto della sua immaginazione ma l’effetto della lampada dell’ Ikea che cominciava a surriscaldarsi.
Passati altri dieci minuti Steve, ancora nella saletta degli interrogatori in compagnia di Jason, che ora stava cantando a macchinetta, casualmente rivolse di nuovo lo sguardo allo specchio e la sua faccia si contorse immediatamente in una espressione prima di stupore inebetito e poi di rabbia incredula.
Invece della sua faccia riflessa vide Jack e Veronica contorcersi selvaggiamente l’una sull’altro ignari di tutto.
Steve, accecato dalla rabbia, si alzò prese la sedia su cui stava seduto e la lanciò con tutta la sua forza contro lo specchio mandandolo in frantumi, si tolse la sigaretta di bocca e la spense sulla mano di Jason che nel frattempo aveva cominciato a ridere sbattendo le sue manone sul tavolo di formica.
Jason urlò inveendo per il dolore contro il detective che ormai era già uscito dalla saletta per precipitarsi come una furia nella sala attigua dove Veronica e Jack stavano appena cominciando a realizzare ciò che era successo.
Il risultato fu una mandibola slogata per Jack, la rottura dell’osso scafoide della mano destra per Steve, in seguito all’impatto del suo pugno sulla faccia del compare, ed una ferita a labbro inferiore per Veronica dovuta ad un manrovescio ben assestato.
Da quel momento e per i sei mesi successivi i due amiconi Steve Stanson e Jack Darmon non si rivolsero la parola fino al giorno in cui Jack rimase ferito ad una spalla in una sparatoria nel tentativo di sventare una rapina.
Quando Steve andò a trovare l’amico in ospedale decise di perdonarlo e i due convennero che per una come Veronica non valeva la pena rompere una amicizia.
Veronica dal canto suo in un primo momento cercò di fare la vittima col capitano ma quando si rese conto che il vecchio non se la sarebbe bevuta chiese il trasferimento.
Due anni dopo nel corso di un processo nel quale venne chiamata a testimoniare per conto dell’accusa ebbe modo di fare la conoscenza del giovane e rampante procuratore distrettuale John Daly. Dopo solo un mese di frequentazione lui le chiese di sposarlo e lei accetto nonostante non si potesse definirlo proprio un bell’uomo. Finanziato e portato avanti dalla lobby delle armi, venne candidato alla presidenza dal partito repubblicano alle presidenziali del 2016, dopo otto anni di governo dei democratici e dopo che la lobby del petrolio rinunciò a presentare un suo candidato, avendo già fatto eleggere in precedenza due loro presidenti.
Contro tutte le previsioni e con sorpresa generale di tutti, dai media agli osservatori politici internazionali, vinse le elezioni con uno scarto minimo di voti ( i più maligni riferirono che vinse con uno scarto ancora inferiore a quello che permise a Bush junior di prevalere sul candidato democratico dopo la presidenza di Bill Clinton) e divenne così il presidente più giovane della storia degli Stati Uniti d’America.
Veronica diventò invece la First Lady più giovane che avesse mai ospitato la Casa Bianca, anche se a vederla in quel contesto e col suo nuovo look da signora perbene dell’alta borghesia americana dimostrava più della sua età. Naturalmente aveva avuto un ruolo determinante nella rapida ascesa del marito grazie soprattutto al suo talento naturale per le pubbliche relazioni ed anche alla Casa bianca fu in grado di dire la sua su determinate scelte.
Una di queste scelte, peraltro molto discussa e osteggiata sia dai vertici della Cia che dell’FBI, fu quella di avvalersi per la sua sicurezza personale di una squadra di guardie del corpo private rigorosamente selezionate fra i migliori professionisti e assunte da lei stessa.
Memore dei bei tempi andati aveva ricontattato Steve Stanson e Jack Darmon per chiedergli se volevano dirigere la Squadra speciale per la sicurezza del Presidente e della First Lady.
I due compari che da qualche anno avevano lasciato la polizia per aprire una ben più remunerativa agenzia di investigazioni privata, lusingati ed intuendo la pubblicità e il prestigio che questo avrebbe recato alla loro attività accettarono l’incarico.
La sera della vigilia dell’attacco simultaneo dell’aviazione americana a Iran Siria e Giordania del 16 novembre 2016 i tre amici Steve Jack e Veronica cenarono insieme alla Casa Bianca e mangiarono e risero, bevvero e scherzarono rievocando le loro avventure e festeggiando senza rimpianti quella memorabile serata di sette anni prima in cui, in quella squallida sala degli interrogatori del distretto di polizia nord di Chicago, una lampada ed uno specchio cambiarono la loro vita.

 
 
 

60 giorni di caffèlatte

Post n°4 pubblicato il 05 Novembre 2006 da PedroBolos
 

Oggi ho avuto la conferma di non avere il naso.

Soave, intenso, deciso, delicato, aromatico, misto, essenziale, a diamante, a stella, a fiore, di vetro, di plastica, nessun profumo, possibile che mi sembrano tutti uguali? la bella commessa cominciava a fulminarmi con gli occhi e le si smontava l'acconciatura.

Prenderò questo me lo incarti?

Al caffèlatte non c'era. A forma di tazza nemmeno.

Quello si che lo sento il caffèlatte. Mi è rimasto appiccicato ai peli del naso e arriva a essere un suono incasinato di tante voci e cucchiaini che sbattono. Quanti eravamo in quella mensa? tantissimi, a perdita d'occhio. Tutti col caffèlatte che la stanza era impregnata di quell'odore e le mani che insieme tirano su la tazza tonda anche.

Scusi ce l'ha al caffèlatte? No non potevo chiederlo.

Gelsomino, tiglio e rosa - muschio bianco, funghi e pino silvestre...Ma chi è nato a Milano come fa a sapere e ricordare questi odori?
Fosse stato asfalto, foglie secche e lavori in corso allora l'avrei riconosciuto.
O magari caffèlatte.

Acqua di colonia la chiamano. Ma della mia colonia non c'è traccia in quell'odore.Fosse stato caffèlatte allora si. Fosse alla radice di quell'erba che sapeva vagamente di menta, ecco ci siamo..ma quale colonia? e come si fa a divertirsi in una colonia che ha quell'odore sbiadito?

È carina la commessa, glielo potrei raccontare ma non credo il suo nasino capisca i miei odori.

60 giorni di caffèlatte, 2 mesi senza macchine e tram al mare 20 anni fa e come cazzo faccio a ricordare così bene gli odori e i particolari? adesso non ricordo ieri così bene, si invecchia o ci si distrae troppo da grandi.

Giocavo con Eolo che aveva fantasia nei giochi ed era divertente e quasi mai a pallone ma all'avventura così si chiama ogni volta scoprire qualcosa di nuovo. Anche a Milano facevamo l'avventura prendendo a caso il tram o gironzolando per strade di una direzione sola e essere in posti dove non ci sei mai stato per raccontarlo domani agli altri. Entrambi troppo liberi per la nostra età e fortunati che mai qualcosa di troppo brutto ci sia capitato, girovaghi piccoli in una città dai confini concentrici e noi gocce in mezzo.Ogni avventura un nuovo cerchio...La colonia non aveva tanti cerchi, tutta recintata non come a scuola che si usciva dal passaggio dietro, da li non si usciva, a dire la verità non ci abbiamo mai provato e perchè? Avevamo tutto a pochi passi e di segreti e avventura io e Eolo ne trovavamo ogni giorno. Scavavamo buche per raccontarci i nostri sogni, mangiavamo radici di erba che raccoglievamo di nascosto - ecco perchè erano buone- dalle maestre che troppo spesso ci perdevano di vista. Anche le cucine avevamo il fascino del proibito, Eolo ci voleva sempre andare ed era lui il capobanda io gli guardavo le spalle e lui ci metteva la faccia, non avevamo coraggio, solo curiosità.
Eravamo in 4 in squadra, Carmen e Cristina erano con noi anche quando alla fine siamo entrati nelle cucine. La soddisfazione fu riuscirci, non la cucina in se per se che non ricordo neanche, ricordo solo quando abbiamo aperto la porta di notte perchè di giorno c'era sempre qualcuno e noi non capivamo perchè. A casa si cucinava all'ora di pranzo o cena, li sempre, in continuazione la cucina fumava e ci chiedevamo cosa mai facessero tutto il giorno. eravamo almeno tantissimi bambini...a voglia sfamar bocche ma a questo ci arrivo adesso che non ho più fantasia. Allora era tutto diverso e preso per mistero la cucina si rivelò solo una forma di esercizio nell'esser ladri e arrivarci di notte fu straordinario. Ci servì molto perchè ogni anno dei 5 trascorsi si verificavano furti negli armadietti delle camerate miste dove imparai le primissime cose sulle donne, e la cosa inquetava un po' tutti. Le trappole negli armadietti non funzionavano, perchè non era di notte che avvenivano i furti. Eolo si guardò attorno e cosi io a cercare qualcuno che non giocava a calcio come noi, che non seguiva le maestre nei loro giochi o nell'aula con la tv, qualcuno che si appartava come noi e scavava buche e fischiava in un osso di albicocca...ma si disinteressava delle cucine e puntava agli armadietti. Nel nostro territorio di caccia NO. Individuato il gruppo di un altra camerata mista più grande di noi iniziamo a seguirli e spiarli, li vediamo infilarsi di soppiatto nei corridoi e nelle stanze, aspettano loro e aspettiamo noi. Dobbiamo beccarli mentre rubano, essere sicuri, certi che lo avrebbero fatto. e invece niente. non succedeva niente. Inevitabile ci incontriamo nel corridoio e occhi di sfida ci si guarda. un film di bande di ragazzini. e invece siamo complici e innocenti tutti. Entrambe le bande cercano il ladro e allora via che ci si organizza per riempire la colonia e cercare di beccare il colpevole sul fatto. Detto fatto una guardia notturna, cioè quella che abbiamo dovuto superare per arrivare nelle cucine e che controlla le camerate miste durante la notte leggendo il giornale, verso sera prima del servizio si trasforma in ladro e fruga negli armadietti portando via quel che c’è. Poca roba a dire il vero ma non importa, l’abbiamo beccato. E due bande che si uniscono e dicono la stessa cosa fanno paura. Eolo è raggiante, goffo e spettinato come al solito ma sempre il mio eroe. Gongola lui e Carmen e Cristina, io li guardo soddisfatto e penso, loro sono i miei  amici. Non abbiamo ricevuto premi o cose del genere, anzi tutto si è taciuto ma nel cuore sapevamo di essere grandi di aver sconfitto un nemico nelle trincee della colonia, in quell’odore di caffèlatte eravamo cresciuti e lei non ce lo aveva.

Scusi ce l'ha al caffèlatte? E poco importa se mi guardi male, il ladro io e Eolo l’abbiamo preso…

 
 
 

INCONTRO di Pietro Bolognini

Post n°3 pubblicato il 30 Ottobre 2006 da PedroBolos
Foto di unavocenarrante

Dalla mia posizione potevo vedere, in lontananza, un albero solitario, un pino marittimo. Di solito se ne vedono distese, pinete intere a pochi passi dal mare.Sembrava essersi smarrito e stanco essersi posato in quello che forse ha scambiato per il mare, una distesa d’acqua che per colore poteva ricordarlo. Ma è un lago anche se azzurro come il mare.

Un pino solitario che guarda il lago e sembra dirgli:” Se sei mare allora hai bisogno di un pino come me sulla tua riva” Chissà se si è reso conto di essersi sbagliato?

A fianco del suo tronco mi sembrava di scorgere una figura, un uomo o forse una donna, immobile per lungo tempo. Alzavo saltuariamente lo sguardo dal galleggiante che proprio non ne voleva sapere di andare giù, e la ritrovavo sempre ferma, immobile, statua.

Pensai che fosse qualcosa che rassomiglia ad un uomo ma è tutt’altro.

Verso il tramonto decisi che era meglio lasciar perdere di pescare, alzai lo sguardo ritrovando il pino solitario ma non la figura. Al suo posto la lunga ombra dell’albero e del suo cappello di aghi.

Ripresi la stradina verso casa e non ci pensai più.

Deluso da non aver pescato nulla e dal pensiero dello sguardo compiaciuto di ragione di mia moglie decido di insistere e di ritornare il giorno dopo armato di nuove esche, tanta pazienza e un seggiolino per stare più comodo.

Riprendo posizione, metto l’esca viva con disgusto sull’amo, lancio, mi siedo e aspetto.

Siamo io da una parte e il pino dall’altra. Tra noi il lago e vicino al pino ancora quella figura immobile e sfuggente insieme. È molto lontana ma sforzandomi per curiosità mi sembra essere una donna, vestita di verde e rosso ma non distinguo bene nulla, anche i colori sembrano sfuocati e non saprei dire se quel verde è un riflesso della vegetazione e quel rosso un raggio caldo di sole che si specchia nel lago.

Continuo a fissare il galleggiante senza soddisfazione.

Mi distraggo per non stufarmi, ascolto il leggero sciacquettio delle piccole ondine provocate dalla brezza e lo starnazzare di oche o anatre che siano su tutto il perimetro del lago. Formiche intorno a me e mosche stanche, odore di erba vecchia e di foglie secche. L’autunno è già arrivato e le fronde degli alberi e gli arbusti chinano la testa e assumendo quel colore rossiccio sulle cime, come se si vergognassero.

Verde e Rosso. È ancora li.

La prima occhiata è la più distinta e la vedo. Donna sicuramente, verde e rosso come gli alberi, come gli arbusti, come se anche lei sentisse l’autunno arrivato e se ne vergognasse.

Raccolgo tutto e continuo a camminare per la strada verso un pino solitario che ha scambiato un lago per il mare.

A poca distanza rallento il passo per guardare più a lungo e osservare con insitenza ma discrezione.

Di fianco al pino, ma non sotto, una sottana verde leggera prende la forma delle gambe aiutata dal vento, un maglioncino verde più scuro intreccia le sue maniche da dove spuntano le lunghe mani affusolate, chiare, quasi bianche, il rosa solo un effetto perlato alla luce radente.

Lisci, morbidi come su un altalena dondolano al vento folti capelli rossi, rame puro che si accende con bagliori forti anche al pallido sole che c’è.

Mi avvicino sempre più piano, per vedere di più e più a lungo, per arrivare a scoprire del tutto quella figura che da lontano mi era sfuggita ma che aveva tanto impressionato i miei occhi.

Come una foto che si sviluppa e diventa sempre più nitida, ne colgo i particolari del disegno della gonna, le scarpe chiare e piccole, un elastico al polso per domare quella criniera di leone se avesse voluto andarsene col vento, un immobilità innaturale che la faceva diventare parte della vegetazione e del lago. Guardava dritto avanti a se, fissa, immobile, intensa.

Goffo. Mi sento goffo. Arrivo carico della cassetta da pesca, il seggiolino, la canna e un berrettino improbabile.

Mi fermo di fianco al pino che adesso è enorme, molto più grande di come l’avessi immaginato da lontano, e maestoso, fiero di aver reso un sevizio al suo mare. Io da una parte, lei dall’altra

Appoggio tutto a terra. Guardo il lago nella stessa direzione di lei. Da qui si vede interamente, da qui si sovrasta tutto il lago e per questo il pino ha scelto questo posto, una posizione dominante.

Silenzio.

Lei fissa, io no, guardo il lago e guardo lei, guardo lei e guardo il lago, guardo il lago e guardo i suoi occhi, stesso azzurro, stessi riflessi verdi tanto da confonderli, tanto da chiedermi se non stessi guardando la stessa cosa.

Guardo ancora il lago e da qui si vede bene la discesa dove stavo pescando, lei sicuramente mi avrà visto ieri, forse anche oggi. Un incontro. Anche se da lontano in qualche modo ci eravamo già conosciuti e questo mi dava coraggio.

Un minuto o forse più, noi tre a guardare il lago, tre pini solitari, tre sguardi sul lago e non una parola, non un movimento.

“È bello qui…” avevo rotto il silenzio, lanciato il primo sasso.

Ancora silenzio.

“Ci vengo a pescare, quando posso, ma credo non ci siano pesci. Neanche l’ombra.”

“ Potrebbe essere più bello a ben vedere.” ––––– “ Nuotano, non tanti ma nuotano”

Guardai ancora l’acqua…Nuotano?

“Vieni spesso qui?…Mi è sembrato di vederti anche ieri, io ero laggiù sulla riva che pescavo, mi hai visto? Non ho preso niente.”

Era ancora immobile e intenta verso il lago

“No, infatti, ci sono tutti”

“Come?”

“I pesci, ci sono ancora tutti e nuotano.”

Guardai ancora l’acqua…Ci sono tutti? Nuotano?

“Stai aspettando qualcuno?”

Silenzio

È bella, naturale, naturalmente incastonata nel verde e nell’acqua, stride col pino che è li per sbaglio anche se non lo sa, lei sembra esserci nata in quel posto, sembra esserne parte.

“L’estate” ––––– “C’è più acqua d’estate e più colore a riva”

Ma l’estate è appena passata, e il lago si sta asciugando restringendosi scoprendo da una parte l’argine ripido, dall’altra il fondo fangoso creando una spiaggia che reclina dolcemente verso l’acqua

“Ma siamo in Ottobre, io non credo che…”

I suoi capelli erano colore del tramonto d’estate, intensi, i suoi vestiti sono foglie verdi e corpose dell’umida calicola estiva, gli occhi verde e azzurro mare, la pelle chiara di luce di stelle.

Lei non sembra vivere d’Ottobre

“D’estate deve essere meraviglioso, qui. Ci vieni anche d’estate?

Non sapevo più che dire, le sue risposte mi spiazzavano e le mie domande erano così stupide…

“Non l’ho mai visto d’estate.” ––––– “Per questo aspetto e guardo”

“Cosa guardi?”

“Il lago e aspetto di vedere l’estate”

“Ma non puoi aspettare tutto l’inverno qui, farà freddo tra poco”

Silenzio

Scalcio un sasso dalla stradina di ghiaia, arrabbiato e stizzito dalle sue risposte che mi rendevo conto di non capire. Dal suo sguardo sempre fisso in avanti su cosa davvero non l’ho ancora capito. Che cosa guardasse davvero era ancora un mistero.

Io guardavo lei, il pino e il lago, il sole iniziava a raggiungere le cime degli alberi sull’altra sponda.

Mi stavo preparando a guardare il tramonto, almeno qualcosa da guardare, almeno avremmo guardato qualcosa assieme.

“È tardi. Devo andare”

Non mi guarda neanche adesso, neanche mentre saluta, si gira, chiude gli occhi e si incammina con passo veloce. In pochi istanti non la vedo più. Il tramonto adesso ha perso tutto il suo fascino.

Mi sveglio in un nuovo giorno e ripenso ai pesci che nuotano..io non ne ho visti ma mi ha dato fiducia sapere che ci sono, almeno per lei. Riprendo la mia canna, il seggiolino, la cassetta con le lenze e lascio il cappellino a casa.

Arrivo molto presto e lei non c’è, vedo dalla mia posizione solo il pino. Chissà se aspetta anche lui?

Sistemo le lenze, riordino la cassetta, perdo tempo. Guardo il lago e mi sembra ancora più piccolo, meno acqua di ieri e un colore sulle rive più sbiadito, sarà il cielo grigio che intristisce tutto, sarà che il pino mi seMbra lontano, sarà che ancora lei non si vede.

Mentre apro rassegnato la canna, alzo lo sguardo e tra nuvole che si appoggiano pesanti nel cielo, improvvisa appare, ferma nella stessa posizione di ieri quasi non si fosse mai mossa da li, quasi aspettasse il momento per sbocciare e poi mostrarsi nella sua bellezza.

Lancio, il galleggiante in acqua - nuotano tutti - mi siedo e agito stupidamente la mano verso di lei. Non so se mi ha visto, non so che cosa guarda, non ho capito neanche se e cosa aspetta - l’estate -

Rimango immobile e mi costa fatica, l’aria si è rinfrescata e a star fermo ci si raffredda, lei non si muove, ancora statua, non un cenno verso di me, non un movimento verso nulla. Giurerei che anche qui favolosi occhi verde azzurro mare siano fissi verso qualcosa. L’estate? I pesci? Cosa?

Vedendo quegli occhi chissà se al pino viene qualche dubbio sull’identità vera dell’acqua?

Passa del tempo, lei è il mio galleggiante, devo vedere se si muove, se da un cenno qualunque.

Niente. Il galleggiante almeno dondola sull’acqua. Lei è immutabile.

Decido di muovermi io, raccolgo tutto e mi incammino piano.

Riprendo la posizione di ieri, accenno un sorriso che muore li sapendo che non verrà visto, a meno che non sia il lago a sorridere, e forse neanche quello, appoggio tutta la mercanzia e aspetto..

Sicuramente il pino si è accorto della mia presenza, magari lo saluto. Lei non so se mi abbia visto arrivare.

“Ci sono ancora tutti…non ho preso nulla neanche oggi”

“Non hai freddo, qui ferma al vento?”

Sembrava lei l’estate e mi accorsi di avere fatto ancora una volta una domanda stupida

“C’è vento e quei fiori di ciliegio laggiù si muovono come una danza comune. C’è una brezza decisa oggi”

Ecco cosa guarda….fiori di ciliegio. Si ma dove?

“Dove?”

“Dove sono?”

Silenzio

“Domani sarà ancora più freddo, se vieni anche domani copriti di più o ti ammalerai, non credi che oggi possa piovere?

Mi sentivo sempre più sciocco. Che senso ha parlare del tempo autunnale se lei guarda i fiori primaverili di un ciliegio che  io non riesco a vedere?

Io vedevo un acero con delle foglie rosse d’autunno, alcune ingiallite e cadute, arbusti spinosi e avari di qualsiasi colore se non il grigio marrone delle loro spine, piccole piante dal tronco sottile e lungo che spuntano un po’ ovunque dal fondo sabbioso del lago asciutto, con poche piccole allungate foglie. Alberi con rami seccati dall’estate e pochissime foglie superstiti e moribonde. Piante a dir poco insignificanti.

“Speriamo di no”

Questa volta non risposi io.

“Speriamo che non piova, i pesci andrebbero sul fondo e i fiori di ciliegio cadrebbero a terra.”

“Lo sai che non ti capisco, cioè ti capisco ma non riesco, ecco, non riesco a vedere i pesci e neanche il ciliegio…”

“Ma quelle rose laggiù si disseteranno e fioriranno, l’erba arida si drizzerà di colpo verso il cielo come  a volerlo toccare, quei cespugli si arricchirebbero di grandi fiori gialli.” ––––– “un po’ di pioggia con questo caldo afoso e anche l’acqua si rinfrescherà”

Mi si gela il sangue, per il freddo, per il vento, per la pioggia che non c’è ma che già mi sento addosso, e per il suo sguardo sempre lontano, sempre diverso dal mio.

Anche il pino sembra col suo ombrello di aghi porsi a forma interrogativa. “C’è un ciliegio qui?”

Mi rassegno…non riesco a stupirla in nessun modo, non riesco a farmi vedere, anzi è lei che mi spiazza, è lei che conduce un gioco nel quale io pedina posso solo aspettare gli eventi. E allora aspetto.

Ma niente, non si muove niente.

Il sole scende, lui si che si muove come se nulla fosse anche se a me pare che soffra a finire dietro quegli alberi brulli a non illuminare più il rame dei suoi capelli che adesso mi sembrano ciliegie, le sue mani rose, il suo vestito erba, le sue lentiggini gocce di pioggia.

Non dice nulla, se ne va all’improvviso come un temporale estivo.

Torno a pescare anche oggi, canna, lenze, cassetta, lascio a casa il cappello e il seggiolino…

Non sapevo neanche il suo nome, non avevo il coraggio di chiederglielo per paura di non capire ancora la sua risposta.

Arrivo direttamente al nostro punto d’incontro, per me era quasi un appuntamento, per lei non so, non pensavo nemmeno di avere la possibilità di scoprirlo.

Saluto il pino dandogli una pacca sul fusto, come fossimo due vecchi amici perché so che anche lui sta aspettando.

La vedo arrivare e le faccio un segno timido che non vuole risposta, mi appoggio al pino e guardo il lago. Mi chiedo se è stupita nel vedermi li prima del suo arrivo, ma lei assume la sua posizione, a braccia conserte, ferma sulle gambe, il mento alto e i capelli rossi sempre al vento, gli occhi a guardare sempre più lontano.

“Sarai contenta, non piove, i tuoi fiori saranno ancora sull’albero e i pesci in superficie.”

L’avevo preparata, volevo stupirla facendole credere di vedere anch’io.

“Ha piovuto ieri, tanto, e oggi ci sono rose e fiori gialli, odore di erba bagnata che si asciuga al sole”

Come le altre volte mi resi conto di non aver capito nulla e di aver detto una stupidaggine.

Stavo per andarmene.

“Anche il tetto della casa si è pulito oltre al cielo. Il rosso delle tegole è vivo adesso, senza polvere grigia”

Scossi la testa. Un ciliegio potevo non riconoscerlo, la mia esperienza di pescatore era piuttosto scarsa e potevo non vedere i pesci nel lago, non sapevo quale fosse un cespuglio di rose se non avesse avuto i fiori aperti, ma una casa con un tetto di tegole l’avrei riconosciuta se ci fosse stata.

Continuavo a non capirla, ma a suo modo con poche parole quel lago si era arricchito di tantissime cose e anche se non avevo mai preso pesci non tornavo mai a casa con le mani vuote.

Il lago sembrava diverso, migliore, e mi ritrovai in silenzio cercando di trovare un ciliegio, delle rose, dei fiori gialli e una casa con un tetto di tegole pulito.

Il cielo grigio di oggi non mi fa freddo, anzi sento dentro i l sole che passa attraverso l’azzurro intenso di un cielo pulito dai venti forti di un temporale estivo.

Come al solito arriva il tramonto e prima che possa essere tale lei se ne va. Io lo guardo, senza troppa attenzione immaginando l’ombra di un muro di una casa.

Ormai prendo solo la canna, niente altro, solo per far sembrare che vado a pescare, per darmi una scusa per essere sulla riva, accanto ad un pino che ha confuso il mare con un lago, accanto ad una donna che non mi vede e che parla di cose che non riesco a capire.

Ma oggi non arriva. Aspetto. Aspetto. Mi guardo in giro, cammino lungo tutta la riva del lago, tra cespugli aridi, erba secca, poca acqua e fango, foglie secche e cadute, un autunno che ormai si sta vestendo d’inverno. Oggi non c’è l’estate.

“Speravo tanto di vederti ancora oggi”

“Dove sei stata ieri?”

La mia domanda è quasi aggressiva, ero arrabbiato e preoccupato nel non averla vista, non era venuta la nostro appuntamento.

Non rispose.

“Cosa porti con te?”

Aveva un cavalletto di legno e una tela e un pennello e dei colori, non disse nulla, sistemò tutto e si mise al lavoro.

Passano ore, io non guardo il lago, quel lago non c’è più.

Adesso vedo. Vedo il ciliegio e le rose,  i fiori gialli  appena prima della spiaggia di sabbia chiara, il vento che sposta piccole nuvole in un cielo azzurro, raggi di sole su un tetto di tegole pulito, su una casa appoggiata sulla discesa che porta all’acqua.

Capisco perché se ne andava al tramonto, non le interessava, lei voleva vedere un pomeriggio di sole.

E mentre intinge il pennello nei suoi occhi per fare l’acqua del lago, io guardo vicino alla casa, proprio sulla riva, c’è una figura che forse è un uomo.

Si, c’è un uomo seduto con una canna in mano e sta pescando.

Allora capisco che mi hai sempre visto, tutte le volte.

Ero io a non sapere dove mi trovavo.

 
 
 
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