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La “prima” ma sotto la scala.

Era la sua prima vittima ed era stata trovata dalla sconvolta signora Rosa, portinaia ad honorem dell’arancione condominio, sotto la scala che portavano al seminterrato dove viveva (e dove moriva soprattutto). Le era stato molto facile inventarsi il gioco di parole durante il tragitto in auto pensando che lui, se fosse stato lì, avrebbe sorriso strofinandosi gli occhi con la mano per l’ennesima battuta a denti stretti che andava scandendo il tempo, il loro tempo insieme, certa che, a cena, dopo averla ascoltata, non l’avrebbe delusa proponendogliela mentre le versava l’acqua nel bicchiere, non appena seduti, con i piatti in tavola, nella frazione di secondo che anticipava il loro corale “buon appetito” .

Ma, ora, doveva lasciare il profetico pensiero non solo perché il suo autista perseverava sui quaranta chilometri orari cosa che, per inciso, le disturbava ogni trasmissione nervosa tre le sinapsi dei suoi neuroni ma, soprattutto, perché il pellegrinaggio (non certo quello domenicale!) oltre il comune le ricordava che la via Fornace era estremamente vicina, troppo vicina, così vicina che la sua sigaretta avrebbe dovuto aspettare, o forse no. Le sirene erano doverose, sia per svegliare la guida del collega sia per accompagnare, come fossero un organo, le preghiere della messa “nera” alla quale i pellegrini del paese stavano per partecipare. Autoambulanza giustamente parcheggiata in mezzo alla strada, signora Rosa seduta su una sedia bianca di plastica in bella vista con paramedico a provarle la pressione, folla, cane che abbaia incessantemente, giornalisti, locali e non, che sgomitano tra le fila cercando la fotografia perfetta, cellulare che squilla per l’ennesima volta: perfetto, ognuno è al suo posto, si apra il sipario.

“Donna, venticinque/trent’anni, rossa (che poi non è cosi importante dopotutto ma la prima, pensava, doveva essere per forza rossa di capelli), pugnalata con numerose coltellate. Sangue ovunque; arma del delitto non presente nel campo visivo del sottoscala, impronte tante (troppe si dirà in seguito), testimoni nessuno. La signora Rosa che stava male, ed era in stato di “sciocco” come gridava all’amica appollaiata oltre il nastro rosso e bianco di delimitazione che, invano cercava di raggiungerla in qualità di migliore amica della Rosa e di ostetrica del paese e quindi, a modo suo medico, raccontava che la donna, viveva da sola al primo piano della palazzina. Una ragazza tranquilla, disordinata nel prendere la posta ma, silenziosa e quasi mai a casa per via dei suoi orari “strani” perché, a detta della Rosa, faceva un lavoro particolare. Non veniva gente strana a casa sua ed in generale non veniva gente a casa della ragazza ad eccezione di un giovanotto dagli occhi azzurri e con la barba che portava sempre un cappellino in testa.

La porta di casa era aperta, lasciata spalancata nel vano tentativo di fuggire al suo assassino come dimostravano le impronte insanguinate trovate sulla maniglia interna e le relative strisciate presenti sul muro del corridoio del piano che testimoniavano la forza, l’energia e la voglia di vivere della vittima. Goccioloni si sangue facevano del pavimento dell’appartamento un macabro “twister”  che cozzava con l’ordine maniacale di mobili ed oggetti che sembravano esser stati risparmiati dalla furia omicida anche durante la colluttazione tanto da non lasciar comprendere dove il tutto avesse avuto inizio. Improvvisamente un miagolio si fece sentire dalla camera da letto: Agata, la gatta nera della ragazza aveva deciso di fare capolino da sotto la testata del letto dove, diceva la Rosa, si nascondeva sempre facendo arrabbiare Azzurra che con il manico dello scopettone la invita ad uscire ogni volta che, prima di andare a dormire, doveva stanarla per accompagnarla sul balcone dove faceva crescere il suo animo selvatico difficilmente addomesticabile.

Azzurra, la rossa, morta a pugnalate nel sottoscala del suo condominio tra poco le sarebbe stata portata via sia dalle onoranze funebri incaricate (non si sa bene chi dato che la Rosa non conosceva il nome della mamma che, di tanto in tanto, veniva a casa a dar da mangiare alla Agata quando la figlia stava fuori per alcuni giorni) diretta all’obitorio dell’ospedale a disposizione dell’autorità Giudiziaria (come si scrive a verbale) sia dal Nucleo prima e dal Reparto poi che, liberi da giacca e cravatta, si attestavano a “specialisti” di crimini violenti e/o complessi. Quindi, la sua, sarebbe stata una “comparsata” di copertina affichè i “colori” dell’Istituzione fossero ben visti dai testimoni oculari del processo mediatico che si era già creato nella via Fornace del tranquillo paese casa natale di un uomo importante, beato e santo che, purtroppo, anche da lassù, dal suo posto privilegiato, nulla aveva potuto sulla follia umana. La sua Azzurra, la sua rossa, la ragazza con gli anfibi uguali ai suoi messi in ordine sotto il calorifero dietro la porta di ingresso, uccisa a pugnalate dal ragazzo con gli occhi color del cielo ( come lo aveva battezzato la Rosa) che, quella mattina, non era stato visto quasi da nessuno (soprattutto, dalla Rosa che, durante “la tragedia” come le piaceva chiamarla, era a messa ,quella vera!) mentre si allontanava sulla sua rumorosa macchina parcheggiata sul lato opposto della strada del condominio.

La telecamera posizionata all’incrocio tra via Fornace e via Aldo Moro avrebbe infatti permesso agli uomini “specializzati” di risalire alla targa dell’unica macchina che, all’ora del delitto stabilita dall’autopsia, era stata ripresa allontanarsi dal luogo del delitto: convocato il proprietario avrebbero subito notato i suoi “occhi cielo”, la sua barba e l’immancabile cappellino di tela in testa. Tra gli “specializzati”ci sarebbe stato anche l’esperto nell’interrogatorio investigativo e, comunque, il Pubblico Ministero di turno che era ormai diventato il genitore della morte di Azzurra, lo avrebbe sicuramente fatto confessare grazie anche alla muraglia cinese delle “prove” raccolte in modo esemplare sempre dagli “specializzati”. Fine dei giochi. Caso chiuso. Facile, veloce, pulito, da manuale.

Sirene, di nuovo, forse la Scientifica i “RIS” come si echeggia dagli spalti lungo la strada… . No, la sveglia: Agata che ha fame, il caffè che scende dalla caffettiera americana regalo dell’ultimo Natale di Occhi Cielo, l’ennesima ma comoda tuta indossata sulla quale Azzurra, la rossa, si infilerà gli anfibi che toglierà, poi, quando dovrà indossare la sua uniforme, per uscire di servizio con quel suo collega che, maledetto lui, va sempre a cinquanta all’ora indisponendo le trasmissioni nervose tra le sue sinapsi. Il suo primo delitto, lo immagina da anni ormai, lo sogna perché ognuno sogna ciò che vuole: facile, veloce, pulito oggi, complicato, impossibile ieri, surreale domani.

La sua ennesima prima vittima, questa volta nel sottoscala… “LA PRIMA MA SOTTO LA SCALA” : quella sera, a tavola, mentre gli raccontava il suo sogno, Occhi Cielo la guardava come sempre nel suo modo unico e magico e, mentre versava l’acqua nei bicchieri, nella frazione di secondo che anticipava il loro corale “Buon Appetito”, nell’udire il gioco di parole che titolavano l’ennesimo sogno, si fermò, sorrise e si strofinò gli occhi.