APRILE

A tutte le Donne che sanno.

Per loro il mio sorriso

All’Uomo intenso e imperfetto.

Per lui la mia ammirazione.

Sulpicia, 2017

 APRILE

 L’ispettore Callaghan estrae la pistola, spara e uccide. I limiti spaziali del Golden Gate, porta di ingresso all’illusione per migliaia di barbe lunghe e jeans a zampa di elefante, sono sempre gli stessi: in alto il grigio rarefatto di una nebbia che a San Francisco non manca mai, in basso il rosso del solido acciaio che stavolta è ancora più rosso perché ora, oltre al metallo, c’è il sangue. Acciaio e sangue, sangue e acciaio, la mano dell’uomo c’è sempre, costruisce e distrugge, dipende dalle circostanze.

Lui e lei seduti sul divano. Callaghan ha ucciso, lui ora spegne la televisione. Ora, rimane solo l’attesa, l’attesa del prossimo film.  Per Iris, quello è una strano pomeriggio; fuori piove, il vento soffia incessantemente, un inizio di primavera un po’ in sordina ma, strano scherzo del destino, qualcuno ha deciso che quello debba essere un pomeriggio d’aprile. Per lei il quarto mese dell’anno non ha mai avuto quelle caratteristiche intermedie che di solito i dati metereologici gli attribuiscono: ad Iris aprile ha sempre portato molte cose, una laurea, un lavoro, una morte, a qualcun altro forse porterà un quadro che però lei non vedrà mai, in ogni caso lei ha paura di questo mese e oggi pomeriggio ancora di più.

Iris è sempre andata male in matematica; la sua lotta con le cifre è impari, da sempre, probabilmente è anche discalculica, così le è stato detto un giorno, già, perché fino alle centinaia le cose procedono tranquillamente, o quasi, è con le migliaia che tutto si complica, soprattutto se ci sono degli zeri in mezzo; lì diventa tutto molto, molto più difficile, scrivere i numeri soprattutto, piazzare bene le virgole e i punti, terribile, se ne accorge anche nel lavoro. Ma non si preoccupa, sembra che anche Churchill ed Einstein avessero lo stesso problema, certo se il secondo non fosse mai esistito sarebbe stato meglio per tutti e lei, magari, non avrebbe mai studiato la fisica. A scuola, però, Iris ha sempre avuto iniziativa: se il risultato non veniva, lei “sistemava”, uno zero in più, uno in meno, un centimetro che, in fondo, poteva diventare un metro, insomma tutto dipendeva sempre dal suo punto di vista che, in buona sostanza, era quello corretto. “Cicero pro domo sua” si potrebbe obiettare, certamente, ma la matematica è sempre stata a Iris come il padre dell’oratoria è stato a Publio Clodio.

Eppure, quel pomeriggio, Iris spera che i conti non tornino. In realtà lo fa da nove mesi perché sa che, stavolta, il suo nemico non è un foglio a quadretti ma Madre Natura e la Natura è Matrigna e le matrigne, di solito, sono cattive, per lo meno nelle fiabe. Alle cinque di pomeriggio, Iris comincia a star male, chiama la dottoressa per chiederle spiegazioni, la dottoressa ride e le risponde che non c’è nulla da spiegare, deve andare subito in ospedale. Mancano solo sette ore alla mezzanotte, a lei però ne servono otto, soltanto otto, non un’ora di più, non un’ora di meno, perciò anche questa volta dovrà agire di iniziativa e modificare qualche cifra o qualche segno.

Il tragitto da casa all’ospedale sembra interminabile; Iris conta i minuti che mancano alla mezzanotte, non sarebbe proprio giusto se il bambino dovesse nascere entro quell’ora, quindi si appella, scettica, al Padre Eterno, un po’ più convinta a chi non c’è più.

L’ospedale dell’isola ha un non so che di sinistro e inospitale; nel chiostro, che funge da ingresso, Iris scorge tre suore vestite di bianco, l’immagine la contraria non poco: le donne in tonaca parlano spesso del demonio e del peccato, quindi del Medioevo, ma il Medioevo è bello, anzi bellissimo, solo in letteratura non quando si sta per partorire. Iris ancora non sa che anche per lei si apriranno molto presto le porte di questa oscura stagione dell’umanità come non sa che non ci saranno Orlando, il suo cavallo Vegliantino e la spada Durlindana ad attenderla, per lei ci sarà ben altro.

Il parto si presenta lungo e complesso ma Iris è felicissima; sono ormai le 23.00 e il bambino non ne vuole sapere di nascere nonostante i dolori siano ormai terribilmente forti. Lei, però, sopporta contenta, l’importante è superare la mezzanotte perché in uno stesso giorno non è possibile celebrare la ricorrenza della nascita di un figlio e quella della morte di una madre che quel giorno avrebbe dovuto essere lì, il dolore con il dolore, la gioia con la gioia. In ogni caso, ormai è l’una  e Iris può tirare un sospiro di sollievo: suo figlio avrà diritto ad essere festeggiato in un giorno tutto per lui.

Giorno che, però, non arriva mai; Iris è stanca, troppo stanca, le quattro, le cinque, le sei, le nove, prima solo la dottoressa e l’ostetrica, poi altri medici,  sinfisi pubica, sinfisi pubica, infine il primario, quindi il forcipe, allora acciaio, acciaio e acciaio, e poi sangue, sangue e sangue, i due bastardi si sono divisi adesso ma poi fanno pace sul corpo di Iris, come è vicino adesso il Medioevo, è tutto qui, su questo maledetto sasso in mezzo al fiume, sta infierendo su di lei, sangue e acciaio, acciaio e sangue, sono le 9 e 31 di una grigia mattina di aprile. Iris, prima donna di un palcoscenico senza sipario rosso, ma rosso lo stesso, rosso di sangue, sangue e acciaio, acciaio e sangue. I suoi occhi guardano vitrei il soffitto scrostato di quella squallida sala parto; odore di disinfettante, rumore di ferri, fuori il fiume in tormento, continua a piovere incessantemente, sembra che sia Aprile ma per lei non è niente. Il primario, allora, decide di fare il medico; non entra in sala parto da diverso tempo, privilegio questo di una carriera ormai giunta all’apice, oggi però è stato chiamato in onore di Iris e dà subito il meglio di sé stesso: un buffetto sulla guancia, poi l’incoraggiamento, lei non sarà né la prima né l’ultima e deve pensare che sia stato tutto un sogno. Soddisfatto per l’infelice intervento, le propone anche di dare un’occhiatina alla placenta, così, giusto per curiosità; Iris gli risponde con gli occhi, lui non insiste, lei ha la conferma che è cretino e che, probabilmente, è Orlando che con la spada Durlindana mozza teste saracene mentre galoppa sul fedele Vegliantino. Lei però non è Angelica e Orlando, stavolta, non suona l’olifante perché è cretino. Sì, Orlando è proprio cretino. Qualcuno, ora, le porge il bambino, lei lo rifiuta, decisa, con la mano sinistra e la mano sinistra è una mano speciale: la mano sinistra è la mano del cuore. Il ricordo di questo gesto, spontaneo ma così necessario in quel momento, la tormenterà per tanti anni; qualcuno le spiegherà, in seguito, che negli ospedali religiosi si procede così, lei allora odierà ancora di più i preti per averle negato l’istante più bello della sua vita, quell’istante che è la sublime premessa di un futuro, il futuro di una donna insieme a suo figlio appena nato.

Dopo qualche ora, Iris torna in stanza su una lettiga malconcia e cigolante; sorride, nonostante tutto, perché pensa alla matematica. Sarebbe stato meglio fare un bel compito in classe, perché lì ogni tanto qualche soddisfazione ce l’hai, sì ce l’hai, quando prendi quel 4 più che ti fa sentire l’eroina di una tragedia greca perché hai scavallato il tre, ecco in quei casi ti senti proprio Antigone solo che la sventurata è morta per mano propria, lei oggi è morta per mano altrui.

Iris terrà il bambino tra le sue braccia solo il giorno dopo; in ospedale è già diventato famoso, è meraviglioso, lei lo guarda, effettivamente lo è. Non è vero che tutti i neonati sono belli, alcuni sono brutti, anzi bruttissimi, certo con il tempo il loro aspetto migliora ma il bambino di Iris è splendido da subito e con il crescere lo sarà ancora di più. Biondissimo, due meravigliosi occhi azzurri, slanciato, ad appena un giorno di vita cerca già di tirare su la testa, testa perfetta anzi testa regale. Iris non se ne occupa molto, non ce la fa, lo tiene solamente in braccio e lo guarda in silenzio. Sangue e acciaio, acciaio e sangue.

Ad un tratto, però, lui entra nella stanza e gli occhi di Iris si illuminano come due stelle: lo ha riconosciuto subito, con quel suo incedere così elegante e inconfondibile, il suo prototipo di uomo. Non bello perché in fondo non lo è, ma intenso e dallo sguardo vivo e intelligente. Peccato, forse, per quella voce leggermente sgradevole e, a detta di alcuni, poco maschia. Ma se così non fosse, egli incarnerebbe l’ideale di perfezione, secondo l’accezione sofistica del termine, quindi secondo un’accezione che sa di moderno. Ma tra le bianche e spesse mura di quell’ospedale oggi non c’è posto per la modernità, c’è solo puzza di sangue e di tortura, c’è solo puzza di Medioevo. Le mani dell’uomo intenso ma imperfetto porgono un magnifico fascio di rose rosse alla donna che riposa accanto al letto di Iris e che, da poche ore, lo ha reso padre. L’uomo, dalla voce poco maschia e che nella vita fa il pittore, bacia subito il bambino placidamente addormentato tra le braccia della madre che, qualche minuto prima, ha passato un velo di rossetto sulle proprie labbra. Iris pensa che anche per l’uomo intenso e imperfetto oggi è aprile. Solo in quel momento Iris scorge sul comodino della sua vicina il celebre testo di Plutarco, “Vite Parallele”. Iris guarda il proprio comodino su cui giace “Princess in Love”, un libercolo da quattro soldi dedicato alle pene d’amore di Lady D; si vergogna un po’, con fatica allunga il braccio e lo copre pietosamente con la copertina che usa per avvolgere il suo bellissimo bambino che è stato appena riportato al nido. Ci vuole coraggio, pensa, a leggere Plutarco in una circostanza del genere, poi però si rasserena, non ricorda di aver visto la donna sfogliare le pagine del testo.

Il giorno dopo Iris viene dimessa; sta ancora molto male, si nutre di potenti antidolorifici, ma così è, ora deve tornare a casa. Invidia la sua vicina di letto che dovrà trattenersi ancora in ospedale perché il suo bambino ha l’ittero. Avrà più tempo per rimettersi, pensa, dopo sarà dura. Fuori c’è il sole, Aprile finalmente fa Aprile, finora è sempre piovuto. Prima di lasciare la stanza, Iris saluta la donna, le fa gli auguri e le chiede se abbia già cominciato a leggere le “Vite Parallele”; lei risponde di no, lo ha portato con sé ma le circostanze glielo hanno impedito. Iris sorride, le dà ragione ma le dice anche che lei ne ha tradotto qualche passo, non è poi così difficile, c’è di peggio, molto di peggio. Uno a zero per Lady D, in fondo avrebbe anche potuto leggerselo quel libercolo e poi quella signora le è stata antipatica da subito con tutte quelle rose che lei non ha avuto e quel rossetto così inopportuno per una puerpera, troppo rosso, rosso come il sangue, sangue e acciaio, acciaio e sangue. Del resto si sa, anche le antipatie come le simpatie dipendono, il più delle volte, dalle circostanze. Iris attraversa di nuovo il chiostro stavolta in direzione della luce e di una nuova vita a tre di cui immagina ben poco. Spera di incontrare un’ultima volta Orlando il cretino per augurargli ogni possibile male, ma ciò non accade, forse è scappato con Angelica. Beati loro.

Lui seduto sul divano. Stasera noir anni ’70. Lo squillo acuto del telefono in centrale sorprende un impigrito Callaghan alla scrivania, in un noioso, tiepido pomeriggio di Aprile. Callaghan poggia sul pavimento le lunghe gambe distese sul tavolo e risponde. Prende la pistola, spegne la sigaretta, esce e sale sulla vecchia Ford 65. Golden Gate anche stavolta? Probabilmente no, quel ponte è già rosso di suo, non serve altro sangue. In ogni caso, da qualche parte del mondo andrà, per lui c’è sempre posto ovunque. Mette in moto, svolta a destra ed imbocca la Pacific Avenue. Gli alberi sono ormai tutti in fiore, è primavera, ma Dirty Harry non ci bada, per lui ogni stagione è uguale a quella precedente. Sangue e acciaio, acciaio e sangue, la mano dell’uomo, la mano del cuore, la sua mano sulla 44 Magnum: anche lui lo sa, dipende tutto dalle circostanze. Sempre ma soprattutto ad Aprile. Leggi tutto “APRILE”

Barbara

Ricordati Barbara                 
Come pioveva su Brest       
E io ti ho incontrata a rue de Siam
Tu sorridevi                            
Ed anch’io sorridevo             
Ricordati Barbara                 
Tu che io non conoscevo    
Tu che non mi conoscevi