METAVERSO: cos’è e perché ci cambierà la vita (anche lavorativa).

La notizia è di pochi mesi fa: Mark Zuckerberg, patron di Facebook, ha cambiato nome alle sue piattaforme digitali riunendole semplicemente sotto il nome “Meta”, abbreviazione di “Metaverse”, il Metaverso.

In verità, questa denominazione non è proprio originalissima, essendo “Meta” un marchio già registrato da un’altra società, la Meta PCs, una compagnia americana dell’Arizona, ma, non ho dubbi, questo intoppo è stato subito superato a suon di bigliettoni verdi… il “ragazzo” ha investito in questo progetto oltre 10 miliardi di dollari… una pinzillacchera, direbbe Totò!!!

Il punto nodale è che siamo all’alba di una profonda rivoluzione tecnico-informatica che investirà tutti gli ambiti della nostra vita, privata e lavorativa, nel giro di pochi anni, così come è stata rivoluzionata dall’avvento stesso dei computers… anzi, molto di più. Allacciate le cinture: arriva il “Metaverso” !

Ma procediamo con ordine.

Il prefisso meta davanti alle parole avrebbe il semplice significato (dal greco) di “con, dopo, oltre”, ma grazie alla metafisica, intesa come “disciplina che trascende la natura”, ha acquisito il significato di “disciplina che trascende sé stessa”, e in particolare “che parla di sé dal di fuori”. Quindi si parla di meta-scienza (scienza che parla della scienza, dei suoi limiti, ecc, epistemologia in un’altra parola), di meta-teatro, meta-musica, e via fantasticando.

Il meta-universo, contratto appunto in Metaverso, è quindi un universo parallelo, virtuale, autonomo e indipendente.

“Metaverso”, a onor del vero, è un termine inventato da Neal Stephenson in “Snow Crash”, un romanzo visionario di fantascienza di trent’anni fa, che racconta di una realtà virtuale accessibile da chiunque via Web, dove si è rappresentati in tre dimensioni attraverso il proprio avatar.

Come si accede oggi al Metaverso?

Innanzitutto, è necessario indossare un visore 3D e maneggiare un paio di dispositivi da “realtà aumentata”: ho regalato un set di questo tipo a mio figlio, il premio per aver conseguito il Diploma di Maturità.

Devo ammettere che lo consideravo semplicemente in sofisticato videogame, ma, una volta indossato a mia volta il visore, mi sono trovato proiettato in un’altra realtà, un altro “mondo”, con oggetti che potevo vedere e afferrare, in uno spazio 3D in cui potevo muovermi liberamente… davvero impressionante!

Essere proiettati in un Metaverso digitale-tridimensionale, anche dalla grafica approssimativa e stilizzata, è comunque un’esperienza particolare: ho “giocato” per alcuni minuti con un demo dove dei manichini senza volto (ma molto alti!) cercano, al rallentatore, di colpirti, e tu devi semplicemente schivare i colpi… vi assicuro che visti sullo schermo 2D del PC sono pupazzi banali e ridicoli, ma calati in una realtà 3D-full-immersion riescono ad incutere un certo timore!

Le potenzialità del Metaverso sono pressoché infinite, ma vediamo cosa succederà nei prossimi anni.

Diciamo innanzitutto che il Metaverso non è un progetto che ha richiamato a sé soltanto Meta (che, oltre a Facebook, WhatsApp, Instagram, include anche Oculus, una divisione specializzata proprio nella produzione dei suddetti visori 3D): sono molteplici le società che stanno attivamente investendo milioni di dollari per creare un ecosistema che possa essere visto come il primo Metaverso ufficiale e quindi rappresentare la base per il consolidamento tecnologico dello stesso. Al momento, ci stanno lavorando affermate realtà come Epic Games, produttore del celeberrimo videogioco “Fortnite”, Nvidia, leader per le schede grafiche per computers, e Roblox, piattaforma dove chiunque può creare esperienze virtuali per gli altri utenti, e altri ancora, meno noti al grande pubblico. Epic Games, finanziata da SONY e altri investitori per oltre 1 miliardo di dollari americani, ha acquisito ArtStation e Sketchfab, piattaforme dove i creatori di contenuti possono caricare le loro produzioni creative, come immagini 2D e 3D… una sorta di spazio virtuale da cui attingere idee utili allo sviluppo del Metaverso.

I primi ad accedere massicciamente al Metaverso saranno, nell’arco dell’anno in corso, proprio i videogiocatori, come mio figlio e molti suoi coetanei (o ragazzi più giovani): come detto, l’esperienza ludica immersi in una realtà 3D, è di tutt’altro tenore; i videogiochi “classici” sono praticamente già obsoleti.

In parallelo, saranno attratti dal Metaverso i trend-setter, che, a loro volta, veicoleranno in questo “universo” eventi e spettacoli: tra qualche anno sarà normale assistere ad un concerto o a un evento come una sfilata di moda, tranquillamente seduti sul divano di casa, con un visore 3D calato sugli occhi.

Organizzare e gestire un evento in uno spazio virtuale presenta vantaggi enormi, e non solo economici: pensate ai problemi di sicurezza, al comfort degli utenti, ai limiti delle locations fisiche: man mano che la realtà virtuale diventerà via via più realistica e convincente, verranno meno i motivi per organizzare questi eventi in modo tradizionale.

Si svilupperanno rapidamente nuove professioni: la più gettonata sarà quella di “architetto” per spazi virtuali, eh si… perché qualcuno dovrà pur progettarli e disegnarli gli spazi del Metaverso, e chi meglio di un architetto? Anche gli avatar, vale a dire la proiezione digitale del nostro IO, andranno progettati e “vestiti” con cura: ci penseranno gli stilisti, che troveranno il modo di vendervi il loro capo firmato in versione digitale. Follia, dite? Nemmeno un po’.

Entro il 2024 si svilupperanno con eccezionale rapidità nel Metaverso gli spazi ludici: le attuali “piazze virtuali”, costituite dai cosiddetti “social network”, si saranno trasferite da subito in questi universi virtuali, e avranno preso la “consistenza” di veri e propri “ritrovi” di avatar: ci saranno dai semplici bar, alle feste private più esclusive, accessibili sono a pochi eletti.

Già… ma come si pagheranno i servizi nel Metaverso? E come si certificherà la proprietà di un oggetto virtuale? E’ semplice: in cripto-token. Le attuali “monete virtuali”, come Bitcoin, Ethereum, Litecoin, Ripple, ecc, supportate dalle blockchain, hanno aperto la strada maestra: prevedo che entro il 2025 faranno scomparire le banche (almeno così come le conosciamo oggi), perché anch’esse entreranno nel Metaverso e si fonderanno con le borse ed altri mercati dove si comprano e vendono valute, che si evolveranno rapidamente nei cripto-token (chiamati NFT, vale a dire ‘Non Fungible Token’), gettoni “a tema”, non minabili e non duplicabili, atti a garantire il possesso di un bene (virtuale), protetti nelle blockchain.

Sono proprio le BlockChain (letteralmente “catene a blocchi”) a garantire decentralizzazione, disintermediazione, tracciabilità dei trasferimenti, trasparenza/verificabilità, immutabilità dei registri e programmabilità dei trasferimenti. Per chi non lo sa, la blockchain è una struttura dati condivisa e immutabile. Si può pensare ad essa come ad un registro digitale condiviso, distribuito appunto su innumerevoli “blocchi” concatenati, la cui integrità è garantita della crittografia. E’ immutabile perché il suo contenuto, una volta scritto tramite un processo normato, non è più né modificabile né eliminabile, a meno di non invalidare l’intero processo.

Sul piano fisico, l’informazione (p.e. il saldo del Vs conto in criptovaluta) è “spezzettata” in n blocchi, a loro volta connessi e “memorizzati” su n supporti fisici (memorie di computers collegati in rete).

Fantascienza? Nemmeno un po’: tutto questo esiste già.

Quindi eccoci, più o meno nel 2026, immersi mani e piedi nel Metaverso, per incontrare gli amici (con il nostro Avatar alla moda), assistere a spettacoli e concerti, ma anche per visitare una mostra o un museo, oltre che ovviamente per giocare e divertirci. Ecco, su quest’ultimo punto sorgeranno dei veri e propri parchi a tema: siccome il Metaverso risponde a regole che imitano gli spazi fisici reali, perché non rivoluzionare queste regole e creare degli spazi ludici “impossibili”? Che ne dite per esempio di visitare un settore del Metaverso dove la gravità si inverte ogni 10 minuti?  Oppure entrare fisicamente nella simulazione di un Tesseract multidimensionale, dove anche il tempo viene rappresentato dimensionalmente (come nel film “Interstellar”) ?

E chi non vorrebbe sperimentare l’utilizzo di un oggetto dall’entropia invertita, capace cioè di muoversi a ritroso nel tempo, anziché in avanti, ma solo limitatamente a se stesso, come nel recente e visionario film di fantascienza  “Tenet” ?

Questi parchi-giochi saranno facilmente realizzabili nel Metaverso, e rappresenteranno ben presto lo stato dell’arte del divertimento.

In questo scenario, quanto tempo ci metteranno le aziende “normali” a capire come fare business nel Metaverso? Sarà un passaggio normale e molto rapido, entro e non oltre il 2027. Non solo cambierà l’organizzazione fisica di queste nuove aziende (le riunioni si terranno nel Metaverso…), ma nasceranno beni e servizi appositamente studiati per essere commercializzati nel Metaverso, e, di conseguenza, ci saranno aziende che sosterranno tutto questo. Ma anche le società “tradizionali” dovranno entrare in questa nuova dimensione: ne andrà della loro stessa sopravvivenza! Anche le tecniche di vendita si dovranno inesorabilmente aggiornare ai nuovi paradigmi: e così, spariti i piccoli negozi di paese per fare posto ai centri commerciali, questi ultimi cederanno il passo a nuove strutture di “esposizione e vendita” virtuali; faremo la spesa con un visore in testa, saltellando sul tappeto di casa, spingendo un carrello fatto di pura energia!

Vaneggiamenti? Nemmeno in po’. Leggete questo (preso dal web in questi giorni…):

“I quattro principali mondi virtuali, ovvero: The Sandbox, Decentraland, CryptoVoxels e Somnium Space hanno attirato un traffico combinato di oltre 6000 trader solamente nel corso dell’ultima settimana. Tra questi The Sandbox è in testa al gruppo con il maggior numero di trader e vendite con oltre 86 milioni Dollari spesi in sette giorni. Decentraland segue al secondo posto con più di 15 milioni scambiati per NFT di terreni.”

Capito di cosa si tratta? Gente che acquista terreni virtuali in mondi virtuali!!!

Ma diamo uno sguardo oltre il 2030, quando tutto questo subirà un’ulteriore accelerazione dall’avvento dei Computers Quantistici.

Di cosa si tratta? Gli attuali computers sono basati su circuiti elettronici nei quali la corrente elettrica passa (e allora abbiamo uno stato che chiamiamo 1) oppure non passa (stato 0). Questa informazione minima memorizzabile, che rappresenta un “sì” o “no”, si chiama “BIT”, contrazione di “Binary digIT” (cifra binaria).

Il computer quantistico mantiene invece una sovrapposizione di stati e, come nel caso del gatto di Schrödinger *, è possibile avere 0 e 1 contemporaneamente, come se avessimo corrente che passa e non passa simultaneamente ed effettuare, così, più calcoli in parallelo! In questo caso si parla di “QUBIT”, vale a dire BIT Quantistici.

(*) Il paradosso del gatto di Schrödinger è un esperimento mentale ideato nel 1935 da Erwin Schrödinger, con lo scopo di illustrare come la meccanica quantistica fornisca risultati paradossali se applicata a un sistema fisico macroscopico (per saperne di più, continua a leggere su WIKIPEDIA).

Anche se già ci sono i primi prototipi, non sarà possibile vedere concretamente all’opera un Computer Quantistico per altri 6-8 anni. Per far funzionare stabilmente sistemi così sofisticati è necessario garantire fisicamente inalterata la sovrapposizione di stati, tanto che anche solo l’interazione con una singola molecola d’aria può danneggiare il comportamento quantistico del computer: la funzione d’onda collassa, come dicono i fisici, e addio qubit… interviene la cosiddetta “decoerenza” e il nostro computer quantistico smette completamente di funzionare!

La buona notizia è che c’è molto fermento e grandi investimenti attorno a questo argomento, con USA e CINA in testa a tutti.  Tra i più fortemente impegnati nel calcolo quantistico c’è Google, che, di recente, ha persino inaugurato un campus a Santa Barbara (in California) dove lavorano tecnici e ricercatori impegnati a sviluppare soluzioni a dir poco avveniristiche.

La superiore capacità di calcolo dei computers quantistici, applicata al Metaverso, alle Blockchain e all’Intelligenza Artificiale, nel giro di un ulteriore decennio dopo il 2030 ci consentirà un balzo in avanti dalle implicazioni oggi impensabili.

“Che vuol dire reale? Dammi una definizione di ‘reale’. Se ti riferisci a quello che percepiamo, a quello che possiamo odorare, toccare e vedere, quel reale sono semplici segnali elettrici interpretati dal cervello.” E’ il discorso che Morpheus fa al protagonista, Neo (interpretato da Keanu Reeves), per spiegare che cosa è “Matrix”, nell’omonimo film di fantascienza del 1999.

Certo, costruire e poter accedere con tutti i sensi ad un Metaverso talmente perfetto da renderlo indistinguibile dalla realtà fisica, come succede nel film “The Matrix”, implica non solo un imponente passo avanti nelle discipline informatiche, ma anche in quelle medico-biologiche, considerando l’esigenza di interfacciare a basso livello l’Uomo ai Sistemi. Ma anche su questo versante, Scienza & Tecnologia sono già in movimento, trainate proprio dalla pandemia degli ultimi due anni e dall’esigenza di controllare, sempre più intimamente, ogni singolo essere umano.

Biohax International è un’emergente azienda svedese, leader nei chip sottocutanei: il loro progetto punta (per ora) solo a racchiudere in un unico device tutte le carte che oggi abbiamo, dalle carte di credito alla carta sconto del supermercato, dalla patente alla tessera sanitaria.

A tutt’oggi, il sistema informatico che permette di gestire le informazioni contenute nel chip e di farlo interagire con gli smartphone e i sistemi di riconoscimento esterni è già funzionante in Svezia e Norvegia. L’Italia, anche se pochi lo sanno, ha già formalmente aderito a questi protocolli di sperimentazione: tra l’altro questo sistema è stato sviluppato proprio da un’azienda italiana, la IG Solutions. Nei prossimi due anni la Biohax (ma anche altre startup del settore, che nascono quasi ogni giorno) sarà concentrata su due fronti: da un lato, sviluppare partnership per poter far crescere il numero di servizi collegati al chip, dall’altro lato ottenere le certificazioni necessarie per poter commercializzare il chip su vasta scala. La strada si spianerà tra pochi mesi, quando si renderanno conto che questi dispositivi, che vengono appunto impiantati sotto pelle, sono legalmente equiparabili a dispositivi medici più che a semplici tecnologie; ecco che Big Pharma entrerà pesantemente in gioco, eliminando tutti gli ostacoli alle varie certificazioni di sicurezza necessarie, e nel giro di pochissimo, forse già all’alba nel 2023, potranno ricevere l’approvazione definitiva dai Ministeri della Salute e dalla European Medicine Agency; da li in poi il percorso sarà tutto in discesa.

State pur certi, queste tematiche comporteranno un acceso dibattito in tutto il mondo e gli oppositori all’avanzare di queste tecnologie non mancheranno, spinti dalle più diverse motivazioni, da quelle afferenti alla sfera religiosa, alle teorie complottiste. Già da qualche tempo si sente parlare di transumanesimo, ossia di fusione, in senso negativo, tra Uomo e Macchina, un processo che potrà potenziare le nostre capacità e migliorare, secondo alcuni, la nostra vita, o minacciarla secondo altri. In verità si tratta, anche in questo caso, di una normale transizione del progresso, inevitabile e inesorabile come fu l’introduzione delle macchine nelle fabbriche nel ‘700, fenomeno che, all’epoca, provocò perplessità e accesi dibattiti tra i sostenitori di un concreto pericolo per lo sviluppo dell’umanità.

Quale saranno i passi successivi? Andiamo oltre il 2050.

L’interfaccia Uomo-Macchina progredirà, trainata dalle crescenti esigenze di interazione tra le persone nel Metaverso. I progressi della biologia molecolare ci permetteranno di decodificare le emozioni: non solo sarà possibile interagire in maniera sempre più realistica con cose e persone nel Metaverso, ma, ad un certo punto, sarà possibile provare sentimenti e stati d’animo, gioie e dolori, sensazioni fisiche e tattili perfettamente realistiche, grazie proprio ad impianti fisico-cerebrali sempre più evoluti. Alcune “emozioni forti” verranno rese illegali e, come sempre quando una cosa viene proibita, nascerà un mercato sotterraneo e parallelo di queste “sensazioni”, un po’ come nel film “Strange Days” del 1995, che racconta la storia di uno “spacciatore di emozioni forti”, registrate da altri esseri umani su un supporto digitale ed accessibili con semplici sensori applicati sul cranio.

Negli anni che vanno dal 2050 al 2060 sarà normale vivere e lavorare in un Metaverso digitale, così realisitico da essere perfettamente assimilabile alla realtà che viviamo oggi. Naturalmente, anche i rapporti sessuali tra le persone saranno “digitalizzati”, per così dire: ma questo non costituirà il problema che tutti credono, in quanto, già da anni, le nascite saranno rigidamente regolamentate ed i progressi della scienza medica con riferimento alla capacità di manipolare il DNA, permetteranno letteralmente la costruzione di essere umani sempre più potenziati, ma non sul piano fisico, bensì su quello emotivo e intellettuale, concepiti, per così dire, per essere un tutt’uno con il Metaverso.

E ancora oltre? Finalmente conquisteremo lo Spazio, anche se faticosamente e su scale temporali lunghissime. Infatti, così come è successo dopo il primo allunaggio, perderemo rapidamente interesse anche per Marte, considerando le molte implicazioni a sfavore nell’affrontare i costi, in termini economici e di vite umane, per la rapida colonizzazione di un nuovo pianeta, se privo di vita. Sarà allora necessario allargare la visuale e cercare, seriamente, altri pianeti da colonizzare, ma con già le caratteristiche adatte a sostenere la vita, così come la conosciamo. Mi spiace, ma nemmeno nel 2100 avremo trovato il modo di aggirare le equazioni di Einstein (sempre che sia possibile, in questo Universo) e resteremo confinati dentro i limiti della velocità della luce per muoverci nello Spazio. Cosa ci aiuterà? Proprio il Metaverso! All’alba del nuovo secolo sarà possibile costruire una flotta di astronavi gigantesche, grandi come piccoli pianeti, dove gli esseri umani potranno viaggiare per decenni e raggiungere altri pianeti abitabili, chiusi in crio-capsule in animazione sospesa, ma attivissimi mentalmente nel Metaverso, esattamente come se fossero in vita sulla Terra.

Siamo arrivati al limite delle mie capacità di previsione del futuro dell’umanità e mi fermo qui. Naturalmente ho cercato di mettere l’accento solo sulle implicazioni positive collegate al Metaverso, oggetto della mia dissertazione, ma l’Uomo dovrà superare nel frattempo tante terribili prove: più volte la sopravvivenza della nostra Specie sarà messa a dura prova, nei decenni e nei secoli che verranno, minacciata da cambiamenti ambientali, inquinamento, virus di nuova generazione, asteroidi “killer di pianeti” e, chi lo sa, forse anche da alieni ostili, ma sono ottimista sulla nostra ostinata capacità di sopravvivere e di allontanarci dal ciglio del precipizio un attimo prima di caderci dentro, dopo averne scrutato il fondo, scuro e minaccioso.

Buon Futuro a tutti e… arrivederci nel Metaverso!

 

 

 

 

 

 

 

 

UNA FOTO PER JASON

Deserto dell’Arizona, circa 10 miglia a nord della città di Phoenix: è in questo remoto angolo di mondo che, da un paio d’anni, si erano trasferiti, o meglio isolati, Frank Evans e suo figlio Jason.

Frank non amava la gente: voleva, anzi doveva vivere il più possibile in solitudine, lontano dai centri abitati. La ragione (ma anche il suo alibi) per alimentare questa sua antropofobia risiedeva in suo figlio Jason, e nella sua particolare “capacità”.

Quella sera, al tramonto, l’uomo era seduto nel portico della loro rabberciata fattoria a fumare la pipa, mentre il ragazzo scorrazzava felice fra i cactus e le erbacce che infestavano il terreno intorno a casa. Per Jason, però, quel panorama desolato appariva come il più lussureggiante e divertente dei giardini: aveva ormai quasi vent’anni ma, nato con la sindrome di Down, aveva il livello mentale di un ragazzino delle elementari.

“Jason, vieni in casa, è ora di cena” – urlò il padre al figlio, alzandosi in piedi e avviandosi all’interno dell’abitazione. “Si, papà, subito!” – rispose di rimando Jason, mentre con un bastoncino finiva di stuzzicare un formicaio.

Un’ora dopo, Jason e Frank stavano finendo la cena. “Dolce! Dolce! …” – iniziò a scalpitare il giovane, con ancora l’ultimo boccone di carne in bocca. L’uomo lo guardò con indulgenza: si alzò dal tavolo, apri la credenza e si accorse di aver finito le ciambelle che tanto piacevano al ragazzo.

Frank si accigliò per un attimo: “Jason, vuoi una foto?”. Il ragazzo sgranò gli occhi: “Foto! Foto! Foto!” – iniziò a scandire, per tutta risposta, con grande entusiasmo, sobbalzando sulla sedia. Frank aprì un cassetto e ne estrasse il ritaglio di una rivista: illustrava una grossa ciambella perfetta, ricoperta di glassa e cacao caramellato.

Con molta cautela, avvicinò l’immagine a Jason, che adesso appariva molto eccitato, al punto da avere gli occhi spalancati e il fiato corto. “Prendila, Jason…” – sussurrò l’uomo, con un sorriso. Il ragazzo strizzo gli occhi e parve concentrarsi per qualche secondo: improvvisamente, una ciambella, in tutto e per tutto identica a quella dell’illustrazione, comparve sul tavolo da pranzo. Jason aprì gli occhi e, con un fischio di gioia, si avventò sul dolce comparso dal nulla, divorandolo in pochi bocconi concitati, mentre suo padre si affrettava a riporre l’immagine.

Più tardi, mentre Frank e suo figlio già dormivano, sulla vicina interstatale 89, stavano transitando in direzione di Phoenix i coniugi Mary e Donald Stuft, sul loro sferragliante pickup Ford color amaranto. Mary era alla guida (già da alcune ore, in verità) e suo marito dormiva saporitamente con la testa riversata all’indietro sul sedile del passeggero. Di tanto in tanto, il russare dell’uomo sovrastava anche il gorgoglio meccanico del motore Ford, e Mary lo guardava di sottecchi con aria di disapprovazione; erano sposati da quasi quarant’anni e, come ogni buona coppia matura che si rispetti, avevano un egual numero di motivi per amarsi e per detestarsi.

“Don, svegliati… tra meno di mezz’ora saremo arrivat…” – la donna non concluse la frase. Il pickup si arrestò bruscamente con gran stridore di gomme, e Donald si ritrovò appeso alla cintura di sicurezza, che, in trazione per l’improvvisa frenata del mezzo, lo tratteneva dallo spiaccicarsi come un insetto contro il parabrezza.

“MARY!” – gridò, ancora assonnato – “Che diavolo…” – ma anche Donald non terminò la frase. Seguendo lo sguardo di sua moglie si soffermò anch’egli sullo strano oggetto, sospeso a mezz’aria a circa 200 metri avanti, proprio sopra la strada statale. “E quello che diavolo è?” – fu lei a formulare per entrambi la domanda d’obbligo, con entrambe le mani aggrappate al volante. Donald, come ipnotizzato, continuava ad osservare il librarsi sull’asfalto di quel… ma si… sembrava una specie di enorme ferro di cavallo rigonfio, dai riflessi verdognoli!

D’un tratto, quasi come se li avesse percepiti, il “ferro di cavallo volante” (così, in seguito, i coniugi Stuft l’avrebbero descritto ai giornalisti e alle autorità) ruotò agilmente su se stesso e li illuminò con un fortissimo fascio di luce azzurra. I due istintivamente si schermarono gli occhi alzando mani e braccia, e fu un bene, perché un istante dopo il parabrezza implose all’interno del veicolo con una secca detonazione, proiettando milioni di piccoli frammenti sui due occupanti. Donald e Mary gridarono e, contemporaneamente, quell’accecante faro azzurro si spense.

Il deserto attorno a loro ripiombò nella consueta oscurità: i due, ansanti e frastornati, abbassarono lentamente le mani e, mentre i loro occhi si abituavano di nuovo alla tenue luce dei fari,  lo strano veicolo ruotò di nuovo sul proprio asse, questa volta più lentamente e, con eccezionale fluidità e senza il benché minimo rumore, iniziò ad allontanarsi prendendo quota, con una velocità via via crescente, che divenne incredibile: pochi secondi ed era già all’orizzonte, un puntino verde luminoso nel cielo stellato.

___________________________________________

“Ehilà, di casa? C’è nessuno?” – un tale si aggirava ora nel portico della fattoria Evans.

“Chi è lei? Cosa vuole?” – chiese il padrone di casa, facendo capolino dalla porta d’ingresso, restando dietro alla consunta zanzariera. “Sono un giornalista. Mi chiamo Stratton… Robert Stratton, posso farle qualche domanda, signor… ?” – il tale, chiaramente un tipo da città, lo guardava con aria interrogativa.  “Evans, mi chiamo Frank Evans… una domanda riguardo a che?” – chiese l’uomo, con una malcelata punta di irritazione nella voce.

Stratton si tolse il cappello e si ascuigò la fronte – “Accidenti, che caldo fa…”.

“Avrà sentito dell’U.F.O. comparso qui in zona, due settimane fa…” – appoggiò il cappello su una sdraio e dalla tasca posteriore dei calzoni estrasse un quotidiano, lo dispiegò rapidamente a favore di Frank, che poté leggere un titolo a caratteri cubitali “UN UFO CI HA SPARATO ! ”.

“No… non ne so nulla…” – rispose l’uomo. “Ma come? Ne hanno parlato tutti i giornali… quei due sono in TV su tutti i canali; casa loro, a Phoenix, è presa d’assalto da orde di cronisti…”. “Non compro giornali e non abbiamo la TV” – tagliò corto Frank, stizzito – “Se ne vada, per favore. Non posso esserle d’aiuto! Addio, signor Stratton”.

“Mr Evans, la prego… lei deve aver visto o sentito qualcosa… è successo ad un paio di km da qui…”, ma Stratton parlava ad una porta chiusa.

Il giorno dopo, di buon ora, il giornalista si presentò di nuovo alla fattoria degli Evans: Frank era nell’orto, su retro, mentre Jason correva allegramente avanti e indietro, spingendo una carriola vuota.

“Sig. Evans, buongiorno!” – il giornalista si avvicinò cautamente con fare sornione – “Ieri siamo partiti con il piede sbagliato, ma posso rimediare…”. Evans si appoggiò svogliatamente alla vanga mentre Stratton gli porgeva una copia del “National Geographic” dalla quale spuntavano inequivocabilmente alcuni biglietti da 100 dollari. Anche Jason si avvicinò, incuriosito dal nuovo venuto e da ciò che aveva in mano.

“Posso pagare bene… andiamo… mi servono solo informazioni di prima mano su quell’UFO…” – il giornalista assunse un tono di voce mellifluo e un atteggiamento suadente.

“Foto! Foto!” – il ragazzo arrivò di corsa e strappò di mano la rivista al giornalista, che non ebbe il tempo di reagire..

“Jason, nooo!” – urlò Frank, mentre Stratton osservava i suoi dollari volare nella brezza del mattino: chiaramente non erano quelli ad interessare Jason.

Il ragazzo aveva rapidamente aperto a caso la rivista e faceva saettare avidamente gli occhi su quelle fotografie di straordinaria bellezza, il tutto mentre correva zigzagando per sfuggire al padre, che lo inseguiva affannandosi sul filo dell’infarto. La scena aveva un che di grottesco e il giornalista la guardava ammutolito e attonito.

Finalmente Frank riuscì a placcare Jason. Troppo tardi, però: uno splendido esemplare di elefante indiano, con tanto di finimenti color porpora, si era materializzato davanti a loro, facendo strabuzzare gli occhi a Stratton!

“Jason… maledizione!” – l’uomo trascinò il ragazzo verso il giornalista e la casa, prima che l’animale, spaventato e imbizzarrito, li travolgesse. Il grosso pachiderma si mosse verso di loro, ma poi si arrestò, stupito e confuso. Dopo qualche istante di indecisione, girò su stesso e prese a correre in direzione del deserto, barrendo e sollevando nuvole di polvere. I tre esseri umani erano ora vicini, con tre diverse espressioni dipinte sul volto: Frank era rosso di collera, Jason era colmo di gioia e Robert era terreo, e la sua bocca disegnava un cerchio perfetto di incredulità. Il primo a muoversi fu Frank: mentre intimava al figlio di rientrare in casa (che, mestamente, eseguiva), si chinava per raccogliere la rivista, recuperando strada facendo i biglietti da 100 dollari seminati durante la fuga dal suo ragazzo.

“Forse adesso sarò io a doverla pagare, sig. Stratton, affinché lei mantenga il segreto su quanto ha visto qui oggi!” – Frank aveva recuperato la calma, e parlava al giornalista con una punta di rassegnazione nella voce; in una mano i dollari, nell’altra il “National Geographic” aperto sulla pagina che titolava “INDIA: TERRA DI MISTERI”; l’articolo era corredato dalla splendida illustrazione di un elefante elegantemente bardato, identico a quello che, ormai in lontananza, correva verso l’orizzonte infuocato.

Verso sera, il giornalista si presentò di nuovo a casa Evans: solo dopo una lunga doccia calda e diversi whiskey al bar dell’hotel aveva riacquistato la sua abituale lucidità di pensiero, decisamente compromessa da quell’incredibile esperienza. Il padrone della scalcinata fattoria lo stava aspettando: lo accolse con aria stanca e lo fece accomodare su un divano sdrucito, lasciandosi poi cadere su una vicina poltrona che aveva visto tempi migliori. Jason era bocconi sul tappeto al centro della stanza, e stava inscenando una battaglia di soldatini d’ottone.

I due uomini rimasero in silenzio per un paio di minuti, fissando entrambi il giovane che giocava. “Mi spieghi come funziona!” – esordì il giornalista, sempre tenendo gli occhi fissi su Jason.

“Il mio ragazzo…” – Frank aveva le lacrime agli occhi – “se solo fosse sano di mente sarebbe un dio!”. “Sig. Evans… Frank… cos’è successo oggi? Da dove è arrivato quell’elefante? E’ stato Jason a materializzarlo? Come è possibile?” – Robert Stratton esigeva delle risposte.

Frank ruotò lentamente la testa verso di lui: “Non so come funziona… Jason è nato così, con questo potere, e da allora siamo in fuga…”. “In fuga? Perché? E da chi? Il ragazzo ha un dono straordinario e il mondo deve saperlo!”, il giornalista parlava rapidamente, spostando di continuo lo sguardo da Frank a Jason.

“Un dono, dice lei?” – Frank pronunciò quella frase con tono sarcastico e si alzò nel contempo dalla sua poltrona. Si avvicinò con passo stanco ad una credenza, aprì un cassetto e ne trasse un vecchio dizionario illustrato. Lo aprì a caso davanti al giornalista: quest’ultimo avvicinò la testa alla pagina ingiallita, che raffigurava un gladio, un’antica spada romana da combattimento. Frank annui con fare cospiratorio e quindi si voltò verso il ragazzo, sdraiato ai suoi piedi e immerso nel duello fra i suoi soldatini: “Jason, vuoi una spada per i tuoi guerrieri?”.

Sulle prime, il ragazzo sembrò non capire, continuando a giocare. Poi alzò la testa e vide il volume nelle mani del padre: “Foto! Foto!”, scandì ritmicamente mentre scattava in piedi. Frank avvicinò l’immagine a Jason, che la divorò con gli occhi. “Prendila, Jason!” – suggerì Frank.

Una strizzatina d’occhi, ed eccola la: un’affilata spada romana in perfetto stato, come fosse stata appena forgiata da un fabbro d’altri tempi, giaceva sul tappeto!

“Oh, Cristo!” – Stratton scattò in piedi. “Ma com’è possibile?” – si chiese incredulo.

“Questo è il suo potere…” – osservò Frank, che sembrava un vecchio di cento anni – “…il ragazzo riesce a materializzare qualsiasi cosa veda in fotografia, tele-trasportandola chissà da dove, senza limiti di spazio e di tempo… per quel che ne so”.

Jason nel frattempo aveva impugnato il gladio e lo faceva roteare nell’aria: “Bellissima, Jason! Falla vedere da vicino a Robert…”, disse Frank senza entusiasmo, richiudendo il libro e ritornando alla sua poltrona.

“Guarda! Una spada VERA!” – gli occhi di Jason comunicavano gioia allo stato pure. Stratton invece era una maschera di terrore, misto a stupore: il ragazzo aveva bloccato la punta della lama ad un centimetro dalla faccia del giornalista!  “Un dono?” – aggiunse Frank di rimando, guardando il soffitto e sospirando – “diciamo che è una dannazione… non trova Robert?”.

Era mezzanotte inoltrata quando Robert Stratton raggiunse l’hotel dove era alloggiato. Portava un fagotto: all’interno, un gladio originale, dono di Frank Evans. Armeggiò con la serratura della stanza, entrò e si lasciò cadere sul letto. Quel ragazzo aveva un potere straordinario, inconcepibile. E lui, Robert Stratton, sentiva già odore di premio Pulitzer.

Dopo una notte calda e insonne, all’alba il giornalista era ancora diretto dagli Evans. Mentre guidava, l’occhio gli cadde sul sedile del passeggero, sul quale si trovava ancora il giornale che parlava dell’UFO. L’uomo sorrise, pensando che quasi si era dimenticato di quella faccenda, preso com’era dalla nuova storia su cui aveva involontariamente messo le mani.

D’improvviso un’idea si fece strada nella sua mente. Un’idea folle, come il potere di Jason, ma… poteva funzionare! Bloccò l’auto di colpo e rimase per un istante a fissare le prime luci dell’alba, mettendo a punto mentalmente quel progetto pazzesco. Un minuto dopo stava tornando all’hotel: di sicuro avevano un computer collegato ad Internet e ad una stampante, che faceva al caso suo.

Anche gli Evans si erano alzati di buon ora quella mattina. Con l’efficienza del militare che era stato in gioventù, Frank aveva preparato i bagagli, ed ora stava caricando il minivan. L’uomo sapeva che il segreto di suo figlio non era più al sicuro, nonostante tutte le rassicurazioni del giornalista: di Robert Stratton non ci si poteva fidare, ribadì mentalmente a se stesso.

“Dove andiamo papà?” – il ragazzo lo guardava stropicciandosi gli occhi assonnati. “A fare una gita. Ti piacciono quelle montagne laggiù, Jason? E’ lì che siamo diretti.” – disse l’uomo al figlio, in tono gioviale, continuando a caricare i bagagli sulla monovolume.

“Guarda, papà, sta arrivando Robert!” – il giovane indicava il polveroso sterrato che collegava la loro fattoria alla statale, sul quale avanzava sobbalzando un’auto, in una nuvola di polvere. L’auto di Robert Stratton.

“Dannazione!” – imprecò a denti stretti Frank. Chiuse stizzito il portellone del minivan e attese l’arrivo di Stratton sprofondando le mani nelle tasche nei jeans. Non poteva scappare, dato che la via di fuga era la stessa che ora stava rapidamente percorrendo il giornalista. Stratton bloccò l’auto a pochi metri da Frank: “Ciao Jason!”, salutò per primo il ragazzo, con un sorriso cordiale e autentico, prima di gettare un’occhiata a suo padre. Un’occhiata e un breve cenno della testa: significavano “seguimi, che devo parlarti”.

I due uomini si congedarono dal ragazzo ed entrarono in casa.

“Frank, ho avuto un’idea pazzesca” – il giornalista aveva gli occhi arrossati e la barba incolta di chi ha passato la notte a rimurginare; il suo ospite non aveva un aspetto migliore.

“Guardi qua!” – Stratton allungò a Frank un foglio stampato al computer: riportava un articolo relativo ad un avvistamento UFO in Arizona, corredato dalla foto del presunto oggetto volante: una specie di sigaro di metallo dai riflessi verdastri campeggiava all’orizzonte, sulle montagne.

“Questo oggetto volante è stato fotografato proprio qui, a nord di Phoenix, l’anno scorso, da un turista diretto al Gran Canyon. Scommetto che è parente di quello visto due settimane fa dagli Stuft. Voglio che Jason lo materializzi per me… per noi…!” – Stratton parlava accavallando le parole, mentre Frank osservava il foglio meditabondo.

“E’ vero: è un’idea folle. Lasci perdere, noi ce ne andiamo adesso!” – Frank si mosse, restituendo lo stampato al giornalista, avviandosi verso l’uscita. Stratton rimase interdetto: possibile che quell’uomo fosse così ottuso?

“Frank, ma non capisce?” – Stratton lo stava inseguendo. Lo afferrò per un braccio, costringendolo a voltarsi verso di lui. Adesso Frank lo guardava negli occhi, ma con il suo abituale sguardo spento. “Abbiamo la possibilità di svelare uno dei più grandi misteri dei nostri tempi: gli UFO esistono o sono una colossale montatura del governo?” – il giornalista parlava a pochi centimetri da quel viso inespressivo. Frank si divincolò e si diresse a passo spedito verso la monovolume: “Jason, si va! Saluta Robert!”, fu la sua risposta alla domanda del giornalista.

Stratton, fermo sul portico, proruppe in una risata sardonica. “Frank, tu non hai capito! Questa cosa me la devi, cazzo! E’ il prezzo del mio silenzio, su di te e tuo figlio!”. Frank si bloccò: aveva aperto lo sportello del minivan, e lo richiuse con rabbia. Si voltò verso Stratton, che continuava a squadrarlo con un sorrisetto sghembo. “Tu sei pazzo, Stratton. Ma non capisci? Questa cosa finirà per ucciderci tutti!” – Frank stava urlando sottovoce: non voleva spaventare il figlio, che, a pochi passi, lo guardava con un’espressione curiosa sul viso.

“Fammi questo favore… siamo nel deserto: dirò di aver trovato l’UFO per caso. Io diventerò ricco e famoso, mentre tu e tuo figlio sparirete e ripiomberete nel vostro anonimato”. Frank continuava a ripetersi che Robert Stratton non era affidabile: la stessa vocina nella sua mente, però, gli stava anche sussurrando che non aveva scelta. Sospirò rassegnato.

“Jason!” – chiamò, perentorio – “ho una bella foto per te!”.

Un minuto più tardi, il ragazzo stava strizzando gli occhi: fra le mani, lo stampato di Stratton.

Lo sforzo, questa volta, sembrava evidente: se quello nella foto fosse stato veramente un UFO e se in quel momento si trovasse, diciamo pure, in un’altra galassia, Jason avrebbe avuto la forza di tele-trasportarlo sulla Terra? Stratton cominciava seriamente a dubitarne.

Jason aveva la fronte imperlata di sudore, ma era scosso da brividi di freddo: continuava a tenere gli occhi strizzati e ormai aveva del tutto appallottolato il foglio stampato al computer.

“Adesso basta!” – intimò Frank – “Jason, smettila subito!”.

Il giornalista si guardò deluso la punta dei piedi ed espirò rumorosamente gonfiando le gote: ovvio che il compito non era alla portata delle capacità del ragazzo!

All’improvviso, un tuono sembrò squarciare il cielo: dal nulla si alzò una tremenda folata di vento, come se un Boing 747 stesse atterrando sulla vicina interstatale. Jason si accasciò al suolo, ma suo padre non poté soccorrerlo tempestivamente, perché fu costretto, come anche Robert, a proteggersi gli occhi dalla forza del turbine di polvere e sabbia sollevato dal quel vento fortissimo.

“Jason!” – il gridò di Frank si perse nella tempesta di sabbia, e si precipitò sul figlio sdraiato a terra: Stratton invece cercava di guardare avanti… cosa diavolo stava succedendo?

Altrettanto rapidamente di come era arrivato, il vento cessò, e la polvere tornò lentamente a depositarsi. Nel giro di due minuti, la visione fu di nuovo nitida e Stratton cadde in ginocchio, esterrefatto. Davanti ai suoi occhi c’era l’incredibile: un’enorme astronave, a forma di ferro di cavallo, costruita con una strana lega metallica dai riflessi verde-azzurro, riempiva il campo suo visivo!

“Jason, non so come ma… ce l’hai fatta!” – sussurrò il giornalista, con un filo di voce.

Nel frattempo, Frank aveva rianimato il ragazzo, che, ancora tremante, adesso sorrideva tra le braccia del padre, entrambi ancora accucciati a terra, ed entrambi con gli occhi sull’astronave che torreggiava su di loro a pochi passi. “Mio dio!” – la voce di Frank, impastata dalla sabbia che gli era volata tra i denti, uscì roca e strana anche alle sue stesse orecchie. “Allontanati, Jason!” – e spinse il figlio dietro all’auto di Stratton, intimorito dalla mole di quel veicolo alieno.

Stratton avanzava verso la gigantesca nave spaziale, quasi in trance. “Che fai, Robert? Non ti vorrai avvicinare a quell’affare…” – quello di Frank era quasi un sussurro. “Ti rendi conto Frank?” – ormai la formalità fra i due era stata definitivamente subissata dagli eventi straordinari – “Esiste vita su altri pianeti,… questo è il primo, vero, contatto con una forma di vita aliena, intelligente per giunta… le implicazioni sono impensabili, a tutti i livelli…” – il giornalista parlava soprattutto a se stesso, avanzando a passi incerti, lentamente, con gli occhi sbarrati.

L’attenzione di entrambi fu catturata da un specie di rigonfiamento pulsante, dritto davanti a loro, in un punto al centro dell’incredibile veicolo: emetteva una tenue luce rossa, che aumentava e diminuiva ritmicamente di intensità. Sotto al faro (se era un faro…), alcuni caratteri giallastri sembravano proprio formare una scritta, forse in rilievo. “Cosa c’è scritto la sotto?” – Frank indicava la luce pulsante. Robert lo guardò e poi puntò lo sguardo nella direzione indicata dal dito di Evans, sulla scritta, o quello che era, sotto la luce rossa. “Accidenti… un’incisione o una scritta…” – poi Stratton sorrise malizioso – “Che delusione se ci fosse scritto ‘Made in China’!” – i due uomini risero nervosamente, e tornarono ad aguzzare la vista su quel dettaglio dell’astronave.

Nel frattempo, nessuno badava più a Jason.

Il ragazzo, nascosto dietro l’auto del giornalista osservava attraverso i due finestrini laterali suo padre e il giornalista avanzare a passi lenti verso quell’astronave. Il suo sguardo si abbassò meccanicamente sul sedile del passeggero: c’era il quotidiano dimenticato da Stratton. “Foto…”, sospirò Jason, e, cercando di non fare troppo rumore, aprì lo sportello della berlina. Si intrufolò nell’abitacolo e afferrò il giornale. Lo dispiegò con avidità: dov’erano le sue amate foto? Scartò le prime pagine, che riportavano immagini in bianco e nero di persone che non conosceva e che non gli interessavano. A pagina quattro, una foto a tutta pagina pubblicizzava un villaggio vacanze in Messico: su una spiaggia deserta e bianchissima si stagliava al centro un sole accecante. Jason fu subito rapito da quell’immagine: “Sole…”, sussurrò in estasi, come ipnotizzato.

Frank si voltò verso l’auto del giornalista, in preda ad un sesto senso.  “Jason… che fai per dioooo?” – ma il suo urlo non arrivò mai alle orecchie del ragazzo, che stava già strizzando gli occhi…

Sopra di loro, a 36.000 km di altezza dalla superficie terrestre, un satellite geostazionario meteorologico documentò l’evento, che sarebbe stato catalogato negli anni a venire come il più devastante, quanto inspiegabile, di tutti i tempi. Una gigantesca palla di fuoco si materializzò sopra lo stato dell’Arizona, raggiungendo in una manciata di secondi gli strati più alti dell’atmosfera: si estese in pochi attimi allo Utah, al Colorado, al New Mexico, inghiottendoli con un rigurgito infernale; una protuberanza infuocata, lunga e alta centinaia di km, si dispiegò a ovest e vaporizzò in pochi attimi tutte le cittadine fino alla costa, facendo terra bruciata da Los Angeles a San Diego, per poi, pietosamente, spegnersi nell’oceano.

Ci furono milioni di morti e centinaia di migliaia di dispersi. Tra essi, Frank Evans e suo figlio.

Jason aveva guardato la sua ultima foto.

TURNO DI GUARDIA

Xan era nervoso.
La leggera variazione di assetto del modulo di attracco alla Stazione di Controllo, anche se perfettamente compensata dagli inibitori di inerzia, venne ugualmente rilevata dal suo sensibilissimo sistema percettivo, e gli provocò un leggero capogiro.
Ma forse era solo tensione nervosa: era stato selezionato per quel delicato compito su centinaia di candidati e non intendeva fallire proprio all’ultimo passaggio, il colloquio diretto con il Responsabile della Stazione, che egli avrebbe dovuto sostituire per i tre cicli stellari successivi.

Il sistema automatizzato del modulo gli comunicò di aver completato la manovra di attracco e di prepararsi ad essere trasferito sull’unità di trasporto interno: Xan formulò il pensiero standard di consenso ed il computer molecolare agì istantaneamente.

Xan era sempre più nervoso: adesso era finalmente al cospetto del Responsabile, che lo scrutava con occhi acquosi, trasmettendogli a livello subliminale il proprio dispetto e disappunto.
“Ho avuto modo di esaminare la sua Scheda, Unità Xan, e non le nascondo che la trovo del tutto inadeguata!” – il pensiero del Responsabile si fece largo di colpo tra i suoi pensieri con un livello energetico superiore e inaspettato, che lo colpì come una martellata.

“Ho una formazione neuronale di categoria 5A ed ho trascorso l’ultimo eone a…”, ma lo scorrere del pensiero di Xan venne bloccato da un impulso inibitore di eccezionale potenza del Responsabile: Xan ne riconobbe immediatamente la matrice basilare del Principio Organizzatore, e si sentì inferiore di molti livelli evolutivi rispetto al suo esaminatore.
“Unità Xan, cercherò di formulare astrazioni di natura elementare al fine di evitare incomprensioni derivanti dal suo basso livello inferenziale” – il livello alfa del pensiero del Responsabile si era fatto molto più basso, adeguandosi alla struttura neuronale attiva di Xan, e questo adattamento, gentile concessione del suo esaminatore, lo mise a suo agio, facendolo calmare un po’.
“Questa è basicamente una struttura scientifica con compiti di controllo e di orientamento” – continuò il Responsabile – “mentre l’Organizzazione sembra indirizzarsi sempre più spesso verso la selezione di nuovi controllori con una preparazione militare, a mio avviso insufficiente per gestire le numerosi situazioni di crisi che possono manifestarsi nell’ecosistema”.

Xan abbozzò una timida autodifesa: “L’imprintig di base della mia formazione per il compito di Controllore Responsabile consiste nel preservare l’integrità dell’ecosistema da interferenze esterne, che ne potrebbero alterare la matrice evolutiva” – aveva formulato con la massima rapidità possibile la prima parte del suo pensiero di risposta, sicuro di ricevere pressoché immediatamente l’impulso bloccante del Responsabile, che però lo lasciò continuare, “…pertanto nel mio agire sembrano configurarsi solamente azioni di natura intimidatoria verso gli eventuali agenti esterni, e mai rivolte in alcun caso all’ecosistema, che potrei a mia volta alterare al pari di una qualsiasi entità dissidente”.

“Giusta osservazione, Unità Xan” – il complimento del Responsabile arrivò con qualche intervallo di ritardo, con un livello alfa ancora più basso e Xan si sentì fiero di se stesso – “ciò nonostante” – continuò il Responsabile riattivando il livello di attenzione di Xan sul suo pensiero con un artificio mentale che a Xan era precluso, “…se un’entità dissidente dovesse penetrare la linea di difesa e raggiungere l’ecosistema, c’è una serie di procedure da seguire per arginare l’interferenza, da applicarsi con precisione e che Lei dovrà apprendere prima di iniziare il suo Turno di Guardia”.

Xan formulò il pensiero di consenso, seguito da un impulso di umiltà e sottomissione al Responsabile.

Xan odiava la procedura di programmazione neurale e cercò di consolarsi con il pensiero che per almeno 3 cicli stellari non avrebbe più dovuto sottoporsi ad essa.
Il computer molecolare della Stazione chiese il consenso a procedere, e Xan lo diede, dominando un sotto-pensiero di riluttanza.

Le nozioni tracimarono nella sua mente con un livello energetico talmente elevato che solo un’entità biologica artificiale come il computer molecolare di bordo poteva generare.

Dati, immagini e concetti danzavano come impazziti in ogni meandro della sua mente superiore.

L’ecosistema, predisposto con un’operazione di galacto-genesi in una regione disabitata e lontana dai quadranti più densamente popolati, racchiudeva un’intera galassia in un cubo virtuale di 100.000 anni luce di lato. La galassia artificiale era composta da 400 miliardi di stelle, che orbitavano a spirale intorno ad una coppia di buchi neri controllati da uno stabilizzatore quantico di eccezionale potenza.
Il programma di terra-formazione era stato applicato con regolarità ad ogni rivoluzione completa della galassia artificiale, creando condizioni favorevoli alla vita organica in 12.000 sistemi stellari; recentissimamente era iniziato il processo di irradiazione neuronale, capace di attivare funzioni cognitive superiori negli esseri multi cellulari più evoluti; l’ultimo pianeta trattato, e quindi bisognoso di accurati e costanti controlli di livello, si trovava in posizione mediana in uno dei bracci più esterni della costellazione a spirale.
Il pianeta prescelto, in orbita intorno ad una stella nana di classe spettrale G2, quinto per dimensioni rispetto agli altri pianeti del sistema e collocato in terza posizione orbitale, aveva la forma di un geoide, con diametro all’equatore di 12.756 km; il 71% della sua superficie risultava occupato da acqua allo stato liquido, con atmosfera gassosa composta per il 78% da azoto, il 21% ossigeno, più altri gas in percentuale trascurabile; popolazione neuro-trattata: 250 milioni di individui. Livello tecnologico raggiunto: 0,2 (società contadina).
L’ecosistema rappresentava un “agar” di coltura biologica per colonie di individui organizzati in strutture sociali, al fine di studiarne le modalità di sviluppo in un ambiente sterile, privo cioè delle sollecitazioni mentali provenienti da entità più avanzate.
Le Stazioni di Controllo, disposte al centro di ogni faccia e sui vertici di quell’immaginario cuboide attorno all’ecosistema, erano in tutto 14: a ognuna di esse spettava in egual misura il compito di sorveglianza sui confini dell’ecosistema da intrusioni esterne, oltre al monitoraggio di una serie di civiltà tecnologiche impiantate in coltura. Ogni Stazione era presieduta da un Responsabile, il cui turno durava per 3 cicli stellari (corrispondenti a 3 rotazioni della galassia attorno al proprio asse); il Responsabile si avvaleva della collaborazione di una serie di computer molecolari ed entità sintetiche, con livello Sigma 6 di Intelligenza Artificiale.

Xan provò un impulso di pena, per quegli individui abbandonati a se stessi. Quell’iniziale stato d’animo, al termine del processo di programmazione neurale si era trasformato in un inquietante senso di frustrazione, contro l’ingiustizia che le razze maggioritarie perpetravano contro quegli esseri inermi. Il computer rilevò quella serie di impulsi negativi e la segnalò al Responsabile.
“E’ normale provare pena per esseri indifesi” – il Responsabile stava mitigando con un suo intervento diretto la depressione mentale di Xan – “oltre ad un senso di ingiustizia nei loro confronti derivante dalla nostra superiorità, che appare male applicata, non essendo al loro servizio per farli evolvere meglio e più in fretta; ma è proprio questo aspetto che intendiamo studiare, e cioè misurare la loro capacità evolutiva autonoma ed innata, senza spinte mentali dall’esterno.”

Xan cercò di reprimere definitivamente sotto la soglia di percezione del computer molecolare quei pensieri che potevano essere definiti “dissidenti”. In seguito, meditando sugli esseri che popolavano il terzo pianeta di quel lontano sistema solare ai margini dell’ecosistema, esseri che ormai conosceva in ogni dettaglio per merito dell’ultimo imprinting mentale, pensò che se essi avessero voluto applicare ai loro stessi simili i parametri di ricerca dell’Organizzazione, avrebbero abbandonato dei bambini in una foresta, solo per studiarne il comportamento in assenza di una guida e una protezione genitoriale. Era semplicemente inaccettabile, ma Xan non poteva ribadirlo al Responsabile e, nonostante tutto, accettò a sua volta di essere nominato Responsabile della Stazione di Controllo n. 11.

L’avvicendamento con il precedente Responsabile si svolse con rapidità ed efficienza, senza lasciare scoperta l’attività di sorveglianza per un solo istante: le società in coltura si evolvevano con eccezionale rapidità e i doveri del Responsabile legati soprattutto al controllo dei livelli ottimali e la rilevazione dei punti critici nella precessione storica, non conosceva sosta.

Superata l’iniziale fase di smarrimento, Xan si gettò a capofitto nel suo importante incarico: studiò con avidità tutti i rapporti del suo predecessore, cercando di rintuzzare in fondo all’anima quel sentimento di pena e di ingiustizia verso gli esseri in coltura, che, di quando in quando, si riaffacciava alla sua mente. Scoprì che nell’ultimo ciclo stellare appena conclusosi, molti erano stati i tentativi di infiltrazione nell’ecosistema di alcune civiltà esterne, quasi tutti intercettati e controllati dal suo predecessore. In alcuni sporadici episodi, peraltro minuziosamente documentati, alcune Entità Evolute, non facenti parte dell’Organizzazione stessa, erano riuscite sorprendentemente ad eludere la sorveglianza e ad arrivare in contatto con gli esseri in coltura sui sistemi protetti dalla Stazione da lui adesso presieduta. Il suo predecessore era però riuscito a “sterilizzare”: aveva innanzitutto eliminato le entità penetrare, quando ne aveva l’autorità, o le aveva estromesse dall’ecosistema, procedendo quindi a mirate e chirurgiche irradiazioni neuronali su i pochi individui della colonia entrati in contatto mentale con le entità superiori, al fine di modificare i loro processi mentali per riportarli su percorsi compatibili con i parametri dell’evoluzione libera previsti dall’Organizzazione. Apprese che la tecnica utilizzata per la sterilizzazione si basava, in questi casi, sul fornire alle menti di quegli esseri primitivi un supporto cognitivo all’influsso esterno a cui erano stati loro malgrado sottoposti, capace di trasformare la spinta evolutiva impressa nei loro cervelli in nuovi percorsi neuronali, che li portassero a concettualizzare entità astratte e divine, in genere benigne, ma statiche e stabilizzanti, frenando, in modo controllato, i pensieri di nuova matrice, e rientrando di fatto nel medio periodo nei parametri accettati dell’esperimento.

Xan passava molto tempo a controllare i parametri di livello evolutivo, così come prevedevano le sue consegne, passando di civiltà in civiltà.
Era particolarmente interessato all’ultimo pianeta trattato, che aveva sviluppato una forma di vita intelligente basata su una specie di scimmie mammifere. Si trattava di un percorso evolutivo inconsueto: quasi tutte le altre civiltà in coltura si basavano sull’evoluzione di rettili o, ancor più comune, di forme di insetti.
Nonostante fossero stati appena irradiati (secondo i parametri di percezione dello scorrere del tempo da parte di Xan), quegli esseri avevano raggiunto rapidissimamente l’Età del Ferro e, attraverso sanguinose battaglie per il predominio sulle poche terre emerse di quel loro lontano pianeta, si stavano evolvendo con eccezionale rapidità, tanto che di lì a poco avrebbero raggiunto in breve l’Età dell’Atomo. Il pericolo di autodistruzione derivante da un approdo troppo veloce all’era atomica era percentualmente notevole, e gli venne segnalato dal computer molecolare della Stazione. Xan, in fondo al suo cuore, avrebbe voluto intervenire: sarebbero bastati pochi e mirati innesti mentali in alcuni individui scelti oculatamente nella popolazione dell’agar e ne avrebbe cambiato il corso evolutivo, portandoli lontano dalla catastrofe. Ma non poteva.

Xan non dormiva ma, al pari degli esseri inferiori in coltura, abbisognava anch’egli di periodi (in verità, molto brevi) di rigenerazione mentale. E fu proprio durante una di queste sessioni di riposo che il corso dei suoi pensieri reintegranti venne bruscamente interrotto dal computer molecolare, che aveva identificato un’entità superiore ai limiti dell’ecosistema.

“Stazione di Controllo 11 – Ecosistema Alfa 4 – Organizzazione Quadrante Omega 10” – il messaggio partì su tutti i canali di trasmissione neuronale conosciuti – “siete in procinto di penetrare in un’Area Riservata a colture biologiche; siete pregati di invertire la rotta e di evitare intrusioni nell’ecosistema Alfa 4”.
Xan rimase in ascolto. Nessuna risposta. Il computer molecolare segnalava il continuo avvicinamento dell’entità, avendola ora classificata come un essere di specie Elementare.
Xan si innervosì, e non solo per la mancanza di risposta: odiava gli Elementari.
Gli Elementari erano entità di pura energia, vecchi quanto l’Universo stesso e del quale si sentivano i padroni. Respinti ai confini più estremi dello spazio in espansione dall’Organizzazione, di quando in quando, con il loro fare mite, i loro modi gentili ma determinati, cercavano di interferire con le attività di controllo che l‘Organizzazione esercitava sulle più svariate forme di vita in evoluzione. Questa ingerenza era spesso mal tollerata, ma inevitabile: gli Elementari erano pressoché invulnerabili; i loro obiettivi, ignoti.

“Xan, tu sai che le entità biologiche del 3° pianeta del Sistema Tau 1.219 hanno bisogno di aiuto: NON PUOI IGNORARLO!” – il pensiero dell’Elementare irruppe nella mente di Xan e fece scattare tutti i sensore di allarme di interferenza neuronale della Stazione, per via dell’eccezionale potenza di emissione con cui era stato generato.
Xan esitò per qualche istante: ancora quell’impulso di pena per gli esseri inferiori, che cercò di dominare. Ma era troppo tardi.
“Questa è un’area riservata: Vi prego di allontanar…” – ma il suo pensiero venne obnubilato dal senso di pietà per quegli esseri in coltura, impulso che l’Elementare aveva percepito e che ora stava enfatizzando nella sua mente, ormai sotto il controllo dell’entità in avvicinamento.

Preso il controllo mentale del Responsabile della Stazione di Controllo, l’entità superò indisturbata i confini dell’ecosistema. Xan era come paralizzato: poteva percepire in presa diretta ogni azione di interferenza che l’Elementare stava effettuando, avendo stabilito con esso un ponte mentale che li teneva in contatto assoluto; percepiva in se stesso l’enorme senso di Amore e Soddisfazione che quell’essere provava aiutando nella loro evoluzione quegli esseri inferiori, sentimenti che adesso provava anche Xan.

L’Elementare si portò in pochi attimi in orbita attorno al terzo pianeta di quel remoto sistema solare.
Dopo una rapida scansione mentale dell’intera popolazione disponibile, scelse con cura l’individuo sul quale intervenire. Il soggetto prescelto, di genere femminile, venne investito dall’impulso mentale dell’Elementare, ridotto ad un sottolivello infimo di potenza, ma pur sempre il massimo che quell’essere fisico potesse sopportare. Nuovi percorsi neuronali si incisero in pochi istanti in quel cervello primordiale, l’equivalente di un imprintig mentale di nuove cognizioni e consapevolezze, adeguato a quella primitiva struttura cerebrale.
La femmina venne quindi fisicamente manipolata dall’Elementare, affinché fosse strutturalmente in grado di generare una nuova progenie geneticamente avanzata, che avrebbe fatto fare un balzo in avanti all’intera popolazione.
L’Elementare si spostò quindi nello spazio-tempo attorno a quel piccolo pianeta e fece altre due incursioni mentali su altri due soggetti, questa volta di genere maschile e scelti casualmente in epoche molto ravvicinate della processione storica di quella colonia in coltura.
Il suo intervento aveva impresso un impulso fondamentale, decisivo e nella giusta direzione all’evoluzione di quegli esseri, che non si sarebbero più autodistrutti ma avrebbero, in breve, raggiunto un livello tecnologico di categoria 2, vale a dire la capacità di utilizzare tutta l’energia del loro sistema solare, e avrebbero potuto espandersi lontano da esso. Avrebbe voluto garantire ad essi un rapido progredire fino ad un livello tecnologico 3, capace cioè di portarli fuori dalla loro galassia artificiale, ma per questo c’era tempo. E comunque non c’era fretta di portarli al cospetto dell’Organizzazione, con la quale, a quel punto si sarebbero dovuti confrontare.

Quando Xan recuperò del tutto le proprie facoltà mentali, l’Elementare se n’era già andato.
Mentre da un lato era ancora pieno di gioia (riflessa su di lui dal fortissimo condizionamento mentale dell’Elementare) per le azioni svolte, dall’altro si faceva strada la preoccupazione per la grave intrusione avvenuta nell’ecosistema durante il suo turno di guardia.
Il computer molecolare aveva ricalcolato le modalità di evoluzione della colonia, ne aveva rilevato l’abnorme variazione e, seguendo la sua programmazione, aveva inviato un allarme al Centro di Controllo Scientifico. Xan era spacciato e si apprestò, con rassegnazione, ad essere destituito.

Gli scienziati dell’Organizzazione arrivarono molto prima di quanto Xan avesse previsto. E presero il controllo della Stazione, per intervenire sull’ecosistema per sterilizzarlo.
Xan avrebbe voluto opporsi: riteneva che l’intervento dell’Elementare fosse stato giusto, sul piano etico, e non per via del condizionamento mentale: lo pensava autonomamente.
Fu dichiarato non idoneo all’incarico di Responsabile della Stazione di Controllo e venne destinato dai suoi superiori ad altre mansioni. Non seppe mai cosa successe alla colonia dell’Esperimento e come fecero gli scienziati a rimediare al danno perpetrato dall’Elementare.

Grazie alle registrazioni effettuate in automatico dal computer molecolare della Stazione, il sistema Tau 1.219 venne sterilizzato con successo: le forme di vita connesse con l’intervento dall’Elementare vennero riprogrammate, con le rassicuranti visioni delle divinità statiche, facilmente comprensibili da quelle menti primordiali, imprinting cerebrali che avrebbero rallentato il processo evolutivo tecnologico, permeando la processione storica di quelle creature con conflitti subliminali di stampo religioso, che avrebbero riportato i parametri evolutivi nel medio e lungo periodo nei valori accettati dall’Esperimento in corso.

I tecnici della predizione storica lavorarono a lungo sul 3° pianeta di quel sistema per eliminare gli effetti provocati del bambino nato dalla donna manipolata dall’Elementare: la sua influenza sulla popolazione fu molto più profonda di quanto si potesse controllare e, una volta morto (ucciso dai suoi stessi simili, perché troppo “diverso”), si trasformò egli stesso nella forma di energia Elementare che lo aveva generato.


Dalla Bibbia – Vangelo secondo Luca:
« L’angelo Gabriele fu mandato da Dio in una città della Galilea, chiamata Nazaret, a una vergine, promessa sposa di un uomo della casa di Davide, chiamato Giuseppe. La vergine si chiamava Maria. Entrando da lei, disse : «Ti saluto, o piena di grazia, il Signore è con te». A queste parole ella rimase turbata. L’angelo le disse: «Non temere, Maria, perché hai trovato grazia presso Dio. Ecco concepirai un figlio, lo darai alla luce e lo chiamerai Gesù. Sarà grande e chiamato Figlio dell’Altissimo; il Signore Dio gli darà il trono di Davide suo padre e regnerà per sempre sulla casa di Giacobbe e il suo regno non avrà fine». Allora Maria disse all’angelo: «Come è possibile? Non conosco uomo». Le rispose l’angelo: «Lo Spirito Santo scenderà su di te, su te stenderà la sua ombra la potenza dell’Altissimo. Colui che nascerà sarà dunque santo e chiamato Figlio di Dio ».

Dal Corano:

« Maometto era solito ritirarsi a meditare, secondo la tradizione islamica, in una grotta sul monte Hira vicino a Mecca. Una notte, durante il mese di Ramadan, all’età di circa quarant’anni, gli apparve un angelo che lo esortò a diventare Messaggero di Allah con le seguenti parole: « Leggi, in nome del tuo Signore, che ha creato,l’uomo da un grumo di sangue! Leggi! Ché il tuo Signore è il Generosissimo, Colui che ha insegnato l’uso del calamo, ha insegnato all’uomo quello che non sapeva.»

Dal Buddhacarita, poema epico sulla vita di Buddha del II secolo d.C.:
« All’età di 35 anni, dopo sette settimane di profondo raccoglimento ininterrotto, in una notte di luna piena del mese di maggio, seduto sotto un albero di fico a gambe incrociate nella posizione del loto, a Siddartha si spalancò l’Illuminazione perfetta: egli meditò una notte intera fino a raggiungere il Nirvana.».

Dal Libro di Enoch (testo apocrifo origine giudaica la cui redazione risale al I secolo a.C.):

« Esistono due categorie di Veglianti: i “buoni”, cioè gli angeli rimasti fedeli al Signore; e i “cattivi”, che sono angeli caduti o “diavoli”. Compito dei Vigilanti è vigilare sull’umanità. Per tutto l’Universo. »

SCALE

Gloria aveva 55 anni: era vedova, sola, casalinga.

Mentre si guardava allo specchio si chiedeva, come sempre senza risposta, che senso avesse portare avanti quella vita vuota e senza scopo. Il marito, buon’anima, l’aveva lasciata da un paio d’anni e si sentiva terribilmente sola. Non avevano avuto figli: li avevano desiderati, ma non erano venuti.

Se non altro, alla morte del consorte aveva incassato il sostanzioso premio dell’assicurazione sulla vita e adesso poteva tirare avanti senza dover lavorare.

“Così va al mondo!” – sussurrò alla sua immagine riflessa, e il suo viso tentò un sorrisetto forzato.

Quel giorno si era truccata e vestita in modo speciale: era una splendida giornata di sole, la prima bella giornata dopo settimane di pioggia ininterrotta, noiosa e sempre uguale, che l’avevano costretta in casa.

“Innanzitutto, un giro al Centro Commerciale… per fare provviste ma anche per comprarmi qualcosa di bello…” – continuò, sempre parlando alla Gloria dentro lo specchio.

Chiuse la porta di casa e si diresse a passo spedito verso il grosso centro commerciale che distava solo pochi isolati dalla sua abitazione.

Il mega supermercato richiamava gente da tutta la provincia ed era il fiore all’occhiello della cittadina in cui Gloria era nata e cresciuta: 9 ingressi su 3 livelli di parcheggio per auto e autobus-navetta, permettevano di accedere ad una struttura di 6 piani + 3 sotto-livelli interrati, che inglobava più di 800 negozi, palestre, ristoranti, 2 cinema, un infinito numero di sale giochi e servizi di tutti i tipi, dalle agenzie di viaggio ai centri-benessere, con piscine e saune incorporate… insomma, un vero monumento al Capitalismo & Consumismo.

Gloria ruotò insieme ad altre 15 persone nella gigantesca porta girevole dell’ingresso principale e si ritrovò all’interno della colorata e luminosa struttura, fatta per lo più di vetro e acciaio.

Invisibili altoparlanti diffondevano musica classica (Mozart o Bach? Gloria era incerta…), di quando in quando intervallata da annunci interni o brevi spot promozionali.

Tutte le classi sociali erano ampiamente rappresentate in quell’incessante andirivieni caotico di persone: dallo studente alla casalinga, dal manager al pensionato; c’era chi procedeva di fretta, chi lentamente, chi carico di pacchetti, chi con le mani in tasca, chi sorrideva felice, chi avanzava col broncio.

Gloria procedeva sicura, guardando senza realmente vedere le decine di persone che incrociava: arrivata davanti ad una vetrina di abbigliamento per signora d’alta classe, si soffermò a lungo sul modello indossato dal manichino in vetrina e, dopo un minuto di riflessione, decise di entrare per acquistarlo.

Dopo quasi due ore, Gloria girovagava ancora per il centro commerciale: aveva acquistato parecchie cose, che ora gonfiavano le due buste che sorreggeva non senza sforzo, una per lato.

Era al piano terra e decise, prima di andarsene, di fare un giro anche ai piani superiori: si accodò pertanto dietro ad una dozzina di persone, in attesa dell’ascensore.

Dopo dieci minuti buoni erano ancora tutti lì, in attesa del benedetto montacarichi che aveva deciso di non scendere più: la gente davanti a lei cominciava ad imprecare sottovoce, mentre il primo della fila aveva ormai consumato il tasto di chiamata, a furia di premerlo; inoltre, Gloria era consapevole che, al massimo, l’ascensore poteva portare dieci persone, per cui lei e qualcun altro avrebbero dovuto aspettare il giro successivo.

Esasperata e un po’ annoiata si guardò attorno: a pochi passi, dietro una colonna e di fianco delle toilettes notò una grande porta metallica sulla quale campeggiava la scritta: “SCALE”.

“Quasi, quasi…”, Gloria si morse il labbro e soppesò mentalmente l’opportunità che quella porta le offriva: un po’ di fatica in cambio di zero attesa. “Ma, si… prendiamo lo scale” – si disse e lasciò gli altri ad aspettare l’ascensore che non arrivava mai.

La porta aveva un grande maniglione anti-panico, che Gloria spinse con l’anca (aveva le mani impegnate dalle borse): l’apertura di spalancò girando su cardini perfettamente oliati, senza il minimo rumore; oltre la porta, un breve corridoio dall’aspetto clinico conduceva al vano scale.

La porta si chiuse automaticamente con un clangore inatteso: Gloria sobbalzò spaventata e si voltò di scatto; sul metallo, bianco e immacolato come le pareti attorno, si leggeva “PIANO 0” a caratteri cubitali; la grande e spessa porta di metallo, una volta chiusa, insonorizzava l’ambiente: Gloria si trovò immersa in un silenzio inquietante e sentì l’impulso fortissimo di tornare indietro, tanto più che un leggero capogiro ed un po’ di nausea si erano improvvisamente manifestati in lei.

Avanzò invece meccanicamente verso le scale, come aveva deciso, e posò il piede sul primo gradino, per salire: il capogiro si fece più forte, le pareti iniziarono a girare e Gloria dovette posare rapidamente una borsa ed aggrapparsi al corrimano, per non cadere.

Così com’era venuto, il capogiro passò, e Gloria si sentì di nuovo bene, anzi molto bene, al punto che un timido sorriso di sollievo comparve sul suo viso: afferrò con rinnovata energia la borsa lasciata cadere e inizio a salire le scale.

Dopo una decina di gradini si ritrovò su un pianerottolo intermedio: un’altra rampa identica saliva ancora nella direzione opposta. Senza pensarci, Gloria riprese la salita. Al termine della seconda rampa, c’era ancora un pianerottolo, identico al precedente, ma nessuna porta: “Che strano…”, pensò Gloria e cercò di guardare attraverso la tromba delle scale, verso l’alto, per capire quanto ci fosse ancora da salire, ma si riusciva ad intravedere solo la rampa successiva e, sotto, quella che aveva appena percorso.

Salì ancora, non senza fatica: ancora un pianerottolo, sempre uguale.

Imprecando sottovoce affrontò l’ennesima rampa, sperando che fosse l’ultima…

La sua fatica fu premiata: sul solito pianerottolo questa volta c’era una grossa porta di metallo chiusa, sulla quale si leggeva, sempre a caratteri cubitali, “PIANO 2”.

“Cavolo, sono salita troppo…pazienza, scenderò con le scale mobili” e si avviò verso la porta ma… qualcosa non quadrava. Ormai davanti all’uscio capì l’origine del suo disagio: non vedeva maniglie, ma solo un ininterrotto piano lucente e compatto di metallo smaltato di bianco. E adesso che ci pensava, anche l’altra porta, quella del piano terra, aveva il maniglione per entrare, ma nessun appiglio per aprirla dall’interno!

Stordita e un po’ confusa da quella scoperta, torno sui suoi passi: soppesò per un instante l’idea di salire ancora e la scarto immediatamente. Scendere era meno faticoso. Imbocco quindi la rampa di scale in discesa.

Rampa, pianerottolo, rampa, pianerottolo.

Ecco il corridoio di prima e la porta… ancora quella sensazione che ci fosse qualcosa di sbagliato: sulla porta, sempre chiusa e senza maniglie, c’era scritto “PIANO -1”.

“Ehi, ma che diavolo succede?” – imprecò. Appoggiò le borse ai lati della porta ed iniziò a martellarla di pugni. “Qualcuno mi sente? Sono rimasta chiusa fuori…!” – gridò, mentre una goccia di sudore si faceva strada in mezzo ai suoi occhi.

Si mise in ascolto ma l’unico suono udibile era il suo respiro, ed il tamburellare del suo cuore nel petto.

L’iniziale disperazione fu sostituita da una rabbia cieca: sarebbe andata a protestare dal Direttore del centro e gli avrebbe fatto passare un brutto quarto d’ora a quel bell’imbusto! Raccolse con frustrazione le buste della spesa e a passo spedito ritornò sulle scale.

“Scendiamo. Uscirò dal garage!” – decise. E si avvio.

Rampa, pianerottolo, rampa, pianerotto e porta senza maniglie intestata “PIANO -2”.

Perplessità, incredulità. Rabbia. Rampa, pianerottolo; rampa, pianerottolo e porta chiusa.

“PIANO -3”.

“C’è nessuno?” – Gloria urlava nella ristretta tromba di quella scala assurda. Doveva già essere al livello del garage, eppure la scala continuava a scendere. E Gloria scese ancora.

Dopo un numero imprecisato di rampe, pianerottoli e porte tutte identiche ugualmente chiuse, fatto salvo per il numero di piano che continuava a scendere, Gloria era esausta e madida di sudore.

Si sedette su un gradino, mollò le buste e si prese la testa fra le mani: “Ma che succede? Dove sono?”. Guardò ancora una volta, sorpresa ed impaurita, il numero che, impietoso e silente, risaltava in nero sulla candida porta di metallo: “PIANO -59”. “Ma che significa?” – singhiozzò Gloria, mentre le lacrime rigavano le sue guance pallide.

Passò una mezz’ora buona lì seduta, nello sconforto più totale: attorno a lei, il silenzio assoluto era rotto solo dal debole ronzio delle lampade al neon, che davano ad ogni pianerottolo la stessa lattiginosa luce biancastra.

Il suo stomaco brontolò. Certo, doveva essere ora di pranzo la fuori! Gli occhi si posarono sulla busta di plastica di sinistra, che era piena di cose commestibili: allungò una mano, la affondò nel sacchetto del pane e ne usci con una pagnottina, che inizio a sgranocchiare mentre si guardava attorno sempre più confusa.

Ma, in fondo, non aveva molto appetito. E poi non voleva mangiare lì, sulle scale. Si alzò con rinnovata risolutezza: “Devo uscire di qui!”.

Considerò che era meglio scendere senza borse, avrebbe fatto più in fretta e si sarebbe fatta rimborsare la spesa da quell’idiota del Direttore, una volta chiarita tutta la faccenda. Posò ordinatamente le borse in un angolo del locale, annotò mentalmente che erano al sottolivello 59 (che follia!) e imboccò la rampa successiva in discesa.

Gradini, pianerottoli, gradini pianerottoli.

Ormai Gloria scendeva a rotta di collo, spesso a due gradini alla volta. Una rapida occhiata alla porta, ogni due pianerottoli, ormai ignorando il numero di piano che, follemente, continuava a scendere, ma guardando solo con una rapida occhiata se era chiusa e se c’erano maniglie…

Gradini, gradini, gradini: il corrimano, ad ogni curva, la teneva in piedi, e poi giù per la rampa successiva… giravolta e giù… gradini, gradini, giravolta e giù, giù, giù…

Si fermò, con il fiatone, ancora più sudata (era un’impressione o faceva più caldo?): considerò di essere ormai ad almeno un chilometro sotto la superficie stradale… ma come poteva essere???!??

Guardò il numero sulla porta: “PIANO -347”. Disperata si accasciò contro il metallo: “Aiuto… qualcuno mi aiuti…”, riuscì a gemere mentre perdeva i sensi.

Si svegliò di soprassalto: quanto tempo era passato? Minuti o ore? Era sempre sul pianerottolo, uno degli infiniti pianerottoli tutti uguali di quella scala infinita e assurda. Ed era affamata.

Si mise a sedere e ripensò alla borsa con i viveri, ma… era rimasta quasi trecento piani più in alto!!! Impossibile anche solo pensare di risalire a prenderla: “Se solo me la fossi portata dietro…” – si rimproverò, inutilmente.

Con grande sforzo si rimise in posizione eretta: piedi, gambe, schiena gridavano il loro dolore.

Mosse con immensa fatica qualche passo, passandosi la lingua secca e gonfia sulle labbra aride.

Scale, scale e ancora scale. Pian piano ma inesorabilmente riprese a scendere. E scendere. E scendere ancora. Ormai non aveva più importanza: sarebbe morta scendendo, a costo di arrivare a piedi all’Inferno.

All’ultima rampa perse l’equilibrio e cadde: ruzzolò sugli ultimi gradini e si ritrovò sull’ultimo pianerottolo. Prima di svenire nuovamente, si rese conto di essere al fondo: non c’erano altre rampe da fare! “Chissà a che piano siamo…”, fu il suo ultimo pensiero prima che l’oscurità la inghiottisse.

Sognò che era sulle scale e scendeva, scendeva… scendeva…

Quando riprese conoscenza, si rese conto di essere allo stremo delle forze, ciò nonostante si costrinse ad aprire gli occhi. Roteò la testa e la vide: una porta diversa, colorata di rosso, sulla quale c’era scritto “ASCENSORE” e, sul fianco ad altezza d’uomo, un bottone di chiamata al quale era appeso un piccolo cartellino.

Con l’ultimo briciolo di energia si trascinò verso la parete dell’ascensore. Dopo un tempo che parve lunghissimo, riuscì ad avvicinarsi abbastanza per allungare la mano verso il bottone di chiamata: lo premette, ma quel dannato non si illuminò come si aspettava: rimase spento.

Schiacciò ancora, con tutta la forza che aveva, con tutta la rabbia che aveva. Niente.

Il cartellino appeso al tasto cadde a terra con la traiettoria zigzagante di una foglia morta: si rigirò in aria e atterrò vicino al suo petto, ormai esanime.

Sul cartellino c’era scritto: “GUASTO”.

Al piano terra, una guardia della sicurezza imboccò la porta delle scale, per il solito giro di sorveglianza: ormai il supermercato era chiuso e, a breve, anche lui sarebbe tornato a casa.

Accasciata sul primo gradino, senza vita, in mezzo a due borse della spesa, stava una donna di mezza età, con un’espressione agghiacciante sul volto: l’uomo capì immediatamente che era morta e uscì di corsa da dove era entrato per chiamare i soccorsi.

Una short story dell’orrore… tratta dalla mia raccolta.

L’AUTOSTOPPISTA

Route 66, U.S.A. Una delle più antiche higway degli StatiUniti: aperta alla fine del 1926, collega Chicago, sulla costa orientale, alla spiaggia di Santa Monica sulla costa occidentale, percorrendo quasi 4 mila km e attraversando otto Stati.

L’auto di Jack sfrecciava sicura. I fari, due lame di luce, illuminavano il percorso da molte ore rettilineo, attraverso il Texas. Alla radio, un motivetto country cercava di allietare una notte un po’ lugubre, senza stelle.

Jack, studente di medicina fuori corso, stava portando al nonno quella vecchia carriola d’epoca ereditata dal padre, defunto da pochi mesi. Per risparmiare qualche soldo, aveva deciso di partire da New York e portarla lui stesso al Los Angeles: il percorso sulla vecchia Route 66 era pericoloso e affascinate nello stesso tempo, un’occasione unica per stare solo con se stesso e misurarsi con le sue incertezze di adolescente all’ultimo stadio.

Erano da poco passate le 2 del mattino e il ragazzo cominciava a sentire la stanchezza: le palpebre gli si chiusero per un istante e l’auto, sebbene non andasse particolarmente veloce, cominciò a sbandare. Fu il procedere a sobbalzi sul bordo strada sconnesso che lo riportò di colpo alla realtà: “Cristo!” – esclamò Jack, sterzando vigorosamente per rientrare in carreggiata.

L’auto sbandò, si impuntò a centro strada ed eseguì un perfetto testacoda: Jack si ritrovò fermo, con il motore spento, a fissare la direzione da cui era arrivato.

Dalla radio accesa, la litania del cantante sembrava prenderlo in giro. “Cristo!” – borbottò, scuotendo la testa dal torpore. “Se non dormo qualche ora, finisce che mi ammazzo” – dichiarò a se stesso, mentre girava la chiave e rimetteva in moto il vecchio macinino.

Riprese il suo viaggio, raddrizzando l’auto nella giusta direzione: un infinito rettilineo davanti a lui si perdeva nel nero di quella notte scura. Solo da molte ore, il ragazzo riprese a parlare da solo: “Dove diavolo sono? Ci sarà un posto di ristoro quaggiù? Certo che se ti capita qualcosa in questo deserto possono passare settimane prima che qualcuno possa aiutarti…”.

All’improvviso, i fari illuminarono una sagoma, che il procedere dell’auto rese nitida solo all’ultimo momento: era un ragazzo. Un ragazzo come lui, anche più giovane, con uno zainetto in spalla, che chiedeva un passaggio.

Jack lo superò e poi continuò a guardare la sagoma scura che scompariva nello specchietto retrovisore. Frenò di colpo: “Un po’ di compagnia mi farà bene e… mi terrà sveglio!”. Innestò la retromarcia e raggiunse l’autostoppista, che, nel vederlo retrocedere, stava correndo verso di lui.

Il giovane si chinò verso il finestrino dell’auto, mentre Jack abbassava il cristallo: “Buonasera, può darmi un passaggio? Sono diretto a Santa Monica”, esordì cordialmente il ragazzo.

Aveva un viso allegro e fresco, che ispirava fiducia e simpatia. Nel vederlo, Jack non ebbe esitazioni: “Ma certo, sali pure. Santa Monica mi è di strada”.

Mentre saliva sull’auto, il ragazzo si profuse in ringraziamenti e sorrisi: getto lo zaino sul sedile posteriore e si accomodò su quello del passeggero: l’auto ripartì istantaneamente.

“Sai, la mamma mi dice di non dare mai passaggi a nessuno: ma ti ho visto qui, solo, nella notte e così… sei uno studente?” – chiese il guidatore al ragazzo, spostando rapidamente gli occhi da lui alla strada.

“Beh… non proprio…” – rispose lui, un po’ vago. Si guardava attorno con interesse: “Ehi, ma questa è una Buick Riviera del ’64, giusto?”

“Esatto” – ribatté Jack un po’ stupito – “ti intendi di auto d’epoca?”

“Un po’…” – rispose il giovane, con una punta di imbarazzo che gli colorava di rosso il viso – “…è davvero uno splendore…” – osservò accarezzando il cruscotto di pelle della berlina.

“Mio nonno l’aveva regalata a mio padre, che l’ha tenuta in un garage in affitto per anni; ora che è morto, la sto riportando al suo proprietario originale” – spiegò Jack al nuovo arrivato, che lo guardava con interesse.

L’auto sfrecciava sicura nella notte e Jack era sempre più contento di aver preso a bordo Bill (questo era il nome del ragazzo), che si stava rivelando un ottimo compagno di viaggio.

“Accidenti che scuro: una notte senza luna, da licantropi” – disse ad un certo punto, dopo un momento di silenzio tra una conversazione e l’altra, guardando il cielo color inchiostro.

“Ti piacciono le storie dell’orrore? Io ne conosco di bellissime…” – disse Jack, un po’ annoiato, continuando a scrutare il nastro d’asfalto, che scorreva veloce sotto di loro.

“Eccome!” – sussultò Bill – “sono la mia passione! Dai, racconta…”

Dopo un breve quanto inutile tentativo di dissuasione, Jack iniziò a raccontare una storiella vista in un episodio di “The Twilight Zone”, che raccontava di una coppia di fidanzati che andava ad amoreggiare in pieno deserto e lì venivano aggrediti da quello che sembrava un maniaco, ma poi si rivelava essere un’entità maligna.

“Caspita Jack, davvero terrificante… soprattutto la parte quando la ragazza urla e non c’è nessuno che possa sentirla… del resto, in pieno deserto, se qualcuno urla chi può sentirlo?”

“Già…” – annui Jack, mentre osservava con la coda dell’occhio lo sguardo entusiasta del ragazzo.

“Beh, visto che questo genere di storielle ti piacciono, ne ho per te una ancora più terrificante!”

E senza ulteriori incoraggiamenti da parte di Bill, iniziò la seconda storiella, quella della vecchia che compone un puzzle nel soggiorno di casa sua e, man mano che va avanti, si accorge che la figura che viene fuori è quella di se stessa mentre compone il puzzle, seduta nel suo soggiorno, ma alla finestra, pezzo dopo pezzo, si materializza l’immagine di un pazzo omicida con la bava alla bocca.

“L’ultima cosa che sentì la vecchia signora, sistemando tremante l’ultimo tassello, fu il rumore dei vetri infranti…” – disse Jack con voce profonda al suo terrorizzato passeggero, che lo squadrava con occhi sgranati.

“Accidenti… che paura!” – disse Bill rilassandosi un poco sul sedile; Jack sottolineò il momento con una fragorosa risata, lieto e fiero di avere impressionato il suo giovane amico.

Passarono alcuni minuti in silenzio: il deserto scorreva fuori dai finestrini, buio e spettrale; uniche luci quelle dei fari, che si riflettevano sull’infinito nastro di asfalto.

Nessuno nei paraggi.

Nessuno a vederli passare.

“Ehi, amico” – d’improvviso Bill si rianimò – “Io di storielle non ne conosco, ma la vuoi vedere una cosa veramente, ma VERAMENTE, terrorizzante?”. Gli occhi di Bill vibravano d’impazienza e imploravano il suo autista di rispondere con un “si”.

“D’accordo. Ma guarda che io sono uno smaliziato: non mi impressiono facilmente…” – ribatté Jack con un leggero tono di sfida nella voce.

L’auto sfrecciava sicura nella notte e non c’era nessuno a guardarla passare.

Nessuno quindi sentì il ruggito infernale e, subito dopo, il grido disumano, che scaturirono dall’abitacolo.

E non c’era nessuno per vedere il fiotto di sangue che, un secondo dopo, imbrattava il finestrino del guidatore, insieme a brandelli di cervello umano.

Nessuno vide l’auto fermarsi pian piano e accostare lentamente, come se il guidatore avesse di colpo smesso di premere sull’acceleratore. E, di nuovo, non c’era nessuno a vedere uscire lo strano essere dallo sportello del passeggero, un mostro simile ad un granchio gigante, con grosse chele imbrattare di sangue…

L’essere uscì agilmente dall’auto con tutte e sei le zampe di cui era dotato e, allungando un tentacolo viscido, recuperò lo zainetto dal sedile posteriore dell’auto: dopo pochi minuti, sembrò sfarfallare nella notte e scomparire nell’oscurità.

Nessuno vide che, pochi passi più avanti, il granchio immondo di chissà quale inferno si era trasformato nuovamente nel giovane ed innocuo autostoppista.

Ma ben presto, qualcun altro lo avrebbe incontrato.