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Lockdown n. 5 – Raffreddori

In questi tempi di pandemia, con milioni di persone nel mondo aggredite dal virus, che da più di un mese insiste sull’Italia, l’emergenza generale porta inevitabilmente a concentrare l’attenzione sulla forte polmonite interstiziale di origine virale che mediamente sta mietendo 800 vittime al giorno. Restano intatti i motivi ansiogeni che ci inducono al restare a casa, anche se l’altro slogan mediatico “andrà tutto bene” sembra aver perso di credibilità. Mentre in tv continua imperterrito il bombardamento di opinionisti ed esperti spesso in disaccordo tra loro, emerge prepotentemente, da queste parti, il problema delle mascherine. Il principale dispositivo di protezione personale dal contagio non è ancora disponibile per tutta la popolazione. Anzi, no, invece di essere distribuite ad ogni angolo di strada le mascherine arrivate sui banconi delle farmacie costano cifre esagerate, rendendo difficile procurarsele, anche perché bisogna prenotarne telefonicamente la consegna e mettersi in fila, quando è possibile. Succede allora che l’allarmistica raccomandazione mediatica di far scattare immediatamente le procedure di contenimento e quarantena, non appena si verifichi il minimo caso di raffreddore, fa sentire come un appestato chiunque, a causa dell’inverno prolungato, vada incontro ad una rinite, ad una semplice infiammazione, ad un basico raffreddore. Guardato con sospetto e ancora più isolato dentro il “distanziamento sociale” a cui siamo obbligati.

Ri-confinamento

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Dopo due giorni vissuti come se non ci fosse un domani, con la gente presa dalla sindrome dell’apocalisse in arrivo: i negozi presi d’assalto, le strade affollate di persone, anche quelle che non uscivano da anni, ed un traffico intasato di veicoli; la mia città si ritrova ristretta in un nuovo confinamento, misura estrema per rallentare la diffusione del virus. C’è da dire, però, che stavolta il provvedimento che limita la mobilità territoriale e le attività fino ad impedirle non ha un fondamento legato al numero dei contagi e delle morti da coronavirus, non elevatissimo da queste parti, ma piuttosto alla gravità della situazione delle strutture ospedaliere, che, nel dispositivo con cui è stata divisa l’Italia per fasce cromatiche, relega la Campania in zona rossa, mentre altre regioni continuano ad essere gialle o arancioni. Noi come la Lombardia e il Veneto in giallo. Così, in mancanza di un lockdown nazionale, come all’inizio dell’emergenza, qui si fanno di nuovo i conti con i molteplici divieti e le poche concessioni, come se fossimo aggrediti da una situazione difficile da controllare.

Magari lo sarà nei luoghi di maggior densità abitativa, Napoli in testa, ma per il territorio irpino, dove la pandemia ha pure aumentato le cifre dei positivi e delle vittime, non sembrano persistere condizioni tali da obbligare le persone a rinchiudersi in casa, ad uscire solo muniti di autocerficazione, a rispettare rigorose disposizioni assimilabili al coprifuoco esteso a tutta la giornata. E questa è la prima contraddizione, un vero e proprio difetto di forma che anima il provvedimento dell’esecutivo, capace in poche ore di modificare il colore della nostra regione, dal livello meno grave direttamente a quello gravissimo. Senza sapere effettivamente quali siano state le motivazioni davvero probanti. La strategia regionale con cui si sta affrontando questa paurosa seconda ondata dell’epidemia, del resto, non riesce ad essere convincente né condivisa come dovrebbe, a causa delle differenze attuate tra zone e zone. Tutt’altra cosa la chiusura proclamata sul piano nazionale.
Ma una responsabilità si può individuare nell’atteggiamento del presidente De Luca, che prima ha sbraitato perché la Campania era finita in fascia gialla, chiedendo al governo misure più drastiche, e poi quando queste misure sono arrivate ha protestato vivacemente contro lo stesso governo, chiedendone addirittura le dimissioni, se una giunta regionale possa sfiduciarlo, per manifesta incapacità. Intanto, è la gente comune, quella sempre in mascherina e distanziamento sociale, che ne subisce le conseguenze. Da qui fino al 3 dicembre, data di scadenza dell’ultimo Dpcm, sarà costretta ad un’ulteriore prova di sopravvivenza. Poi si vedrà. Se la morsa della pandemia dovesse allentarsi, le misure potrebbero divenire più leggere, sempre con il dubbio depressivo sulla possibilità di fare un Natale più o meno normale, con il Covid ancora presente tra di noi. Meno di un mese, quindi, per verificare se sigillare tutto per fermare la circolazione del virus è ancora l’arma più efficace per combatterlo.

In un paese civile

In un paese civile, aggredito da una pandemia subdola che non smette di mordere in in maniera indiscriminata, i suoi rappresentanti del governo non verrebbero assaltati ogni momento per la loro presunta incapacità. Per gli errori compiuti nella gestione dell’emergenza. Senza proporre delle alternative.

In un paese davvero civile, maggioranza ed opposizione farebbero fronte comune e, deposta l’ascia di guerra, si sarebbero concentrate con spirito unitario ad organizzare le risposte più efficaci rispetto all’eccezionale portata del contagio che non risparmia nessuno.

Invece, dentro una realtà frammentata dal regionalismo poco federato, si continua nello stillicidio delle contrapposizioni partitiche, fra gruppi parlamentari e categorie di persone colpite dai provvedimenti di chiusura. Regioni contro esecutivo.

C’è scarsa condivisione nell’Italia attuale, che dal febbraio scorso è alle prese con il mostro rappresentato dal Covid-19. Senza riuscire a venirne a capo. E la situazione nazionale investe in maniera devastante anche le piccole città come Avellino.

Qui, come altrove, si registra da giorni una preoccupante impennata di contagi. I ricoveri in Ospedale sono ormai sold out e, nonostante le rassicurazioni, che vengono soltanto da chi è al timone dell’amministrazione comunale, il momento è critico. Più di quanto fosse stato nel pieno dell’epidemia a marzo.

Obbligati dall’incrocio di ordinanze regionali e nazionali, che hanno chiuso le scuole, con proroga fino al 14 novembre, imposta la Didattica a distanza, mantenuto lo smart working ed il coprifuoco dalle ore 23 alle 5 di mattina, gli avellinesi si ritrovano in un’atmosfera spettrale, accentuata dalla chiusura anticipata dei bar e ristoranti alle ore 18. Nel tentativo di limitare la mobilità dei cittadini, condizione ritenuta necessaria a bloccare la circolazione del virus.

In assenza dei primi riscontri dei provvedimenti anti-Covid, si va avanti per tentativi ed errori, mentre la pandemia non cessa di crescere. Al permanere delle divisioni e del malcontento degli esercenti vittime designate del pre-lockdown che stiamo sperimentando, i cittadini nel disorientamento generale subiscono con evidente malsopportazione gli effetti della stretta inevitabile alla loro libertà di movimento, messa a repentaglio dal distanziamento sempre più “sociale” oltre che fisico.

In un quadro siffatto, alcune decisioni provenienti da Palazzo di Città non fanno che preoccupare ulteriormente quanti vorrebbero certezze e trasparenza dai propri rappresentanti istituzionali. Se, da un lato, il Consiglio, col suo presidente urologo, ha optato per le riunioni in remoto, evitando però di rendere pubblico l’accesso alla piattaforma virtuale scelta per il civico consesso, per renderlo visibile come dovrebbe essere per l’assise in presenza; dall’altra c’è il solito fiume in piena delle dichiarazioni del primo cittadino, che in questo grave frangente si è ritagliato il tempo per affidare al suo mentore costruttore edile l’appalto sull’edificazione di alloggi popolari destinati ai senza casa del capoluogo.

Più trasparente, ma confusa, la strategia della fascia tricolore sull’emergenza sanitaria, fin quasi a negarla. Unico sindaco d’Italia a non temerla, solo con i nuovi numeri del contagio ha pensato bene di organizzare a Campo Genova una struttura per effettuare test sierologici a tutta la cittadinanza. Solo che questo tipo di analisi (pungi-dito) serve poco, in questa fase, perché accerta solo la risposta immunitaria al virus, senza individuare in maniera certa i positivi. In più, proprio nello stesso spazio destinato ai prelievi sotto l’egida del Comune, ci sarà anche l’Asl ad effettuare i tamponi secondo la pratica del drive-in, di certo più attendibili e sicuri di quegli altri che contemporaneamente saranno svolti a Campo Genova. È evidente il rischio di generare un grande caos, con deboli garanzie nel trattamento immediato di quanti risulteranno positivi ai test.

In un paese civile.

Clerical city

Non si deve essere per forza atei o anticlericali per rimanere sconcertati di fronte alle scene di confuso assembramento a cui abbiamo assistito, ieri sera, in città per l’adorazione dell’Assunta. Qui il culto della Madonna s’è confermato il protagonista principe delle feste ferragostane. Che, in effetti, quest’anno non ci sono state affatto per i laici, mentre per i credenti e cattolici praticanti non è cambiato quasi niente.

Sì, non c’è stata la tanto attesa processione per le strade della città, ma il surrogato proposto alla popolazione avellinese non è stato da meno. La statua della Vergine è stata infatti trasportata dalla cattedrale del Duomo in piazza Libertà. Montata su di un palco rigorosamente transennato per l’omaggio dei fedeli. Il giorno prima, per la benedizione della vigilia, e, la sera seguente, a raccogliere l’afflato della folla di credenti.

E non importa che siano saltati i protocolli di sicurezza in tempi di pandemia. I distanziamenti fisici sono diventati solo un ricordo, tanto c’erano le mascherine a garantire protezione e sicurezza. Senza dimenticare, inoltre, i poteri salvifici della stessa statua che si venerava.

Così la folla che ha assistito alla messa, mentre da una parte della piazza due stranieri se le davano di santa ragione, indifferenti alla sacralità del rito che si stava consumando, si è subito catapultata dietro l’effige dell’Assunta che veniva riportata in cattedrale.

Risultato: il divieto di processione è stato così aggirato e la città di Avellino, completamente asservita alla religiosità ferragostana, ha potuto vivere, rissa a parte, la sua mezza processione, conclusa nella doverosa sosta al Duomo, a salutare la Vergine.

Comitati elettorali

Elezioni regionali 2020. La politica dei soliti noti, che da anni calcano i palcoscenici, mai appagati dei risultati raggiunti, s’appresta alla frenetica corsa con traguardo a Palazzo Santa Lucia, in una campagna per forza di cose ultra compressa.

Quando mancano circa 40 giorni al fatidico appuntamento con le urne, politici e politicanti locali sono chiamati a concentrare i propri sforzi a caccia di consensi. E, quel che più conta, di voti. In palio la scelta del nuovo presidente del consiglio regionale, tra cinque pretendenti: il governatore uscente, quello precedente, la solita opposizione che perde sempre, più due esponenti divisi in formazioni di estrema sinistra separate ma sostanzialmente analoghe nei programmi.

Attendendo l’ufficialità della presentazione delle liste, questi dovrebbero essere, al momento, i candidati apicali. Senza quasi nessuna novità. Anzi con un sentore generale di già visto e vissuto, rafforzato dalle ricandidature di personaggi desiderosi di tentare un altro assalto alla poltrona di consigliere regionale. Ben retribuita.

E, allora, riecco spuntare per Avellino i famosi “comitati elettorali”. Rapidamente realizzati dove prima c’erano negozi oppure edifici semi nuovi, non ancora abitati. Requisito primario: quello di essere sulla strada, il più possibile visibili e, come sempre, è difficile sapere chi ne copre le spese, visti i costi elevati degli affitti di locali a pianoterra specie in centro città. Ma l’importante, per adesso, non è nemmeno tenerli aperti con militanti in sede ad organizzare la macchina della propaganda, quanto mostrare di averli inaugurati, mettendo in bell’evidenza i propri maxi manifesti elettorali.

Mentre qualcuno ha già dato l’abbrivio a investimenti cospicui sulle elezioni del prossimo 20 settembre, andando ad occupare zone nevralgiche del capoluogo e dintorni con cartelloni di formato extralarge, abituali in periodo elettorale; è da ricordare che neppure quelli che si sono portati avanti con il lavoro hanno la certezza di essere candidati.

C’è, infatti, tutto un gioco di apparentamenti e coalizioni da rinsaldare nelle strategie politiche della composizione delle liste nel particolare momento che viviamo.

Il primo deterrente nei confronti della politica e, in senso lato, della socialità è senz’altro l’epidemia di coronavirus che non cessa e, oltre a condizionare le adunate pubbliche dei partiti, è presumibile che terrà lontano dalle urne un numero ancor più cospicuo di potenziali elettorali, con picchi di astensione al di sopra della media.

Per un turno elettorale in cui è pronosticabile un’affluenza assai limitata. Eppure la posta in palio è importante. Al minimo, può essere un trampolino di lancio per la “promozione” in Parlamento. Senza essere riluttanti rispetto ad incarichi altrettanto prestigiosi di assessore o consigliere regionale, e non dimenticando che il test regionale assume in questo frangente un significato determinante per gli attuali equilibri politici fra compagine di governo e centrodestra all’opposizione.

Sarà quindi un mese (e più) di fuoco per le ambizioni dei politici nostrani. Per i loro padrini e i “ras” di riferimento. Come, ad esempio, il beneventano scopertosi capo corrente in Irpinia. L’eterno signore di Nusco che si autoricicla inventandosi un nuovo schieramento. L’imbarazzante seguito che nel Meridione riscuote la formazione nordista per eccellenza, costretta adesso a sostenere il berlusconiano riesumato che vuole fare la rivoluzione. Alcune scelte, tuttavia, non sono state ancora fatte. Restano in piedi trattative tra portavoti e portavoce. E la confusione è tanta. Anche per chi vota a sinistra.

Decine e decine di liste si approssimano alla tenzone elettorale. Che non vinca il peggio.

Sulla cancellazione delle feste

Strana quest’estate avellinese. Già ci siamo occupati della drastica decisione presa dall’amministrazione comunale di non organizzare alcun evento, con l’aggravante però delle luminarie, confermate in alcune zone della città, a causa del rischio covid, ritornato ad essere reale per la presenza di alcuni cluster nell’entroterra provinciale.

Una scelta che lascia piuttosto interdetti, viste le recenti promesse di festa del sindaco Enjoy. E ancor di più se all’interno dello stesso hinterland avellinese qualcosa si muove in termini di spettacoli ed intrattenimento. Prova ne è stata la “visionaria” iniziativa dell'”Alba” a Sant’Angelo a Scala: una manifestazione suggestiva tra musica, storytelling, animazione, tutta in rigoroso distanziamento e, alla fine, riuscitissima. Eppure, in città, c’è stata la dimostrazione di come, sfruttando spazi all’aperto, si possa svolgere la presentazione di un libro e l’incontro con l’autore, facendo respirare un po’ di cultura, sebbene a numero chiuso, come nel caso dell’ultimo giallo di Franco Festa, alla cittadinanza assetata di eventi.

Piuttosto di cercare vie alternative, l’amministrazione comunale ha pensato bene di fermare tutto. Malgrado non avesse pianificato alcun cartellone da cancellare. Mentre sia a Salerno che a Benevento vanno in scena festival di cinema o musica classica, senza citare gli appuntamenti in programma a Napoli e Caserta. In questo, Avellino si conferma la cenerentola in campo culturale.

E allora l’impressione è che qui qualcosa non funzioni come dovrebbe. Evitare gli assembramenti è sacrosanto, oltre che ragionevole e prudente, dinanzi a eventuali recrudescenze di contagi, ma poi ritrovarsi per il Corso principale intasato di persone poco distanti, coi bar e le pizzerie tutte piene, i tavolini all’aperto presi d’assalto senza alcuna protezione anti-covid, sembra essere la stessa cosa di mettere su qualche spettacolo per la popolazione. Anzi avrebbe garantito maggiore sicurezza, applicando le norme.

In più c’è da considerare il gran numero di avellinesi che quest’anno non potranno andare in vacanza.

A questo punto, c’è poco da dire. O i nostri amministratori sono al corrente di dati a noi sconosciuti, magari le casse comunali mestamente vuote, nell’imminente minaccia del coronavirus (la temuta seconda ondata); oppure, di fronte alla riapertura delle attività sociali, pur concessa dal governo nazionale, hanno utilizzato il rischio epidemia per rinviare tutto a quando si tornerà alla normalità (per ora, proprio no).

Di certo, hanno mostrato una scarsa capacità di adattamento alle procedure imposte dalla pandemia. Lasciare l’estate completamente ai bar e pizzerie con tavolini all’aperto, comunque, non è da una città capoluogo di provincia.

Quello che è mancato è stata la giusta programmazione. Dopo la Summer Fest edizione 2019 ed i suoi presunti successi di pubblico, pur avendo a disposizione altri 400 mila euro – almeno a sentire l’assessore Luongo -, il Comune non è stato in grado di allestire alcun evento, malgrado l’emergenza sanitaria fosse iniziata a fine febbraio.

In altre città più o meno importanti di Avellino, nella necessaria riduzione degli appuntamenti in pubblico, per impedire assembramenti e contatti a rischio, qualche cosa si è salvato rigorosamente all’aperto e a distanza di sicurezza. Poco ma meglio di niente.

Aggiungete poi lo stop alle sagre e alle feste patronali, la situazione in Irpinia è abbastanza triste. C’è sempre però la possibilità di darsi al trekking, alla scoperta della bellezza dei nostri borghi e dei paesaggi mozzafiato del nostro entroterra. L’Alta Irpinia, innanzitutto, è uno scrigno di risorse non ancora a pieno valorizzate, con le sue oasi naturali, i bacini, le cascate, i torrenti, le montagne da esplorare con l’opportuna guida di esperti del territorio. Non importa se a numero limitato.

È questa l’ultima chance per soddisfare la voglia di vacanze che covid o no è sempre diffusa di questi tempi.Unknown-1

25° p.c. – Vigilia

Mentre l’Italia insieme ad atri paesi europei, come Germania, Francia e Olanda, scommette sul vaccino anti-Covid, al quale stanno lavorando i ricercatori dell’Università di Oxford in collaborazione con l’azienda Irbm di Pomezia, siamo alla vigilia del primo atto formale che darà inizio agli Esami di Stato 2020. La riunione preliminare d’insediamento delle commissioni interne, integrate dalla presenza di un presidente esterno, costituisce, infatti, l’abbrivio di un appuntamento destinato a rimanere nella storia, a causa delle condizioni speciali che lo caratterizzeranno. L’emergenza virus segnerà in maniera indelebile la memoria di maturandi e docenti impegnati in una prova rimasta in bilico durante i mesi più bui del lockdown. Domani mattina le commissioni esaminatrici, in presenza,  organizzeranno il calendario dei colloqui, fissando regole e modalità, mentre per i candidati si tratterà di aspettare fino al 17 giugno per cominciare. Sulla carta, la prova, limitata esclusivamente ad un’ora di discussione con docenti già conosciuti ad eccezione del presidente, appare come un’evidente semplificazione dell’Esame tradizionale, in cui gli scritti si rivelavano decisivi. Stavolta, invece, tutto è orale: gli argomenti della prova delle discipline di indirizzo saranno sviluppati in elaborati pre-concordati con il docente curricolare; così come gli studenti sapranno prima i testi d’italiano da commentare. Restano solo i materiali, proposti dai singoli commissari, a rendere un po’ meno scontato l’esito della Maturità 2020. Con i saperi da indagare ridotti all’osso e tanto fastidio causato dalle misure di sicurezza anti-contagio: candidato senza mascherina a 2 m. dai commissari, bardati di tutto punto (mascherine, visiera in plexiglas, magari pure guanti monouso). Per cinque ore al giorno, si tratterà di una prova di resistenza fisica e psichica, in cui gestire la tensione delle particolari condizioni ambientali insieme all’emotività dei ragazzi. Loro, come qualche osservatore ha evidenziato, la maturità l’hanno già conquistata, comportandosi con senso di responsabilità maggiore rispetto a quello degli anziani, nei momenti più neri dell’emergenza sanitaria. In bocca a lupo a tutti.

Sforzi di normalità

Lentamente ci stiamo avvicinando alla normalità. O almeno ci proviamo. Il contagio sembra ormai un affare del Settentrione, dove pure ci si sforza di superare l’emergenza. Mentre qui, in Campania, il pericolo viene avvertito più lontano. Tanto che si aspetta l’ordinanza liberatoria del governatore De Luca rispetto all’uso obbligatorio delle mascherine. Del resto, ad osservare i comportamenti dei più giovani, adolescenti in testa, i dispositivi di protezione personale sono diventati dei semplici accessori dell’abbigliamento. Da portare non sulla bocca ed il naso, come si dovrebbe, ma sotto il mento, quando non si decida di farne a meno completamente. Intanto che l’epidemia da Covid-19 non è ancora cessata, da queste parti infatti i ragazzini pare l’abbiano già sconfitta. Vero è che i casi di vite imberbi aggredite dal virus sono stati finora pochi, altrettanto vero che si è come depotenziata la sua carica virale, ma sono tornati i supersantos e le partitelle per strada. Le ragazze continuano a salutarsi con i baci e gli abbracci. E qualcuno si chiede se stiamo correndo troppo. Ma tutto questo potrebbe essere giustificato dai mesi di paura e di clausura che hanno come compresso l’energia vitale dei più giovani. Del resto, tra appena due mesi, saranno chiamati all’enigmatico ritorno a scuola tra mille precauzioni e poche certezze. Mentre nulla si sta facendo per garantire il necessario distanziamento all’interno delle aule. Con le regolamentazioni varie che accompagneranno il fare scuola. Neanche il ridimensionamento del numero di alunni per classe è stato finora progettato. Perché, evidentemente, porterebbe a sdoppiamenti e nuove assunzioni di docenti. Qui, il ritorno alla normalità si fa più problematico.

23° p.c. – Se muore l’Alta Irpinia

Risulta assai interessante il dibattito sull’Alta Irpinia, che in questi giorni attraversa la Rete. Come tutte le zone interne del Meridione d’Italia, quella che paesaggisticamente è la parte più bella della nostra provincia è indicata come la vittima designata di una crisi che nei prossimi mesi, secondo le previsioni di economisti ed esperti, dovrebbe essere ancora più tremenda di quella del blocco totale dovuto   all’emergenza Covid-19. A farne le spese, ovviamente, le aree meno sviluppate. Quelle meno dotate di risorse, dove i tentativi spesso scriteriati di industrializzazione sono stati fallimentari, rendendo illusorie le speranze di benessere di popolazioni quasi costantemente dimenticate. Oggi, però, incombe la paura di finire esclusi dalle politiche di ripresa dalla drammatica sciagura della pandemia, fuori da ogni idea di sviluppo. E l’Irpinia in senso complessivo: non solo l’Alta Irpinia, si ritrova tra due fuochi. Da una parte c’è, infatti, l’incapacità finora manifesta di mettere in campo progetti razionali da parte della classe dirigente a livello nazionale, che stentano ad affiorare. Dall’altra, l’altrettanto deficitaria capacità di progettazioni efficaci per il futuro della nostra terra da parte degli amministratori locali. A cui bisognerebbe aggiungere anche il contributo finora carente dei politici vecchi e nuovi di riferimento, e perché no degli stessi intellettuali irpini, tutti chiamati, adesso, a pensare con maggiore intensità ai destini di una provincia che, povera di infrastrutture e servizi, potrebbe davvero rinascere. Nel senso di nascere a nuova vita, solo se l’intera comunità, recuperato lo spirito collettivo e la necessaria coesione, si stringerà intorno all’obiettivo della migliore vivibilità. Per allontanare ogni pericolo di estinzione.

22° p.c. – Estate covid

Attaccati ai dati che quotidianamente aggiornano il conto dei morti e dei contagi, con il secondo risultato che ha preso ormai il sopravvento sul primo, siamo entrati nella cosiddetta “fase 3”. Senza neanche aver terminato la precedente di fine lockdown e lenta ripresa della normalità. Lo step successivo dovrebbe essere quello del completo ripristino di tutte le attività, dal pubblico al privato. Sempre, ovviamente, con le necessarie misure di sicurezza: distanziamento fisico, igienizzazione degli ambienti, mascherine, che restano obbligatorie almeno in Campania, sanificazioni, test seriologici su base volontaria e tamponi, dove possibile. In poche parole, la convivenza con il Covid-19 prosegue, evolvendosi. E per certi aspetti diventa più sopportabile. L’obiettivo della dimensione regionalizzata del contrasto al virus rimane quello di raggiungere la condizione che permette la liberazione dai dispositivi di protezione individuali, le famigerate mascherine. Per diventare zona “covid free” c’è bisogno però che il dato zero contagi assuma cararatteri di continuità prolungata nel tempo. Al momento, c’è sempre qualche piccolo numero che frena la completa liberalizzazione. Intanto, in questo strano, dal punto di vista climatico, mese di giugno, in cui non sembra ancora arrivata l’estate, solitamente associata a caldo afoso e voglia di mare, ci si arrovella su dove andare in vacanza. Sarà turismo di prossimità quello di quest’anno segnato dalla pandemia. Ma molti saranno quelli che non si muoveranno dalle loro case. In attesa dell’autunno e della paura che possa portare, come già qualcuno prevede, la seconda ondata di contagi.

21° p.c. – La laurea di Claudia

In quest’anno surreale per le attività formative, gli studenti e professori di scuole ed università sono stati costretti a ripiegare sul digitale, tra didattica a distanza, connessioni a piattaforme condivise, lezioni ed esami virtuali per salvare il salvabile. Mentre i ragazzi della secondaria tra pochi giorni saranno alle prese con il primo banco di prova del ritorno alla normalità costituito dall’Esame di Stato in presenza (anche se ridotto alla sola prova orale), hanno perso visibilità mediatica quelli che si laureano discutendo tesi attraverso un pc, collegati al link della commissione esaminatrice. Dopo aver riscosso l’interesse generale, l’anomala condizione dei laureandi on line sembra essere sparita. Eppure continuano le difficoltà tecniche per lo stato della connessione o il funzionamento di videocamere e microfoni, e soprattutto per i tempi estremamente contingentati della seduta di laurea virtuale con valutazione annessa alle relazioni e controrelazioni. Rigorosamente all’insegna della sintesi. Permane la costrizione operata su una delle esperienze più significative che un giovane può vivere: la laurea a conclusione di un percorso di studi molto spesso in salita. Che così perde buona parte della sua carica. Certo l’impatto emotivo per lo studente un po’ disorientato dalle modalità informatiche resta. Come la commozione. Ma non è la stessa cosa. Anche perché l’emergenza Covid-19 limita fortemente i festeggiamenti, i pranzi, gli abbracci, per la regola anti-assembramenti. Comunque, tutto questo lo vivrò oggi nella mia famiglia, con la seduta di laurea casalinga di mia figlia, mentre noi altri saremo in un’altra stanza a provare ad assistere a distanza. O quanto meno ad origliare dietro una porta per partecipare alla sua gioia. Almeno il brindisi però rimarrà lo stesso.