il segnalibro, o il sognalibro

Monsieur Flaubert, vi siete illuso

di poter compilare un elenco

esaustivo dell’idiozia umana!

Il segnalibro

Fuori, dal profondo

Come uno schiaffo inaspettato, il vento scagliò in aria le sedie e gli

ombrelloni che poco prima si trovavano disposti in file ordinate sul

prato, sputando raffiche di gocce dalle creste delle onde prima

che queste ultime, come arieti, si schiantassero sugli scogli con

fragore. Qualche bambino si mise a piagnucolare, subito

rassicurato dalla mamma, alcuni raccolsero in fretta e furia vestiti e

oggetti, altri si affannarono a chiudere gli ombrelloni rimasti in piedi.

Solo un uomo era rimasto seduto, quasi immobile. A parte i capelli,

che erano scompigliati come il mare, sembrava non essere

turbato da quella situazione, quasi non si fosse accorto di nulla. Aveva

continuato a leggere un libro dalla copertina azzurra fino a quando il

segnalibro era volato verso il mare.

Quel capriccio estivo che aveva bruscamente fatto virare, nel giro di

poco più di mezz’ora, un assolato mattino di metà luglio in un

burrascoso  paesaggio autunnale, si adattava bene al libro che

aveva tra le mani: anche lì una svolta, gli eventi che prendono

direzioni impensabili fino ad un attimo prima, la vita che ti spinge alla

deriva come una tempesta. Vedi la vita come una folla che ti guarda

dalla riva mentre tu ti allontani, attonito, in balìa delle onde. E in quel

momento, all’improvviso, ti rendi conto che non arriva nemmeno una

barca a soccorrerti.

Il libro, per qualche oscuro motivo, era rimasto tra gli scaffali del

soggiorno per anni senza che nessuno si fosse mai degnato di leggerlo.

In realtà, ad essere oscura era la ragione per cui Stefano quel giorno

avesse alla fine deciso di scegliere proprio quello, e non altri libri

anch’essi rimasti lì, anno dopo anno, a ricoprirsi di polvere.

Era forse stata quella parola del titolo, ”azzurra”, e il colore stesso

della copertina ad attirarlo? Quel libro, “La camera azzurra”, aveva

improvvisamente agguantato in lui e con forza qualcosa di indistinto,

che faticava ad affiorare, quasi fosse compresso da una massa

nebbiosa che lasciava trasparire solo poche ombre. Perché quelle

parole avevano esercitato un simile fascino proprio allora? Quale

meccanismo aveva determinato all’improvviso quella scelta quasi

inevitabile, urgente?

Quel giorno si era svegliato con l’idea fissa di alzarsi e andare come

prima cosa in soggiorno, davanti alla sua libreria bianca, alta, piena di

libri ordinati per categorie – mentre era ancora a letto si immaginava a

sfiorare con l’indice il dorso di quel libro di cui aveva rimandato per

troppo tempo la lettura. Già. Perché aveva rimandato tanto? Eppure

amava Simenon.

Ora quella frustata inferta dal vento e quelle onde che lentamente si

gonfiavano tra sfumature traslucide di azzurro, blu e smeraldo, che si

infrangevano sulle rocce con rigurgiti di schiuma, gli

ricordavano i paesaggi letterari di Simenon, paesaggi immaginati,

lontani e impalpabili ma indelebili, quasi fossero fotografie attaccate

alle pareti della mente con piccoli pezzi di adesivo. Vento, sole

tagliente, nuvole. Onde, sassi. Azzurro. Grigio. Come bolle di sapone i

nomi dei luoghi – Normandia, Sables d’Olonne, Le Roche Noir,

Fecamp, Bretagna – rimanevano sospesi, librandosi a mezz’aria.

Il vento. Poco prima il sole dorava la pelle dei bagnanti distesi sui

lettini o sulle tavole da surf ancorate a pochi metri dalla riva. Poi,

improvvisamente, un sovvertimento, tutto sembrava essere cambiato,

il mare, il cielo, la stagione; ma soprattutto il vento, che adesso

aumentava sempre di più la potenza, soffiava rabbioso, quasi avesse

deciso di spazzare da quel luogo un’umanità divenutagli

insopportabile. Le pagine del libro erano state quasi strappate da

quella furia che aveva anche fatto rovesciare, qualche secondo dopo,

una piccola barca a vela tirata a secco poco distante. Il segnalibro era

ormai perso, mentre le nuvole sparse nel cielo sembravano ora

accorrere ostili come per partecipare ad una cospirazione contro il

sole e contro l’azzurro.

“Tifone” – mormorò Stefano a fior di labbra, e l’oceano in tempesta di

Conrad lo sommerse per un istante dandogli una sensazione

sgradevole, come quella da cui era assalito durante il sogno che

ultimamente ritornava e in cui un’onda gigantesca si avvicinava

inesorabilmente alla costa sommergendo poi ogni cosa.

“Tifone”. Il libro letto due settimane prima. Salsedine e acqua sulle

labbra. E onde fuori e dentro. Onde che si agitano dentro. Nel sogno

tenevo la mano a qualcuno. Non so chi. Non ne ho visto il volto. Non

me lo sono confidato, nemmeno nella libertà del sogno. Chi mi teneva

la mano mentre la furia distruttrice del mare ci investiva? Se si alzasse

ora, un’onda gigante, chi avrei accanto a tenermi la mano? Il

segnalibro è volato. Lontano, oltre la siepe, oltre l’oleandro rosa,

sembra una farfalla che batte le ali in maniera scomposta, disperata,

prima di cadere. Le parole del libro continuavano a risuonarmi nella

testa vorticosamente, non riuscivo a smettere di leggere.

Ho visto ribaltarsi il tridente: l’albero per poco non colpiva il bagnino.

La gente accanto a me ha commentato con le solite frasi, qualcosa tipo

“per miracolo non l’ha preso” e “ma le norme di sicurezza? Niente,

eh?”. Ho chiuso il libro e mi sono alzato per andarmi a riparare nella

zona ristoro, ma più che altro per evitare di dover ascoltare quelle

banalità.

La camera azzurra dell’Hotel des Voyageurs, insieme al libro, adesso

era chiusa, – la porta e le finestre sbattute, sigillate – e Tony,

giovanotto di origine italiana e figlio del vecchio Angelo Falcone che

era emigrato in Francia per cercar fortuna, Tony – sposato felicemente

con la graziosa Gisele – era rimasto immobile, fissato nel fotogramma

della pagina, nudo in piedi davanti allo specchio a radersi nell’attimo

in cui sbirciava sorridendo il riflesso di Andrée, anche lei nuda, distesa

sul letto disfatto e con le cosce spalancate.

Libro in zaino, tempesta in corso, la camera d’hotel chiusa, sospesa,

con le vite di donne e uomini dentro, in attesa che le pagine fossero

aperte di nuovo, a ritrovare quel punto preciso su una linea lì dove

avrebbe dovuto stare il segnalibro che è volato via. Come descrivere

un piacere interrotto che alimenta ancor più il desiderio? Come

definire la brama di prolungare il godimento che si prova nel vivere le

vite di altri attraverso le pagine scritte dei libri? Stefano si chiedeva

questo nel momento in cui chiudeva il libro e correva a ripararsi.

Quale foce sarebbe stata in grado di riversare all’esterno il fiume che

scorreva nelle viscere trascinando come detriti frasi e parole e

immagini e poesia dalle pagine di un libro? E come descrivere il

sapore delle parole, e ciò che vive il corpo quando leggi cose che ti

strizzano dentro, che affondano la mano in profondità, fra cuore e

stomaco? Quanti libri avrebbero potuto saziare quella fame? Mille?

Diecimila? Tutti quelli di un’intera biblioteca magari affrontati in

ordine alfabetico così come avevano creduto di dover fare Bouvard e

Pecouchet?

C’è una camera azzurra nel profondo della mia mente. È rivestita da

una carta da parati dalla superficie metallizzata, imperfetta nei suoi

riflessi sfocati, quasi spettrali, ombre senza volto. Roba anni settanta.

Mi rivedo lì, al centro della stanza, sei o sette anni, a correre in circolo

su un tappeto rotondo dominato da tinte viola. Su una delle pareti

azzurre, come affiorando da un oceano verticale, due figure dritte e

rigide. Poi una delle due agita le braccia, quasi un attacco fulmineo.

Nel silenzio che è proprio di ogni abisso, monta un’onda sempre più

alta, arriva dal profondo della parete, sommerge tutto.

Occhi

“Ho un buco nella gola. E altri, non li conto più, nelle braccia. Lividi,

cerotti. Cerco di mandare giù una pizzetta, è soffice, davvero, ma mi

uccide. Questa tosse, poi, insistente, caìna, subdola, che mi

consuma lentamente. Per quanto ancora potrò vederlo che gioca, sorride, piange?

Per quanto ancora potrò guardarlo negli occhi? Lui evita. Lo so.

Perché in fondo lo ha capito, lo vede nei miei, di occhi, nelle mie

rughe, nel mio corpo sempre più magro, pallido. Dieci anni. Lo

vedono anche loro, mi guardano come se fossi un’apparizione, un

sudario. Le mamme dei bambini mi salutano, sorridono, parlano.

“Auguri a Gianni” – è il compleanno di mio figlio – “cantate tutti!

tanti auguri a te…”, “la foto! mettetevi lì dietro la torta, tutti insieme,

anche tu, Giuseppe, accanto a tuo figlio!”, mi sorridono ma lo vedono

cos’ho dentro, dentro agli occhi, dentro al cuore, io lo vedo riflesso nei

loro sguardi il vuoto nero che mi trascina giù nel barato. Mio figlio,

dieci anni! Guarda, il mare a quest’ora è una meraviglia. Poco dopo il

tramonto l’acqua prende i riflessi bluastri del petrolio, sembra più

densa, è l’ora in cui si fanno il bagno cinesi, cingalesi, pachistani, forse

perché hanno smontato ora da lavoro e vanno con le famiglie, forse

perché a quell’ora la spiaggia si svuota e in più l’ingresso è libero,

forse perché hanno pudore a mostrarsi mentre si immergono con i loro

improbabili costumi, con le magliette e le canottiere, con i veli. Non lo

so. La pizzetta, ne ho mangiata metà. Non ho fame. E la foto, la foto

l’ho fatta, ma mi hanno dovuto reggere da dietro.”

Giuseppe ha un cancro alla gola, viaggi tra Milano e Palermo, chemio,

radio, interventi. L’ultima volta che lo avevo visto ero rimasto

impressionato dal colorito innaturale, gli avevano messo sul viso e sul

collo qualcosa tipo cerone per coprirne il pallore, col risultato che

seduto sulla panca, nel suo abito scuro azzimato, tra l’incenso e i fiori,

ho avuto la sensazione che la morte aleggiasse dentro la chiesa e che,

invece di una prima comunione, si trattasse di un funerale. Oggi suo

figlio fa dieci anni, festeggiano qui sulla spiaggia. Ha scoperto di

essere malato un anno e mezzo fa. Porco mondo. Porco mondo e

vaffanculo. I suoi occhi cerchiati, scavati, il tubo che gli penetra nella

gola, sul braccio il cerotto e i lividi. Scrive poesie, almeno ne ha scritta

una. L’ho trovata tra le pagine del libro. Dimenticata. Un foglietto di

block notes a quadretti, ingiallito. Quanti anni fa è stato, sette, otto,

che me l’ha regalato? Una sera lo ha tirato fuori da uno zainetto,

l’aveva finito la sera prima. La camera azzurra. Te lo regalo, fratello, si

legge d’un fiato. So che ti piace Simenon, pensa che l’ho anche

comprato per sbaglio!

L’ho sognata, l’onda gigante, da lontano scorgevo l’enorme massa

cristallina che avanzava, e la mia angoscia cresceva. Poi una furia di

acqua ha sommerso tutto. L’angoscia di colpo si è dissolta, potevo

respirare, anche in quell’abisso, nuotare, e i colori erano chiari, puliti.

Dopo due giorni Stefano aveva finito di leggere “La camera azzurra” e

subito dopo aveva iniziato con “Betty”, sempre di Simenon, e in altri

due giorni aveva finito pure quello. Storie di disperazione, di discesa

verso l’abisso, verso il limite, e oltre. Sorpreso dalla velocità con cui

era riuscito a leggere i due libri, aveva deciso di rileggere Questo

bacio vada al mondo intero di McCann. Il solo nominare a fior di

labbra i loro nomi gli provocava un moto interiore vasto e profondo,

fatto di immagini e suoni e odori, dalla sabbia umida della spiaggia di

Dublino ai mattoni e all’asfalto infuocato di Brooklyn del 1974.

Corrigan, il santo dei sobborghi di New York, che cercava Dio tra

prostitute e spacciatori e si era ritrovato al bivio tra l’amore divino e

quello per Adelita, e il fratello di Corrigan – Cioran – e poi Claire e

Solomon, col loro Joshua oramai fantasma, e poi Gloria e Claire e

Marcia e Janet e Jaqueline lì nel lussuoso appartamento di una di loro,

così diverse ma unite dallo stesso dolore, lì a mettere su un piatto le

loro disperazioni per i figli morti in Vietnam con l’illusione di farli

rivivere ancora solo per qualche momento, e ancora Gloria la nera, la

nipote di schiavi deportati dal Ghana fin nel Missouri, che con le sue

scarpe troppo strette se ne torna a casa a piedi e con i piedi sanguinanti

attraversa Harlem perché i taxi spengono l’insegna luminosa alla vista

di una donna di colore, e poi Tillie e Jazzlyn, mamma e figlia a battere

sullo stesso marciapiede, e tutte quelle voci che come fiumi

serpeggiano e si gonfiano e si dilatano e infine si intrecciano e

dilagano sotto un cielo di frammenti di vetro in cui – appena visibile

da quei centodieci metri di altezza – un funambolo, il funambolo,

come un angelo senza ali armato solo di una lunga asta di metallo si

libra come in un’apparizione miracolosa.

Giuseppe – Peppe – è morto ieri.

Ho tra le mani La camera azzurra, mi resta questo di lui, e un mare di

ricordi.

della misericordia e di immigrati

preghiera

ribera

 

Oh, come Amor trasforma
i tuoi soavi e leggiadri occhi
quando l’innocente tuo pargoletto
ammiri in estasi – che ometto!
Oh, qual incantevole creatura generasti,
che ora, con la croce sul petto,
la Comunione in Cristo
accoglie a mo’ di cherubino,
che dolce bambino!
Lo guardi, tra i cori e l’incenso,
e lui, piccino, con languido sguardo
come una Madonna ti rimira.
E tu proprio la Misericordiosa, invero,
hai come fisso traguardo,
come unico pensiero.
Bontà e amore
son ciò che daresti al mondo intero.
Genuflessa, in preghiera, ringrazi
l’Altissimo e Onnipotente,
e da cristiana zelante
confessi quei tuoi sparuti e veniali peccati,
tu, che il mondo intero direbbe
pura e innocente più di un lattante.
Ah! ma il Fato non ti fu amico
fino all’ora tarda, fino al tramonto,
ché macchiò quel così candido evento
con disdicevole inusitato affronto,
quando volse, il tuo dolce fanciullo,
sensibile lo sguardo al pavimento
ove immondo giacea discinto e fetente
il nero immigrato, un pezzente.
Povera te, offesa da quell’essere
impudente
Povera te, sfiorata da quel lezzo
indecente.
La tua anima votata a Dio
non sopportò oltre quella sconcezza
di insozzare il sagrato di tale mondezza,
e proferisti sante parole accorate,
dicesti “il suolo italico lasciate!
Voi qui venite non per lavorare
ma per far gozzoviglia e stuprare,
e non paghi di questo
avete l’ardire di protestare
lui per l’insipido rancio con poco sale
e tu, musulmano, perché contiene maiale.
Ma quale guerra, ma quale tragedia,
torna al tuo lido, o marrano, e dunque rimedia
a questa vergogna. Non vi vogliamo!
Nostra è la terra che state usurpando
col tergicristallo e poi mendicando.
Altro che diritto del suolo! Questo mai!
Grandi e bambini, questo è sicuro,
vi prenderei volentieri a calci nel…”
“Din don din don” le dolci campane
copriron con santi rintocchi
ciò che l’alma devota lasciossi sfuggire
per umano errare e sacro furore.
Ma fu un secondo e subito dopo
la brutta parola era stata abbuonata.
Tre colpi sul petto e un’avemaria,
“Sicuro che Dio mi ha già perdonata.
Orsù, pace e amore e così sia”.

 

 

immigrati italiani .                           immigrati

Ricordati di ricordare: ricordare Henry Miller

images-8Chi conosce Big Sur? Per chi non sa chi sia Henry Miller, Big Sur è semplicemente una località della California, una splendida regione degli StatiUniti che si affaccia sull’Oceano Pacifico nel tratto di costa compreso tra San Francisco e Los Angeles. Per chi conosce Henry Miller, invece, Big Sur è molto di più, è luogo reale e mentale allo stesso tempo, è il “buen retiro” in cui visse per più di vent’anni lo scrittore, la meta di pellegrinaggio per i giovani della Beat generation, ed è anche quell’universo milleriano dove abitano uomini grandiosi nella loro semplicità, sogni, visioni, illuminazioni surreali e amori “millenari”, viaggi immaginati e reali. Big Sur e le arance di Hieronimus Bosh è, inoltre, il titolo fantastico ed evocativo di un libro di Miller: un libro che può essere per molti una rivelazione, l’iniziazione ad una nuova concezione della vita. Big Sur dunque può essere il punto di partenza per conoscere lo scrittore e la sua opera (che spesso coincidono).

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Miller nacque a New York il 26 dicembre 1891, e scrisse per tutta la sua vita libri che per la maggior parte sono autobiografici in modo scabroso, cosa che gli valse dalla critica benpensante il titolo di “pornografo”, “osceno”, “indecente” e persino l’incriminazione per offesa al pudore e la censura per moltissimi anni. L’oscenità, in realtà, è estrema sincerità, cruda, a volte violenta e scioccante. Tutta la sua opera, tutti i suoi libri, sono una lunga violenta e felice confessione di un uomo che ama la vita in maniera esuberante, e per questo ne accetta tutti gli aspetti: “la ragione per cui ho parlato tanto del perverso, del brutto, dell’immorale e del crudele – scrive Miller _ è che volevo si sapesse quanto importanti siano queste cose: importanti almeno quanto il bene”.

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Anais Nin ed Henry Miller

Certamente la sua opera non è garbata, ma senza dubbio è “uno sforzo onesto e sincero” per liberare se stesso come scrittore e come persona, e per cercare di liberare allo stesso modo i suoi lettori: liberarli dai pesanti condizionamenti della società (specialmente quella tecnologico-industriale americana, definita “l’universo della morte”) che conducono all’alienazione e alla massificazione, mortificando l’individuo e le sue potenziali capacità espressive. Da qui nasce la potente prosa di Henry Miller, che si serve dell’osceno non per scandalizzare, ma per denunciare il decadimento morale del mondo borghese contemporaneo, per ridicolizzare il perbenismo e i falsi miti, e più spesso per esprimere la violenza con cui guarda dentro se stesso, alla ricerca di un senso, di una risposta al meraviglioso mistero della vita. La sua oscenità, che non è pornografia, non è morbosa, guarda oltre se stessa, “è un tentativo di spiare i segreti processi dell’Universo”. Il sesso è vissuto come gioia, piacere, anche come disperazione; ma mai (tranne in alcuni libri degli inizi commissionatigli proprio con questo intento) perversione o peccato o degenerazione. Il sesso è parte della vita come l’amore, l’arte, la morte, il sublime, il sordido.images-3

Henry Miller è morto nel 1980, e di lui si parla poco o niente; non si parla dei suoi libri scandalosi come Tropico del Cancro, Tropico del Capricorno, Sexus, Plexus, ecc., e tanto meno si parla di quelli meno conosciuti ma ugualmente indimenticabili come Il sorriso ai piedi della scala, storia poetica e lieve ispirata ai circhi di Juan Mirò, di Chagall e Léger; o Ricordati di ricordare e L’incubo ad aia condizionata, apertamente polemici nei confronti della mostruosa società in cui gli uomini sono ridotti ad esseri grigi e amorfi; e ancora Dipingere è amare di nuovo, Big sur e le arance di Hieronymus Bosh, I libri della mia vita,  Primavera nera e tutti gli altri libri in cui Miller ha cantato un inno alla vita, “con la sua gioia di vivere, le sue esplosioni di energia vitale, la sua serenità di vecchio saggio, la sua sapienza di chi rispetta il corpo, lo conosce e lo ama almeno tanto quanto conosce, rispetta e ama i valori della mente”.

17 luglio 1959

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Forse quello fu il giorno più bello della mia vita. Non esagero.

Quello stesso giorno invece molti piansero.

Pianse mio padre, pianse la musica e pianse il jazz. Un lamento

rimase sospeso ad ondeggiare con i suoi ritmi sfiniti e i contrabbassi

di piombo e le trombe strozzate ad accompagnare una voce che

graffiava l’anima.

Quello fu il giorno più bello della mia vita. È vero. Ma alla sera – 

quando tornai a casa – seppi dallo sguardo di mio padre che

qualcosa di doloroso si era manifestato, qualcosa che aveva

incrinato la quotidianità che la radio ci propinava con le 

sue canzonette e i coretti e gli ottimismi da lucido

per scarpe: una voce compìta, impassibile, aveva annunciato

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che Billie Holiday da quel giorno non avrebbe più cantato. Che Billie

non avrebbe più sedotto e strizzato i cuori e sfregiato la

spensieratezza con la sua voce. Era morta nel letto di un ospedale

della scintillante New York con le manette ai polsi, l’epatite, lo

spettro dell’eroina e la polizia al suo capezzale.

Quel giorno il sole sorse come ogni altro giorno, ma non sembrò

splendere come sempre.

Io e Peppe Gelfo eravamo amici per la pelle. Stavamo quasi tutto il

giorno insieme: d’inverno ci vedevamo dopo la scuola e andavamo a

 giocare magari dentro qualche palazzina diroccata o in fondo a

qualche vicolo, dove qualcuno di noi assaporava il gusto delle

sigarette fumate nella clandestinità. D’estate il tempo si dilatava

infinitamente e le giornate ci apparivano come sterminate praterie

assolate di cui non riuscivamo a scorgere l’orizzonte.

A quel tempo io avevo dodici anni, lui uno in più.

Era l’epoca del rock’n roll e dei primi jeans, degli stivaletti e della

brillantina; i ragazzi si pettinavano alla James Dean, indossavano

stivaletti lucidi come specchi e si divertivano ad organizzare innocue

scorribande per le vie di Palermo fantasticando di gioventù bruciate.

Durante le sere più calde e noiose, insieme a Peppe e ad altri ragazzi

del quartiere più grandi e smaliziati, ci addentravamo furtivamente

nel cuore della città, dentro al quartiere Monte di Pietà, al

Castellammare o magari alla Kalsa, la zona del porto, alla Vucciria o

al Borgo, scivolando dentro vicoli umidi e malfamati, lungo la

via Sedie Volanti o la via dei Candelai, la via Gagini, la via Lungarini,

vicolo Marotta, rischiando forse anche la vita –  sì – lì dove fino

all’anno prima lavoravano a pieno regime le “pensioni”, eufemismo

usato per indicare il bordello: la pensione Taibi, l’Igiea, la

Settequarti; il sangue ci correva caldo e veloce nelle vene mentre

penetravamo in quei luoghi impregnati del peccato, quel “peccato 

sudicio” da cui Don Gino ci metteva in guardia durante i pomeriggi

passati in oratorio e che invece ci attirava a sé con forza. Le

 incursioni in quelle trincee del vizio qualche volta si

esaurivano dopo avere bersagliato di insulti e frutta marcia qualche

ragazza che – dopo pupizuccherola chiusura

delle “case” – se ne stava ore

appoggiata ad uno spigolo o ad un

portone o seduta su una seggiola

sgangherata a fumare o a leggere

un giornale o a ravvivarsi il rossetto un po’ sulle labbra e un po’

sugli zigomi. “Minchia, e che siete, pupe ri zuccaro?” qualcuno dei

ragazzi spavaldamente domandava. E in effetti quelle  ragazze erano

tanto truccate da sembrare le bambole di zucchero che

mangiavamo per la festa dei Morti.

Don Gino lo sapeva che bazzicavamo quei luoghi, forse ci aveva

visto, e forse magari ci aveva visto proprio mentre ben coperto si

intrufolava in una di quelle pensioni – così come qualche malalingua

insinuava. La domenica in confessionale ci chiedeva se non eravamo

passati proprio da “quelle parti”, e se non le avevamo guardate con

“concupiscenza” – usava proprio quel termine che io non capivo ma

immaginavo avesse a che fare con qualcosa di oscuro e  caldo e

seducente al tempo stesso. «Perché quelle là, quelle donnacce, eh…

peccano contro Dio e la Vergine! E voi non vi ci dovete avvicinare se

non volete cadere nelle mani del demonio! Capito?» – tuonava con

voce rauca. E a volte insisteva per sapere tutto – per redimerci, si

intende – e ci chiedeva quanto avevamo guardato e come, e poiché

«il pentimento è più sincero quante più sconcezze si

risultato Immagine per ragazzini confessionale

confessano», allora ci interrogava sui particolari: se

avevamo guardato le ”minne”, o «proprio lì sotto… eeeh  mi sono

spiegato, ah?». «Che Dio mi perdoni, ah!», diceva asciugandosi il

sudore col fazzoletto ricamato, «se per ripulire l’anima di ‘sto

ragazzino la mia bocca si deve sporcare con simili sudicerie!».

A quel tempo c’era qualcosa di musicale nell’aria, un ritmo che

faceva quasi danzare i robusti fianchi delle ragazze che

distrattamente si voltavano verso le vetrine dei negozi sistemandosi

i capelli, un ritmo che muoveva le poche automobili scintillanti che

guizzavano per le strade.

Noi non avevamo ancora l’automobile ma spesso mio padre, la sera,

seduto sul divanetto del piccolo soggiorno, 

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ci portava – me e mio fratellino Giacomo – con sé in viaggi fantastici

a bordo di una superba Giulietta Alfa Romeo che si

materializzava così per incanto, ma che qualche minuto dopo

poteva diventare anche una Spider Lancia

dal colore rosso fiammante. «Che  macchina volete, oggi, ragazzi?».

Accendeva il motore con un ruggito gutturale e metallico e

partivamo: sfrecciavamo lungo strade che si perdevano nel deserto

del Texas sollevando nuvole di polvere, come nei film americani che

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ogni tanto andavamo a vedere al cinema Olimpia; oppure

immaginavamo delle puntate al centro, attraversando i viali alberati

della città tra palazzine liberty e teatri e ville e balconi da cui si

affacciavano delle belle ragazze che noi puntualmente salutavamo

schiacciando un occhio, mentre mio padre, cappello in testa sulle

ventitré alla Frank Sinatra, stonando cantava qualche motivo jazz

tipo “blu mun” o stormi uèder”, dicendoci in tono solenne che

quelle le aveva cantate anche la grande “Billi Olidei”. «Bella.

Bellissima, porca miseria! E che voce!».

Quella sera, alla radio, avevano dato la notizia della sua morte. A

mio padre luccicavano gli occhi e non capivo se era per il vento che

immaginavo superare il parabrezza e scompigliarci i capelli, o perché

sapeva che mai avrebbe avuto una simile automobile, lui, con quel

suo stipendio da impiegato; ma è più probabile che pensasse alla

sua triste “venere nera”, come la chiamava lui. La quale avrebbe

continuato a cantare malinconicamente meravigliosa, ma non più in

questo mondo.

Quella mattina io e Peppe avevamo preso il bus per raggiungere la

spiaggia allo Stabilimento balneare di Mondello. Salivamo sempre

alla fermata del porto, che raggiungevamo a piedi attraverso strade

incorniciate dai tetri scheletri di edifici bombardati durante la guerra

e dai cumuli di macerie che ancora sembravano fumare. Tutto quello

richiamava alla memoria, con silenziose parole di pietra, l’orrore che

ci raccontavano i nostri genitori ma che a noi sembrava

infinitamente lontano: noi, invece dell’orrore della guerra, avevamo

davanti tutta la nostra giovinezza e un mondo da ricostruire come se

si trattasse di pezzi di legno colorato di un gioco per bambini.

Quel piccolo viaggio, per noi che non eravamo mai stati fuori città e

che le vacanze estive le trascorrevamo andando ogni mattina allo

stabilimento balneare a poca distanza da casa, era sempre come una

spedizione in terre inesplorate. E poi ogni volta accadeva qualcosa

che, per quanto potesse sembrare banale, ai nostri occhi era ora

divertente, ora preoccupante, o addirittura meravigliosa. Soprattutto

mi piaceva guardare i volti di quelle persone che si facevano

trasportare sovrappensiero o rassegnate, sorridenti o incupite,

uomini e donne e bambini che per una mezz’ora al giorno della loro

vita condividevano un pezzo di strada. Riconoscevamo al volo il

borseggiatore alla ricerca di tasche gonfie, o il maniaco che si

adagiava sbadatamente a signore più o meno distratte e che ad ogni

scossone o frenata si scusava rispettosamente. C’era anche un

giovane tarchiato e lurido che, frangetta sugli occhi e folta barba

corvina, viaggiava sempre seduto sulla spalliera del sedile. Aveva lo

sguardo pacato di chi è assente dal mondo ma ogni tanto torna per

porgere un sorriso distratto. I suoi occhi erano come assonnati,

mezzi chiusi, e le labbra disegnavano un sorriso accennato e

bonario. La camicia bianca aperta fino allo sterno mostrava il petto

abbronzato e villoso, ma quello che colpiva ancora di più era il fatto

che i pantaloni, che lasciavano nudi i robusti polpacci ricoperti da

screpolature e piaghe, erano tenuti da una cintura così stretta al giro

vita che il busto ne risultava quasi tagliato in due. Quel ragazzo

teneva sempre in mano dei fogli di quaderno su cui si stagliava una

scrittura fatta di segni inventati, quasi un’onda che si increspava e

poi tornava placida qualche rigo sotto, per poi riprendere ancora più

burrascosa. Faceva lunghi discorsi incomprensibili, in una lingua di

cui era l’unico interprete; poi ti sorrideva, e ringraziava.  Lo

chiamavamo “u marinaio pazzo”.

La linea nostra era quella che prendeva dal litorale, per un primo

tratto avanzando lentamente tra il riverbero accecante delle onde

nel porto, poi inoltrandosi tra palazzi antichi e fieri di essere ancora

in piedi; infine si addentrava nel parco in un’esplosione di verde e di

frescura.

Quando arrivammo al capolinea, il sole era già alto, il chiosco delle

bibite era circondato da ragazzini in mutande o in costumi troppo

larghi, che si rincorrevano lanciandosi arancine di sabbia o che

giocavano a palla. Con loro c’era anche Michela, ai miei occhi la

ragazzina più dolce e incantevole di tutta la spiaggia: era sempre lì a

giocare insieme ad altre bambine con bambole e servizi da cucina in

miniatura. Minuta, i capelli che le sfioravano le spalle, tenuti di lato

grazie a una forcina, aveva occhi neri e due grandi incisivi che le

illuminavano il volto. Avevo sognato infinite volte di avvicinarmi a lei

e dirle semplicemente “ti amo”, ma la mia timidezza mi si era

sempre conficcata nel fianco come una spina, paralizzandomi. E dire

che con Peppe facevo pure lo sbruffone,  allargandomi sulle mie

esperienze con le ragazzine.

Nel pomeriggio, al bar, lei era seduta in un angolo ed io, vedendola e

desiderando immensamente di parlarle, ero già rassegnato a sentire

impazzire il mio cuore, a provare quella specie di tremore

incontrollabile e ad arrendermi impotente al torpore che dalle gambe

saliva sempre più su. Invece quando ci trovammo vicini, proprio in

quel momento sentii un suono indefinito ma a me familiare che

giungeva da lontano e lentamente si faceva sempre più intenso e

chiaro, “I’m a fool”,  una tenue e struggente melodia si fece largo

“to want you” fino alle mie orecchie, “I’m a fool to want you, to

want a love that can’t be true”. L’ultimo saluto, la radio o forse un

juke box, alla Lady Day:  la voce di Billie Holiday, quasi avvolta in se

stessa, mi fece pensare ad un animale impaurito e tremante, ne

vedevo gli occhi lucidi ed uno sguardo che dal basso implorava una

dose di tenerezza, una dose di amore. I colpi del mio cuore erano

adesso il ritmo di quella canzone e il tremore si scioglieva in un

tiepido formicolio. Non so come, in quel momento trovai il coraggio

di sussurrarle “sei bellissima”. Rimanemmo a parlare e a giocare e a

ridere per un tempo che non so dire, con Peppe che ogni tanto per

 scherzo veniva a dirmi che delle sue amiche bellissime volevano

parlarmi, e cercava di trascinarmi via.

Il tramonto alle nostre spalle cominciava ad indorare la sabbia e il

legno delle cabine mentre io e lei, mano nella mano, camminavamo

scalzi sulla sabbia. Peppe stava più indietro, e sorrideva divertito. Sì,

me lo ricordo ancora: era il 17 luglio del ’59.

bianco

Il mio spirito inquieto –

impermeabile di gomma bianca –

giace disfatto

in questa fredda stanza

bianca di gelido marmo.

La profondità del vuoto

si moltiplica nei riflessi

umidi e levigati

del bianco tetto di marmo

dei bianchi muri di marmo

del bianco pavimento di marmo.

E freddo è il vetro della grande finestra

anch’esso bianco

perché fuori tutto è ghiaccio

Quando nel silenzio totale

Quando nel silenzio totale

del profondo sogno marino

i tuoi occhi umidi e dolci

cercheranno suoni di parole superflue

esisterà solo l’immensa vibrazione

del mio muto desiderio.

E divorerò silenzioso,

nel nostro abisso personale,

il tuo odore di mare e di sole

e il tuo sorriso leggero.

Mi nutrirò del tuo colore

e respirerò il tuo respiro.

Ecco, siamo già

in un abisso cristallizzato

dove il sibilo del silenzio

è poesia

dove i muti poeti di carta sfilano

come fossero ombre cinesi.

In fondo a questo nostro mare

viviamo l’eterno miracolo

viviamo senza tempo

adesso che possiamo farlo.

Perdersi in abissi personali

smarriti in azzurri oceani di piacere

è quello che rimane

alla fine di un lungo

pesante viaggio solare.

E’ l’ora del tramonto

Tra fragranze pungenti al benzolo

trascorro ore a meditare

in questo afoso recinto

di lamiere.

E’ l’ora del tramonto.

Tra riflessi giallo ocra

di metalliche ramificazioni

contemplo la morte di un altro giorno.

E nasce la calda sera

che sopisce lontani echi titanici

di mostruose macchine.

Tutto è fermo, tutto è quiete.

Sibilo lacerante

il silenzio mi diviene

per paradossale sovvertimento

insopportabile lamento

di una natura che muore.