I NUOVI SCHIAVI NELLE DEMOCRAZIE OCCIDENTALI
Le antiche civiltà della Grecia e di Roma fondavano la loro economia essenzialmente sul lavoro degli schiavi. E quando questi vennero a mancare crollarono le loro economie. Gli aristocratici e i patrizi, così, avevano tutto il tempo libero necessario: i primi per occuparsi della polis, delle arti, dei simposi e per filosofeggiare; i secondi per andare in giro a conquistare il mondo fino ad allora noto e a sottomettere i Galli (e non solo). Anche altri popoli, nei momenti di “massimo splendore” hanno impiegato gli schiavi per le loro grandi imprese, come ad esempio gli Egiziani che realizzarono le loro piramidi anche grazie agli schiavi Ebrei; gli americani degli Stati del Sud per la coltivazione del cotone e del tabacco, e gli Inglesi, i Francesi e gli Spagnoli, per sfruttare i territori conquistati con le loro colonizzazioni.
È certamente un’abitudine – pessima – tutta umana quella di far lavorare i propri simili, schiavizzandoli, per potersi “godere la vita”, quando, invece, sarebbe altrettanto piacevole condividere il lavoro in senso comunitario, che rafforza così anche il vincolo solidale.
Purtroppo tale forma mentis ancora persiste nelle moderne civiltà e non basta la legislazione a farla cambiare; anzi, a volte è proprio la legge che salvando soltanto la forma rende sostanzialmente possibile la schiavizzazione dei lavoratori.
Eppure è stato scientificamente dimostrato che tutta la specie umana trova la stessa fonte nell’origine universale di tutte le cose, perciò tutti i suoi appartenenti sono sostanzialmente eguali, malgrado finora l’eguaglianza sia stata da molti avversata, sia per convenienza personale, sia per ideologia.
Oggi si può ben dire che l’eguaglianza è un “dato di fatto”, che come tale precede il diritto, il quale deve intervenire solo per fissarne la regola da valere tra i consociati nell’ambito dell’ordinamento giuridico.
Chi, perciò, ha finora sostenuto che la diseguaglianza è “secondo natura”, ha colposamente (o dolosamente) errato, pur riconoscendo che soltanto gli uomini dell’ultimo secolo hanno avuto la conoscenza (tuttavia non ancora completa) delle cose della natura.
Eppure tutti gli Stati continuano a conservare intatti i propri ordinamenti costituzionali (a parte le revisioni relative agli organi di governo, di costante interesse delle oligarchie) e a legiferare come se l’eguaglianza politica e reale non esista, ritenendosi vincolati solo rispetto al principio formale dell’eguaglianza giuridica di fronte alla legge (lasciando al legislatore la discrezionalità di come e se rimuovere gli ostacoli che di fatto impediscono il pieno sviluppo della persona umana, e di introdurre le eccezioni e le deroghe alla legge per riconoscere immunità e privilegi a singoli cittadini o categorie).
La diseguaglianza “sostanziale”, pertanto, continua a permanere nelle strutture politiche e istituzionali della società “civile” in ordine alla disciplina dei rapporti tra i cittadini, e tale diseguaglianza si manifesta in modo particolare sia nella distribuzione delle risorse sia nel mercato del lavoro, dove i rapporti sono spesso riconducibili a quelli che un tempo vedevano contrapposti il padrone e lo schiavo.
E di certo non consente di superare queste disparità la sola prescrizione della “eguaglianza dinanzi alla legge” senza un’analoga previsione costituzionale che imponga anche l’eguaglianza politica e reale tra i cittadini (e così si riscontra di frequente che a parità di titoli e mansioni, sono attribuiti differenti trattamenti economici, a seconda dei diversi ambiti d’impiego, e soprattutto tra il cosiddetto “impiego pubblico” e quello “privato”, perché non esiste il parametro unico, generale e inviolabile, dello status di “lavoratore”, sebbene in Italia l’art.1 della Carta fondi la Repubblica democratica sul “lavoro” e non sui “lavoratori”, senza operare alcuna distinzione o discriminazione per categorie, funzioni o settori d’impiego).
Ne deriva, perciò, che in realtà sul piano sostanziale non vi è alcuna differenza con gli ordinamenti dei tempi antichi e fino all’abolizione della schiavitù negli Stati Uniti d’America, che ritenevano naturale la condizione dello schiavo (così come pensava Aristotele, ma anche i giuristi e i teologi della colonizzazione spagnola dell’America centrale), dal momento che nei tempi moderni essa non esiste soltanto in teoria ma è tuttora presente nei fatti, ed è sufficiente riflettere sui contratti di lavoro detti “flessibili”, che hanno generato dei lavoratori “precari a vita” la cui dignità di esseri umani è spesso violata peggio di come accadeva per gli schiavi di Babilonia; così come sono esclusi dal consorzio civile tutti coloro che non sono riusciti a trovare uno spazio lavorativo (gli inoccupati o gli eterni disoccupati), e, oggi, anche la massa enorme di profughi e clandestini che girano per l’Europa quasi tutti in balìa delle organizzazioni malavitose che li utilizzano per attività degradanti e illecite in tutti gli ambiti sociali e i diversi settori economici.
Si può per questo affermare, senza rischio di essere smentiti, che sin dagli albori la “specie umana” non è mai cambiata, ma come i virus e il camaleonte si è sempre trasformata, mutando le sembianze per adattarsi alle ideologie dei tempi, affinché gli uomini siano sempre differenziati tra “padroni e schiavi”, per consentire soltanto ai primi di godere di tutti i privilegi e i sollazzi della vita, negando ai secondi gli stessi diritti e la pari dignità sostanziale (essendo stata riconosciuta soltanto quella “legale”).
Perciò è ancora attuale la domanda: La schiavitù – intesa come ineguaglianza – troverà mai fine tra gli esseri umani ? È probabile che una risposta secondo etica imponga di dire che sicuramente essa prima o poi cesserà di esistere, ma nella realtà sarà così ?
Oggi, nel mondo, in tanti Paesi, la schiavitù è ancora praticata e non c’è modo di far cessare tale sopraffazione perché la “sovranità” degli Stati impedisce qualunque ingerenza esterna, a meno che non si vogliano compromettere le buone relazioni politiche, ma anche economiche. In alcuni casi, poi, quando essa risulti praticata da grandi potenze militari, che di frequente ne fanno uso e abuso per perseguire i loro fallaci dogmi politici o religiosi, perfino lo strumento dell’ONU appare inefficace,
per i noti veti incrociati tra gli Stati permanenti, così come, e a maggior ragione, diventano irrilevanti ed ininfluenti le eventuali proteste, sia degli altri Stati, che rischiano anche la rottura delle relazioni diplomatiche e conseguente “guerra fredda”, sia delle varie organizzazioni umanitarie. Va, poi, considerato che per poter censurare una tale condotta, lesiva dei diritti fondamentali della persona umana, è necessario essere immune da tali vizi; per cui, poiché tutti gli Stati hanno sempre qualche neo nella loro politica in materia di riconoscimento e tutela dei diritti fondamentali, civili e umani, alla fine ognuno preferisce far finta di nulla. Per questo è possibile affermare che a tutt’oggi il problema della schiavitù riguarda, in generale, tutti gli Stati, inclusi quelli occidentali, sebbene questi abbiano raggiunto un elevato grado di civiltà e democrazia nella loro organizzazione sociale e politica.
Purtroppo non si vedono all’orizzonte cambiamenti di rotta, ma non c’è dubbio che fintanto che negli Stati occidentali non saranno debellati tali fenomeni di “precariato a vita” sarà difficile che essi siano credibili rispetto a tutti quegli Stati – soprattutto dell’Est, Africani e mediorientali – che non hanno mai abbandonato la schiavitù, perché non è la forma che fa la differenza ma la sostanza.
E di certo non risolveranno il problema i provvedimenti “palliativi” come quello varato dal governo (il jobs act), visto che in Italia – a parte gli autonomi (il cui regime previdenziale e assistenziale andrebbe unificato con quello generale e pubblico) – continua a sussistere la “summa divisio” tra lavoratori pubblici dipendenti e lavoratori privati riconoscendo soltanto ai primi la dignità e gli onori di “servitori dello Stato”, come se i secondi, invece, servissero soltanto sé stessi e non la Comunità nazionale.
Eppure l’art. 3 della Costituzione, come già sopra evidenziato, sancisce che «Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale…» mentre l’art. 4, comma 2, della Costituzione dispone che «Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società».
È evidente, perciò, che tutti i lavoratori – sia pubblici che privati – sono eguali, perché tutti concorrono “al progresso materiale o spirituale della società”.
Conservare, quindi, tali distinzioni “storiche”, che risalgono all’idea dello Stato autoritario, gerarchico e centralizzato, vuol dire avere impedito alla Costituzione di adattare l’ordinamento giuridico ai nuovi principi democratici, così come aveva invitato a fare il Costituente, rimettendo alle generazioni future il compito di migliorarla in senso egualitario mediante una “dinamica progressiva della democrazia”.
Non vi è dubbio che la storia politica, economica e sociale di una Comunità sia sempre in movimento, come ha insegnato Marx, e che i mutamenti, almeno da alcuni secoli a questa parte, siano sempre stati l’effetto delle esigenze del ceto produttivo o imprenditoriale di organizzare nuovi modelli economici.
La borghesia commerciale del XIX secolo, infatti, riuscì ad abbattere il sistema feudale e aristocratico, che si dovette piegare alle nuove esigenze del commercio e del capitalismo e la seconda guerra mondiale ha portato in occidente la grande novità del riconoscimento dei diritti dei lavoratori nell’ambito dell’impresa.
Oggi però la globalizzazione ha eliminato quasi del tutto le barriere doganali realizzando il mercato unico mondiale. Grandi Paesi, come la Cina, l’India, il Brasile, hanno scelto la strada dello sviluppo e della crescita economica recependo le regole di mercato imposte dal capitalismo, su un quadro politico e istituzionale di tipo socialista e dittatoriale. La concorrenza commerciale è diventata estrema, e ormai la guerra dei prezzi si combatte sul mercato globale, dove giornalmente spariscono le aziende che non riescono più ad essere competitive. Un fattore preminente nella dinamica dei prezzi è certamente quello del costo del lavoro, della manodopera, per cui tutte le imprese si stanno orientando nel senso di ridurne gli effetti, incidendo proprio su tale fattore. Il trasferimento delle sedi aziendali sui territori di quei Paesi in cui il costo della manodopera è ridotto sta diventando una scelta strategica per molti imprenditori.
In questa guerra economica i lavoratori sono ridiventati soltanto uno strumento dell’azienda, peraltro ormai marginale dal punto di vista contrattuale, stante il progresso della robotizzazione, la grande offerta di manodopera a basso prezzo sul mercato e la notevole disoccupazione che la crisi economica ha generato.
Un indicatore del cambio di clima è stato, in Italia, la divaricazione delle linee sindacali e la rottura da parte del governo della cosiddetta “concertazione” con le forze sociali perché ritenuta un ostacolo all’esigenza di governabilità.
Il conflitto sociale, almeno oggi, vede perdenti i lavoratori, perché l’impresa è ormai diventata il vero padrone dei sistemi politici e delle istituzioni, dopo un lungo periodo storico in cui ha esercitato, mediante propri mandatari, il governo delle comunità e dell’economia.
Il passaggio storico, infatti, che si è realizzato – almeno in Italia – ha fatto registrare un rapporto privilegiato tra il governo e i ceti industriali e produttivi, nonché con il sistema creditizio. Di contro, il ruolo dei lavoratori è stato fortemente ridimensionato, e ormai lo scontro è giunto alla resa finale dei conti, almeno con quella parte residuale dei lavoratori e sindacati irriducibili che non intendono rinunziare alle conquiste finora conseguite sia nel campo salariale che della previdenza e assistenza.
Le imprese, però, probabilmente vinceranno la partita, perché è nella ciclicità della storia, e questa ha le sue regole, che non possono essere cambiate se non quando saranno state completamente soddisfatte le esigenze delle imprese. Soltanto dopo la conclusione di questo ciclo, perciò, sarà possibile recuperare il ruolo centrale dei lavoratori (e dell’uomo e dei cittadini) rispetto all’impresa, che ora può tranquillamente gustare il frutto della sua provvisoria vittoria, anche come classe, rispetto ai lavoratori, ma anche nei confronti della politica e delle istituzioni.
È, però, una vittoria di Pirro, sebbene di tempo forse ne dovrà passare abbastanza prima che s’inverta la rotta, perché la soluzione di mettere al centro del sistema l’impresa, annullando i lavoratori, ossia gli uomini, è la più grande sconfitta della Politica e, quindi, delle ragioni di stare uniti in una comunità detta “Stato”.
Nessun sistema, infatti, può avere mai alcuna dignità politica, durare nel tempo, essere considerato un valore o esprimere valori se non è al servizio dell’uomo e strumento di questo.
L’impresa, perciò, e gli imprenditori “eliocentrici” costituiscono soltanto l’esteriorizzazione di un sistema ormai malato, che si è disumanizzato, che alla fine lascerà sul campo soltanto macerie, e tutti, nessuno escluso, saranno vittime dello stesso sistema.
Occorre, per questo, recuperare il ruolo centrale degli esseri umani nel sistema, e in ogni organizzazione che la mente fervida della Morìa (мωρία) degli Uomini inventa per il loro benessere e piacere, se si vuole impedire che il mondo diventi una prigione per tutti, dove anche i carcerieri saranno prigionieri di se stessi e delle loro strutture carcerarie.
Da parte loro i lavoratori non dovranno mai rinunciare alla lotta per affermare la centralità del loro ruolo, quale esseri umani e cittadini del mondo, rispetto all’impresa e a tutte le istituzioni, ricordandosi sempre che solo essi hanno una dignità da difendere ad ogni costo e sono depositari e portatori di valori universali, e non gli ordinamenti e gli enti artificiali, che sono soltanto il prodotto di una società che ha negato se stessa coltivando il culto del futile e del voluttuario e alimentando la peggiore voracità della specie umana anziché le virtù etiche, civili e politiche.
I cittadini-lavoratori, quindi, che oggi resistono, e sono nel giusto, non dovranno perdere la speranza di vedere ri-umanizzata l’impresa e le istituzioni pubbliche, e dovranno continuare ad operare affinché questi organismi ritornino ad essere unicamente uno strumento di benessere per la Collettività e non una grande gabbia che con l’inganno, mentre proclama, come ad Auschwitz, “Arbait macht frei” (Il lavoro rende liberi), schiavizza i lavoratori e i cittadini alla follia del profitto e alle ideologie autoritarie dei governi.
Bisogna convincersi che nessuna formula dura in eterno, ma l’esperienza finora maturata dovrebbe consentire di poter rimediare agli errori individuali e collettivi che hanno impedito di poter realizzare una società, se non migliore in assoluto, almeno qualitativamente diversa per i cittadini, in generale, e per i lavoratori, in particolare, che oggi sono considerati meno di una semplice appendice del sistema produttivo organizzato dagli imprenditori.
Nei secoli passati si era affermata l’ideologia della lotta di classe con la prospettazione del conseguente avvento al potere della classe operaia, che avrebbe dovuto realizzare, così, la dittatura del proletariato.
La storia, però, è andata da tutt’altra parte, e tutto sommato per fortuna, perché non vi è idea peggiore di quella che miri a sostituire una dittatura o tirannia con altra dittatura, seppur della classe operaia, anziché immaginare di realizzare una società in cui tutti gli uomini siano liberi, eguali, solidali e consapevoli del proprio destino comune.
Il processo, però, di ridimensionamento del ruolo del capitale e dell’imprenditore rispetto agli altri fattori che concorrono nella produzione, è un’esigenza umana e sociale, per cui bisogna ripristinare i giusti rapporti tra gli esseri viventi e gli strumenti operativi. E analogo atteggiamento inclusivo dovrà essere adottato nei confronti degli altri Popoli e dei migranti ricordandosi che se Enea si fosse fermato nell’Epiro, o a Cartagine, ove approdò durante le sue peregrinazioni dopo l’abbandono di Troia, l’Italia avrebbe avuto una diversa storia, e anche
differenti istituzioni politiche, e diversi valori e princìpi come patrimonio comune del Popolo; e anche Virgilio, prediletto da Dante, non avrebbe lasciato ai posteri il suo «Canto l’armi e l’eroe che dai lontani lidi di Troia un dì profugo venne, per volontà del Fato, alle lavinie prode d’Italia».
La storia insegna che nel 212 d.C. perfino Caracalla, ricordato come l’imperatore sanguinario, che risolveva in modo radicale e senza remore i vari problemi su cui concentrava la sua attenzione, per rafforzare l’impero e il senso dell’appartenenza valutò come opportuno riconoscere la cittadinanza a tutti gli abitanti delle province e colonie romane.
Oggi in Italia, complice anche la crisi economica che ha iniettato un clima diffuso d’insicurezza nel Paese, e se si esclude qualche proposta isolata, seppur formulata dai vertici della politica, di affrontare e risolvere con un’ottica “inclusiva” il problema dei tanti immigrati presenti sul territorio, ci si sta muovendo nel senso di “ghettizzare” gli immigrati oppure di tenerli al di là dei muri innalzati lungo i confini delle frontiere (è antica la storia della costruzione dei muri, sempre, poi, abbattuti: le mura di cinta delle poleis greche, il Vallo di Adriano, il limes romano sulla sponda del Danubio, la muraglia cinese, le mura di cinta delle città medioevali con i ponti levatoi, ecc.).
Ma l’uomo è sempre pronto a sfidare la storia, perché ha la presunzione di poterle far cambiare verso e piegarla alle sue esigenze corporali. Ma egli si sbaglia, così come ha finora errato quando si è lasciato guidare dal solo istinto abbandonando la ragione, intesa, questa, come conoscenza della natura e dell’animo umano.
Oggi, come è ormai noto a tutti, grazie alle scoperte scientifiche si ha la consapevolezza che tutto ha avuto un’origine comune e che tutto avrà una fine, universo compreso.
La specie umana, in questo itinerario del ciclo della natura, ha “i giorni contati”, dal momento che tutto è in movimento e tutto cambia, affinché ciò che era all’origine ritorni ad esserlo, ossia pura energia.
Con questo spirito, quindi, ogni singolo individuo dovrà avere l’orgoglio di essere eguale a tutti e a tutto e pretendere dagli ordinamenti costituzionali che regolano la sua vita terrena una pari eguaglianza politica e reale con tutti gli altri “consorziati”.
Nessuna “schiavitù”, né fisica né morale, né tantomeno politica e istituzionale, ha qualche fondamento, perciò coloro che si trovano nella condizione d’inferiorità dovranno prendere esempio da Spartacus che s’immolò per la libertà e per la dignità.
È la specie umana cui tutti appartengono che rende tutti eguali, e ogni altra differenziazione ha soltanto lo scopo di conservare le disparità e le discriminazioni senza alcun fondamento, né scientifico né morale.
tratto da:http://ilmiolibro.kataweb.it/libro/saggistica/206851/leguaglianza-nellinizio-e-nella-fine/