I giardini di ninfee

Ma più avanti la corrente si calma, attraversa una tenuta il cui accesso era un tempo consentito al pubblico dal proprietario, che s’era dilettato d’orticoltura acquatica facendo fiorire, nei piccoli stagni formati dalla Vivonne, dei veri e propri giardini di ninfee.* Poiché, in quel punto, le rive erano molto boscose, le grandi ombre degli alberi davano all’acqua un fondo che appariva perlopiù verde cupo ma che a volte, rincasando in certe sere rasserenate dopo un temporale pomeridiano, ho visto d’un azzurro tenue e crudo, che sconfinava nel viola, rifinito come uno smalto e di gusto giapponese. Qua e là, sulla superficie, un fiore di ninfea dai bordi bianchi e dal cuore scarlatto rosseggiava come una fragola. Più oltre, i fiori erano più numerosi e più pallidi, meno lisci, più granulosi, più pieghettati, e disposti dal caso in volute così eleganti che sembrava di veder galleggiare alla deriva, come nello sfogliarsi malinconico di una festa galante, delle ghirlande sciolte di rose borraccine. Altrove, un angolo pareva riservato alle specie comuni, che mostravano il lindore bianco e roseo delle esperidi, simili a porcellane lavate con meticolosità casalinga, mentre un po’ più in là si sarebbe detto che delle viole del pensiero, strette l’una contro l’altra in una sorta di piattabanda galleggiante, fossero venute dai giardini a posare come farfalle le loro ali azzurrognole e candite sull’obliquità trasparente di quell’aiuola d’acqua; aiuola celeste, anche, giacché il colore che creava in sottofondo ai fiori era più prezioso, più commovente di quello stesso dei fiori; e sia che facesse scintillare sotto le ninfee, nel pomeriggio, il caleidoscopio di una felicità attenta, mobile e silenziosa, sia che si colmasse verso sera, come certi porti lontani, del rosa sognante del tramonto, cambiando di continuo per rimanere sempre in accordo, intorno alle corolle dalle tinte più stabili, con quel che c’è di più profondo, di più fuggevole, di più misterioso – con quel che c’è d’infinito – nell’ora, sembrava che li avesse fatti fiorire in pieno cielo.

[Marcel Proust, Alla Ricerca del tempo perdutoDalla parte di Swann, traduzione di Giovanni Raboni, I Meridiani Mondadori ] pp. 206-207

Patrimoine : sur les pas de Marcel Proust à Illiers-Combray - Le Parisien

*È una diretta allusione al giardino (ancor oggi visitabile) di proprietà dello zio Jules Amiot a Illiers, assunto da Proust come modello anche per il parco di Swann.

Mais plus loin le courant se ralentit, il traverse une propriété dont l’accès était ouvert au public par celui à qui elle appartenait et qui s’y était complu à des travaux d’horticulture aquatique, faisant fleurir, dans les petits étangs que forme la Vivonne, de véritables jardins de nymphéas. Comme les rives étaient à cet endroit très boisées, les grandes ombres des arbres donnaient à l’eau un fond qui était habituellement d’un vert sombre mais que parfois, quand nous rentrions par certains soirs rassérénés d’après-midi orageux, j’ai vu d’un bleu clair et cru, tirant sur le violet, d’apparence cloisonnée et de goût japonais. Çà et là, à la surface, rougissait comme une fraise une fleur de nymphéa au coeur écarlate, blanc sur les bords. Plus loin, les fleurs plus nombreuses étaient plus pâles, moins lisses, plus grenues, plus plissées, et disposées par le hasard en enroulements si gracieux qu’on croyait voir flotter à la dérive, comme après l’effeuillement mélancolique d’une fête galante, des roses mousseuses en guirlandes dénouées. Ailleurs un coin semblait réservé aux espèces communes qui montraient le blanc et le rose proprets de la julienne, lavés comme de la porcelaine avec un soin domestique, tandis qu’un peu plus loin, pressées les unes contre les autres en une véritable plate-bande flottante, on eût dit des pensées des jardins qui étaient venues poser comme des papillons leurs ailes bleuâtres et glacées, sur l’obliquité transparente de ce parterre d’eau ; de ce parterre céleste aussi : car il donnait aux fleurs un sol d’une couleur plus précieuse, plus émouvante que la couleur des fleurs elles-mêmes ; et, soit que pendant l’après-midi il fît étinceler sous les nymphéas le kaléidoscope d’un bonheur attentif, silencieux et mobile, ou qu’il s’emplît vers le soir, comme quelque port lointain, du rose et de la rêverie du couchant, changeant sans cesse pour rester toujours en accord, autour des corolles de teintes plus fixes, avec ce qu’il y a de plus profond, de plus fugitif, de plus mystérieux – avec ce qu’il y a d’infini – dans l’heure, il semblait les avoir fait fleurir en plein ciel.

Marcel Proust, Du côté de chez Swann

Il nenufaro e i nevrastenici

Le piante acquatiche non tardano a ostruire il corso della Vivonne. Si cominciava a incontrarne di isolate, come un certo nenufaro al quale la corrente, dove era situato di traverso in modo assai infelice, lasciava così poca requie che, come un traghetto azionato meccanicamente, toccava una riva solo per tornare a quella dalla quale era venuto, rifacendo all’infinito la doppia traversata. Spinto verso la riva, il suo peduncolo si dispiegava, s’allungava, filava, raggiungeva il limite estremo della propria tensione fino alla sponda dove, ripreso dalla corrente, il verde cordame si ripiegava su se stesso e riportava la povera pianta a quello che si poteva ben chiamare il suo punto di partenza, visto ch’essa non ci restava neppure un istante ma ripartiva immediatamente per una ripetizione identica della manovra. La ritrovavo da una passeggiata all’altra, sempre nella stessa situazione che faceva pensare a certi nevrastenici, fra i quali mio nonno annoverava zia Léonie, che nel corso degli anni ci offrono senza mutamenti lo spettacolo delle abitudini stravaganti dalle quali si credono sempre sul punto di liberarsi e che invece regolarmente mantengono; presi nell’ingranaggio dei loro disturbi e delle loro manie, gli sforzi in cui si dibattono invano per evaderne non fanno che assicurare il funzionamento e far scattare il congegno della loro dietetica bizzarra, ineluttabile e funesta. Tale era il nenufaro, simile inoltre a uno di quegli infelici il cui singolare tormento, che si ripete all’infinito nell’eternità, eccitava la curiosità di Dante, il quale se ne sarebbe fatto raccontare più diffusamente le particolarità e la causa dallo stesso suppliziato se Virgilio, allontanandosi a grandi passi, non l’avesse costretto a raggiungerlo in tutta fretta, come i miei parenti facevano con me.

[Marcel Proust, Alla Ricerca del tempo perdutoDalla parte di Swann, traduzione di Giovanni Raboni, I Meridiani Mondadori ] pp. 205-206

Bientôt le cours de la Vivonne s’obstrue de plantes d’eau. Il y en a d’abord d’isolées comme tel nénuphar à qui le courant au travers duquel il était placé d’une façon malheureuse laissait si peu de repos que comme un bac actionné mécaniquement il n’abordait une rive que pour retourner à celle d’où il était venu, refaisant éternellement la double traversée. Poussé vers la rive, son pédoncule se dépliait, s’allongeait, filait, atteignait l’extrême limite de sa tension jusqu’au bord où le courant le reprenait, le vert cordage se repliait sur lui-même et ramenait la pauvre plante à ce qu’on peut d’autant mieux appeler son point de départ qu’elle n’y restait pas une seconde sans en repartir par une répétition de la même manoeuvre. Je la retrouvais de promenade en promenade, toujours dans la même situation, faisant penser à certains neurasthéniques au nombre desquels mon grand-père comptait ma tante Léonie, qui nous offrent sans changement au cours des années le spectacle des habitudes bizarres qu’ils se croient chaque fois à la veille de secouer et qu’ils gardent toujours ; pris dans l’engrenage de leurs malaises et de leurs manies, les efforts dans lesquels ils se débattent inutilement pour en sortir ne font qu’assurer le fonctionnement et faire jouer le déclic de leur diététique étrange, inéluctable et funeste. Tel était ce nénuphar, pareil aussi à quelqu’un de ces malheureux dont le tourment singulier, qui se répète indéfiniment durant l’éternité, excitait la curiosité de Dante et dont il se serait fait raconter plus longuement les particularités et la cause par le supplicié lui-même, si Virgile, s’éloignant à grands pas, ne l’avait forcé à le rattraper au plus vite, comme moi mes parents.

Marcel Proust, Du côté de chez Swann

Mademoiselle Vinteuil tra sadismo, crudeltà e blasfemia

È da un’impressione provata nei pressi di Montjouvain, qualche anno più tardi, impressione rimasta allora oscura, che è forse nata, molto tempo dopo, l’idea che mi son fatta del sadismo. Si vedrà poi che, per tutt’altre ragioni, il ricordo di questa impressione era destinato a svolgere un ruolo importante nella mia vita. Faceva molto caldo; i miei genitori, che avevano dovuto assentarsi per tutta la giornata, mi avevano detto di tornare tardi quanto volessi; e arrivato fino allo stagno di Montjouvain, dove amavo rivedere i riflessi del tetto di tegole, m’ero steso all’ombra e addormentato fra i cespugli della scarpata che domina la casa, nello stesso luogo dove avevo aspettato mio padre un giorno che era andato a trovare il signor Vinteuil. Era quasi buio quando mi svegliai, feci per alzarmi, ma scorsi Mademoiselle Vinteuil (per quanto almeno mi riuscì di riconoscerla, giacché non l’avevo vista spesso a Combray, e solo quand’era ancora bambina, mentre adesso cominciava a essere una ragazza), che probabilmente era appena rientrata, di fronte a me, a pochi centimetri da me, in quella stanza dove suo padre aveva ricevuto il mio e che lei aveva trasformata in un suo salottino. La finestra era socchiusa, la lampada accesa, vedevo tutti i suoi movimenti senza che lei mi vedesse, ma se me ne fossi andato avrei fatto rumore nei cespugli, lei mi avrebbe sentito e avrebbe potuto pensare che m’ero nascosto là per spiarla.

Era in lutto stretto, perché suo padre era morto da poco. Non eravamo andati a farle visita, mia madre non lo aveva voluto in nome d’una virtù che era la sola, in lei, a limitare gli effetti della bontà: il pudore; ma la compiangeva profondamente. Mia madre ricordava com’era stata triste, alla fine, la vita del signor Vinteuil, tutta assorbita, prima, dalle attenzioni da madre e da governante che aveva per sua figlia, poi dalle sofferenze che questa gli aveva inflitte; rivedeva il volto torturato, quello che era sempre stato, da ultimo, il volto del vecchio; sapeva come avesse rinunciato per sempre alla trascrizione in bella copia di tutta la sua opera degli ultimi anni, povere composizioni d’un anziano professore di piano, d’un vecchio organista di villaggio, delle quali immaginavamo, certo, che avessero ben poco valore in se stesse, ma che non disprezzavamo perché ne avevano tanto per lui ed erano state la sua ragione di vita prima che le sacrificasse alla figlia: per la maggior parte, nemmeno annotate, conservate solo nella sua memoria, alcune buttate giù su foglietti sparsi, illeggibili, sarebbero rimaste ignote; pensava anche, mia madre, a quell’altra rinuncia a un avvenire di felicità onesta e rispettata per sua figlia; quando rievocava, così, l’estremo sfacelo dell’ex-maestro di piano delle mie zie, la mamma provava un’autentica pena, e pensava con spavento a quella, ben altrimenti amara, che doveva provare Mademoiselle Vinteuil, una pena alla quale si intrecciava il rimorso di avere press’a poco ucciso suo padre. “Povero signor Vinteuil, diceva, ha vissuto ed è morto per sua figlia, senza riceverne compenso. Glielo daranno dopo la sua morte, e in quale forma? Soltanto lei potrebbe”.

In fondo al salotto di Mademoiselle Vinteuil, sul camino, era posato un piccolo ritratto di suo padre che lei s’affrettò a prendere non appena dalla strada giunse il rumore di una carrozza, poi si gettò su un divano e a questo avvicinò un tavolino sul quale sistemò il ritratto, così come Vinteuil, quella volta, aveva deposto accanto a sé lo spartito del pezzo che avrebbe voluto far ascoltare ai miei genitori. Subito dopo entrò la sua amica. Mademoiselle Vinteuil l’accolse senza alzarsi, le mani incrociate dietro la testa, e si spostò sul lato opposto del sofà per farle posto. Ma immediatamente si accorse che in quel modo sembrava volerle imporre un atteggiamento che le era forse sgradito. Pensò che la sua amica avrebbe forse preferito star lontana da lei, su una sedia, si giudicò indiscreta, la delicatezza del suo animo ne rimase turbata; riprendendo tutto intero il posto sul sofà chiuse gli occhi e si mise a sbadigliare, per far intendere che la voglia di dormire era l’unica ragione per la quale si era sdraiata. Nonostante la familiarità rude e imperiosa che la legava alla sua compagna, riconoscevo in lei i gesti ossequiosi e reticenti, i bruschi scrupoli di suo padre. Ben presto si alzò, finse di voler chiudere le imposte e di non riuscirci.

– Lascia pure aperto, ho caldo, disse l’amica.

– Ma è seccante, ci vedranno, rispose Mademoiselle Vinteuil.

Ma dovette certo immaginare che l’amica avrebbe pensato che le aveva detto quelle parole soltanto per provocarla e replicare con altre, che in effetti lei desiderava sentire ma che, per discrezione, voleva lasciar pronunciare all’altra di sua iniziativa. E così il suo sguardo, che io non riuscivo a distinguere, dovette assumere l’espressione che piaceva tanto alla mia nonna mentre lei s’affrettava ad aggiungere:

– Quando dico vederci, voglio dire vederci leggere; è seccante, anche se si fa qualcosa di insignificante, pensare che degli occhi ci guardino.

Per generosità istintiva, per gentilezza involontaria, taceva le parole premeditate che aveva ritenuto indispensabili alla completa realizzazione del suo desiderio. E continuamente, in fondo al suo cuore, una vergine timida e supplice implorava e teneva a bada un soldataccio rozzo e prepotente.

– Sì, è davvero probabile che qualcuno ci veda a quest’ora, in questa campagna così frequentata, disse ironicamente l’amica. E poi » aggiunse (e pensò bene di accompagnare con un ammicco tenero e malizioso queste parole che recitava per bontà, come un testo che sapeva gradito a Mademoiselle Vinteuil, in un tono che si sforzava di rendere cinico) « e poi, se anche ci vedono, tanto meglio. »

Mademoiselle Vinteuil fremette e si alzò. Il suo cuore scrupoloso e sensibile ignorava le parole che si sarebbero spontaneamente adattate alla scena reclamata dai suoi sensi. Cercava, il più lontano possibile dalla sua autentica natura morale, il modo d’esprimersi tipico della ragazza viziosa che desiderava essere, ma le parole che quella, secondo lei, avrebbe pronunciate con franchezza le sembravano false nella sua bocca. E il poco che alla fine se ne concedeva era detto in un tono affettato, nella quale la radicata timidezza paralizzava le velleità d’audacia e si mescolava ai “Non hai freddo, non hai troppo caldo, non preferisci star sola, non hai voglia di leggere?”.

– Mi sembra che Mademoiselle abbia dei pensieri alquanto lubrici, stasera, finì col dire, ripetendo certo una frase udita qualche altra volta dalla bocca dell’amica.

Nello scollo della sua camicetta di crespo, Mademoiselle Vinteuil sentì che l’amica appuntava un bacio; lanciò un piccolo grido, fuggì, e le due si inseguirono saltando, facendo svolazzare come ali le loro ampie maniche e chiocciando e pigolando come uccelli in amore. Poi Mademoiselle Vinteuil si lasciò cadere sul divano, coperta dal corpo dell’amica. Ma questa volgeva la schiena al tavolino sul quale era stato posato il ritratto del vecchio professore di piano. Mademoiselle Vinteuil capì che l’amica non l’avrebbe visto se lei non vi avesse attirato la sua attenzione, e le disse, come se solo allora l’avesse notato:

– Oh, quel ritratto di mio padre che ci guarda, vorrei sapere chi ce l’ha messo, ho detto mille volte che non è quello il suo posto.

Mi ricordai che le stesse parole aveva detto Vinteuil a mio padre a proposito dello spartito. Certo quel ritratto doveva servire loro abitualmente per qualche profanazione rituale, perché l’amica replicò con queste parole che dovevano far parte delle sue risposte liturgiche:

– Ma lascialo dov’è, tanto lui non è più qui a levarci il fiato. Te l’immagini come frignerebbe, come insisterebbe per farti mettere il mantello, quella brutta scimmia, se ti vedesse qui con la finestra aperta?

Mademoiselle Vinteuil rispose con parole di dolce rimprovero: “Ma no, via”, che testimoniavano la bontà della sua indole, non perché fossero dettate dall’indignazione per quel modo di riferirsi a suo padre (evidentemente era questo un sentimento che s’era abituata, con l’aiuto di quali sofismi?, a far tacere dentro di sé in quei determinati momenti), ma perché costituivano una specie di freno che, per non mostrarsi egoista, imponeva lei stessa al piacere che l’amica cercava di procurarle. E poi, forse, questa moderazione sorridente nel rispondere a quelle bestemmie, questo rimprovero tenero e ipocrita, apparivano alla sua natura buona e schietta come una forma particolarmente infame, una forma melliflua della scelleratezza che cercava di assimilare. Ma non poté resistere alla seduzione del piacere che avrebbe provato nel venir trattata con dolcezza da una persona così implacabile verso un morto indifeso; e, saltata sulle ginocchia dell’amica, le tese castamente la fronte da baciare, come avrebbe potuto fare se fosse stata sua figlia, godendo nel sentire che in quel modo si spingevano entrambe all’estremo della crudeltà sottraendo a Vinteuil, fin nella tomba, la sua paternità.

L’amica le prese la testa fra le mani e depose un bacio sulla sua fronte con una docilità che le era resa facile dal grande affetto per Mademoiselle Vinteuil e dal desiderio di offrire un po’ di distrazione alla sua triste vita di orfana.

– Sai cosa mi vien voglia di fargli, a quel vecchio mostro? disse prendendo il ritratto.

E mormorò all’orecchio di Mademoiselle Vinteuil qualcosa che non potei udire.

– Oh no, non ne avresti il coraggio.

– Non avrei il coraggio di sputarci sopra? su questo? disse l’amica con deliberata brutalità.

Non sentii altro, perché Mademoiselle Vinteuil, con un’aria stanca, goffa, onesta, triste e affaccendata, venne a chiudere le imposte e la finestra, ma sapevo ormai, per tutte le sofferenze che Vinteuil aveva sopportate in vita a causa di sua figlia, qual era il compenso che da lei riceveva dopo la morte.

E tuttavia, più tardi, ho riflettuto che se il signor Vinteuil avesse potuto assistere a quella scena, forse non avrebbe ancora perso la propria fede nel buon cuore di sua figlia, e non avrebbe neanche avuto, forse, del tutto torto. Certo, nelle abitudini di Mademoiselle Vinteuil l’apparenza del male era così compatta che sarebbe stato difficile trovarla, condotta allo stesso grado di perfezione, altrove che in un sadico; è alla luce della ribalta di un teatro di boulevard, piuttosto che a quella della lampada di un’autentica dimora di campagna, che è dato vedere una ragazza far sputare da un’amica sul ritratto di un padre vissuto soltanto per lei; e alla fine non c’è che il sadismo a dare un fondamento nella vita all’estetica del melodramma. Nella realtà, a parte i casi di sadismo, una ragazza potrebbe anche commettere, verso la memoria e le volontà del padre morto, mancanze non meno crudeli di quelle di Mademoiselle Vinteuil, ma non le riassumerebbe mai espressamente in un atto d’un simbolismo altrettanto ingenuo e rudimentale; quel che di criminale ci fosse nel suo comportamento resterebbe più velato agli occhi degli altri e persino agli occhi di lei, che farebbe il male senza confessarlo a se stessa. Ma, al di là dell’apparenza, nel cuore di Mademoiselle Vinteuil il male non fu, almeno all’inizio, disgiunto da altri moventi. Una sadica come lei è un’artista del male, ciò che una creatura interamente malvagia non potrebbe mai essere, perché il male non le risulterebbe più estraneo, le sembrerebbe del tutto naturale, non si distinguerebbe nemmeno dalla sua persona; e la virtù, la memoria dei morti, la tenerezza filiale, non proverebbe alcun piacere sacrilego a profanarle, perché non ne avrebbe il culto. I sadici della specie di Mademoiselle Vinteuil sono esseri così puramente sentimentali, così naturalmente virtuosi, che persino il piacere sensuale appare loro come qualcosa di malvagio, come il privilegio dei cattivi. E quando si concedono d’indulgervi per un momento, è nella pelle dei cattivi che si sforzano di far entrare il loro complice, così da avere per un poco l’illusione di evadere dalla loro anima tenera e scrupolosa per penetrare nel mondo inumano del piacere. E io capivo quanto lei l’avrebbe desiderato vedendo come le era impossibile riuscirci. Nel momento in cui si voleva così diversa da suo padre, quel che mi rammentava era il modo di pensare, di parlare del vecchio professore di piano. Ben più della fotografia, quel che lei profanava, quel che metteva al servizio dei suoi piaceri, quel che restava fra lei e loro e le impediva di gustarli direttamente, era la somiglianza del suo volto, gli occhi azzurri della nonna paterna che lui le aveva trasmessi come un gioiello di famiglia, quei gesti gentili che insinuavano fra Mademoiselle Vinteuil e il suo vizio una fraseologia, una mentalità che non erano fatte per il vizio e che le impedivano di conoscerlo come qualcosa di sostanzialmente diverso dai numerosi doveri di cortesia ai quali di norma si consacrava. Non era il male a darle l’idea del piacere, a sembrarle piacevole; era il piacere a sembrarle maligno. E poiché, ogni volta che vi si abbandonava, s’accompagnava per lei a cattivi pensieri per il resto assenti dal suo animo virtuoso, il piacere finiva con l’apparirle come qualcosa di diabolico, identificandosi con il Male. Forse Mademoiselle Vinteuil sentiva che, nel fondo, la sua amica non era cattiva, e che non era sincera quando le faceva quei discorsi blasfemi. Ma aveva almeno il piacere di baciare sul suo volto dei sorrisi, degli sguardi magari finti, ma analoghi nella loro espressione abietta e viziosa a quelli che avrebbe potuto trovare in una creatura, non di bontà e sofferenza, ma di crudeltà e piacere. Poteva immaginare, per un istante, di fare sul serio i giochi che avrebbe fatti con una complice tanto snaturata da provare veramente quei sentimenti barbari verso la memoria di suo padre. Forse non avrebbe pensato al male come a uno stato così raro, così straordinario, così vertiginoso, dov’era così riposante rifugiarsi, se avesse saputo cogliere in se stessa, come in tutti, quell’indifferenza alle sofferenze da noi provocate che è, comunque la si voglia chiamare, la forma terribile e permanente della crudeltà.

[Marcel Proust, Alla Ricerca del tempo perdutoDalla parte di Swann, traduzione di Giovanni Raboni, I Meridiani Mondadori ] pp. 193-201

ALLA RICERCA DEL TEMPO PERDUTO - Pagina 2 di 104 - Dicono che la bellezza sia una promessa di felicità. Inversamente, la possibilità del piacere può essere un inizio di bellezza. Marcel Proust

C’est peut-être d’une impression ressentie aussi auprès de Montjouvain, quelques années plus tard, impression restée obscure alors, qu’est sortie, bien après, l’idée que je me suis faite du sadisme. On verra plus tard que, pour de tout autres raisons, le souvenir de cette impression devait jouer un rôle important dans ma vie. C’était par un temps très chaud ; mes parents, qui avaient dû s’absenter pour toute la journée, m’avaient dit de rentrer aussi tard que je voudrais ; et étant allé jusqu’à la mare de Montjouvain où j’aimais revoir les reflets du toit de tuile, je m’étais étendu à l’ombre et endormi dans les buissons du talus qui domine la maison, là où j’avais attendu mon père autrefois, un jour qu’il était allé voir M. Vinteuil. Il faisait presque nuit quand je m’éveillai, je voulus me lever, mais je vis Mlle Vinteuil (autant que je pus la reconnaître, car je ne l’avais pas vue souvent à Combray, et seulement quand elle était encore une enfant, tandis qu’elle commençait d’être une jeune fille) qui probablement venait de rentrer, en face de moi, à quelques centimètres de moi, dans cette chambre où son père avait reçu le mien et dont elle avait fait son petit salon à elle. La fenêtre était entrouverte, la lampe était allumée, je voyais tous ses mouvements sans qu’elle me vît, mais en m’en allant j’aurais fait craquer les buissons, elle m’aurait entendu et elle aurait pu croire que je m’étais caché là pour l’épier.

Elle était en grand deuil, car son père était mort depuis peu. Nous n’étions pas allés la voir, ma mère ne l’avait pas voulu à cause d’une vertu qui chez elle limitait seule les effets de la bonté : la pudeur ; mais elle la plaignait profondément. Ma mère se rappelait la triste fin de vie de M. Vinteuil, tout absorbée d’abord par les soins de mère et de bonne d’enfant qu’il donnait à sa fille, puis par les souffrances que celle-ci lui avait causées ; elle revoyait le visage torturé qu’avait eu le vieillard tous les derniers temps ; elle savait qu’il avait renoncé à jamais à achever de transcrire au net toute son oeuvre des dernières années, pauvres morceaux d’un vieux professeur de piano, d’un ancien organiste de village dont nous imaginions bien qu’ils n’avaient guère de valeur en eux-mêmes, mais que nous ne méprisions pas parce qu’ils en avaient tant pour lui dont ils avaient été la raison de vivre avant qu’il les sacrifiât à sa fille, et qui pour la plupart pas même notés, conservés seulement dans sa mémoire, quelques-uns inscrits sur des feuillets épars, illisibles, resteraient inconnus ; ma mère pensait à cet autre renoncement plus cruel encore auquel M. Vinteuil avait été contraint, le renoncement à un avenir de bonheur honnête et respecté pour sa fille ; quand elle évoquait toute cette détresse suprême de l’ancien maître de piano de mes tantes, elle éprouvait un véritable chagrin et songeait avec effroi à celui autrement amer que devait éprouver Mlle Vinteuil tout mêlé du remords d’avoir à peu près tué son père. « Pauvre M. Vinteuil, disait ma mère, il a vécu et il est mort pour sa fille, sans avoir reçu son salaire. Le recevra-t-il après sa mort et sous quelle forme ? Il ne pourrait lui venir que d’elle. »

Au fond du salon de Mlle Vinteuil, sur la cheminée était posé un petit portrait de son père que vivement elle alla chercher au moment où retentit le roulement d’une voiture qui venait de la route, puis elle se jeta sur un canapé, et tira près d’elle une petite table sur laquelle elle plaça le portrait, comme M. Vinteuil autrefois avait mis à côté de lui le morceau qu’il avait le désir de jouer à mes parents. Bientôt son amie entra. Mlle Vinteuil l’accueillit sans se lever, ses deux mains derrière la tête et se recula sur le bord opposé du sofa comme pour lui faire une place. Mais aussitôt elle sentit qu’elle semblait ainsi lui imposer une attitude qui lui était peut-être importune. Elle pensa que son amie aimerait peut-être mieux être loin d’elle sur une chaise, elle se trouva indiscrète, la délicatesse de son coeur s’en alarma ; reprenant toute la place sur le sofa elle ferma les yeux et se mit à bâiller pour indiquer que l’envie de dormir était la seule raison pour laquelle elle s’était ainsi étendue. Malgré la familiarité rude et dominatrice qu’elle avait avec sa camarade, je reconnaissais les gestes obséquieux et réticents, les brusques scrupules de son père. Bientôt elle se leva, feignit de vouloir fermer les volets et de n’y pas réussir.

« Laisse donc tout ouvert, j’ai chaud, dit son amie.

— Mais c’est assommant, on nous verra », répondit Mlle Vinteuil.

Mais elle devina sans doute que son amie penserait qu’elle n’avait dit ces mots que pour la provoquer à lui répondre par certains autres qu’elle avait en effet le désir d’entendre, mais que par discrétion elle voulait lui laisser l’initiative de prononcer. Aussi son regard que je ne pouvais distinguer, dut-il prendre l’expression qui plaisait tant à ma grand-mère, quand elle ajouta vivement :

« Quand je dis nous voir, je veux dire nous voir lire, c’est assommant, quelque chose insignifiante qu’on fasse, de penser que des yeux vous voient. »

Par une générosité instinctive et une politesse involontaire elle taisait les mots prémédités qu’elle avait jugés indispensables à la pleine réalisation de son désir. Et à tous moments au fond d’elle-même une vierge timide et suppliante implorait et faisait reculer un soudard fruste et vainqueur.

« Oui, c’est probable qu’on nous regarde à cette heure-ci, dans cette campagne fréquentée, dit ironiquement son amie. Et puis quoi ? » ajouta-t-elle (en croyant devoir accompagner d’un clignement d’yeux malicieux et tendre, ces mots qu’elle récita par bonté, comme un texte qu’elle savait être agréable à Mlle Vinteuil, d’un ton qu’elle s’efforçait de rendre cynique) « quand même on nous verrait ce n’en est que meilleur. »

Mlle Vinteuil frémit et se leva. Son coeur scrupuleux et sensible ignorait quelles paroles devaient spontanément venir s’adapter à la scène que ses sens réclamaient. Elle cherchait le plus loin qu’elle pouvait de sa vraie nature morale, à trouver le langage propre à la fille vicieuse qu’elle désirait d’être, mais les mots qu’elle pensait que celle-ci eût prononcés sincèrement lui paraissaient faux dans sa bouche. Et le peu qu’elle s’en permettait était dit sur un ton guindé où ses habitudes de timidité paralysaient ses velléités d’audace, et s’entremêlait de : « tu n’as pas froid, tu n’as pas trop chaud, tu n’as pas envie d’être seule et de lire ? »

« Mademoiselle me semble avoir des pensées bien lubriques, ce soir », finit-elle par dire, répétant sans doute une phrase qu’elle avait entendue autrefois dans la bouche de son amie.

Dans l’échancrure de son corsage de crêpe Mlle Vinteuil sentit que son amie piquait un baiser, elle poussa un petit cri, s’échappa, et elles se poursuivirent en sautant, faisant voleter leurs larges manches comme des ailes et gloussant et piaillant comme des oiseaux amoureux. Puis Mlle Vinteuil finit par tomber sur le canapé, recouverte par le corps de son amie. Mais celle-ci tournait le dos à la petite table sur laquelle était placé le portrait de l’ancien professeur de piano. Mlle Vinteuil comprit que son amie ne le verrait pas si elle n’attirait pas sur lui son attention, et elle lui dit, comme si elle venait seulement de le remarquer :

« Oh ! ce portrait de mon père qui nous regarde, je ne sais pas qui a pu le mettre là, j’ai pourtant dit vingt fois que ce n’était pas sa place. »

Je me souvins que c’étaient les mots que M. Vinteuil avait dits à mon père à propos du morceau de musique. Ce portrait leur servait sans doute habituellement pour des profanations rituelles, car son amie lui répondit par ces paroles qui devaient faire partie de ses réponses liturgiques :

« Mais laisse-le donc où il est, il n’est plus là pour nous embêter. Crois-tu qu’il pleurnicherait, qu’il voudrait te mettre ton manteau, s’il te voyait là, la fenêtre ouverte, le vilain singe. »

Mlle Vinteuil répondit par des paroles de doux reproche : « Voyons, voyons », qui prouvaient la bonté de sa nature, non qu’elles fussent dictées par l’indignation que cette façon de parler de son père eût pu lui causer (évidemment c’était là un sentiment qu’elle s’était habituée, à l’aide de quels sophismes ? à faire taire en elle dans ces minutes-là), mais parce qu’elles étaient comme un frein que pour ne pas se montrer égoïste elle mettait elle-même au plaisir que son amie cherchait à lui procurer. Et puis cette modération souriante en répondant à ces blasphèmes, ce reproche hypocrite et tendre, paraissaient peut-être à sa nature franche et bonne, une forme particulièrement infâme, une forme doucereuse de cette scélératesse qu’elle cherchait à s’assimiler. Mais elle ne put résister à l’attrait du plaisir qu’elle éprouverait à être traitée avec douceur par une personne si implacable envers un mort sans défense ; elle sauta sur les genoux de son amie, et lui tendit chastement son front à baiser comme elle aurait pu faire si elle avait été sa fille, sentant avec délices qu’elles allaient ainsi toutes deux au bout de la cruauté en ravissant à M. Vinteuil, jusque dans le tombeau, sa paternité. Son amie lui prit la tête entre ses mains et lui déposa un baiser sur le front avec cette docilité que lui rendait facile la grande affection qu’elle avait pour Mlle Vinteuil et le désir de mettre quelque distraction dans la vie si triste maintenant de l’orpheline.

« Sais-tu ce que j’ai envie de lui faire à cette vieille horreur ? » dit-elle en prenant le portrait.

Et elle murmura à l’oreille de Mlle Vinteuil quelque chose que je ne pus entendre.

« Oh ! tu n’oserais pas.

— Je n’oserais pas cracher dessus ? sur ça ? » dit l’amie avec une brutalité voulue.

Je n’en entendis pas davantage, car Mlle Vinteuil, d’un air las, gauche, affairé, honnête et triste vint fermer les volets et la fenêtre, mais je savais maintenant, pour toutes les souffrances que pendant sa vie M. Vinteuil avait supportées à cause de sa fille, ce qu’après la mort il avait reçu d’elle en salaire.

Et pourtant j’ai pensé depuis que si M. Vinteuil avait pu assister à cette scène, il n’eût peut-être pas encore perdu sa foi dans le bon coeur de sa fille, et peut-être même n’eût-il pas eu en cela tout à fait tort. Certes, dans les habitudes de Mlle Vinteuil l’apparence du mal était si entière qu’on aurait eu de la peine à la rencontrer réalisée à ce degré de perfection ailleurs que chez une sadique ; c’est à la lumière de la rampe des théâtres du boulevard plutôt que sous la lampe d’une maison de campagne véritable qu’on peut voir une fille faire cracher une amie sur le portrait d’un père qui n’a vécu que pour elle ; et il n’y a guère que le sadisme qui donne un fondement dans la vie à l’esthétique du mélodrame. Dans la réalité, en dehors des cas de sadisme, une fille aurait peut-être des manquements aussi cruels que ceux de Mlle Vinteuil envers la mémoire et les volontés de son père mort, mais elle ne les résumerait pas expressément en un acte d’un symbolisme aussi rudimentaire et aussi naïf ; ce que sa conduite aurait de criminel serait plus voilé aux yeux des autres et même à ses yeux à elle qui ferait le mal sans se l’avouer. Mais, au-delà de l’apparence, dans le coeur de Mlle Vinteuil, le mal, au début du moins, ne fut sans doute pas sans mélange. Une sadique comme elle est l’artiste du mal, ce qu’une créature entièrement mauvaise ne pourrait être car le mal ne lui serait pas extérieur, il lui semblerait tout naturel, ne se distinguerait même pas d’elle ; et la vertu, la mémoire des morts, la tendresse filiale, comme elle n’en aurait pas le culte, elle ne trouverait pas un plaisir sacrilège à les profaner. Les sadiques de l’espèce de Mlle Vinteuil sont des êtres si purement sentimentaux, si naturellement vertueux que même le plaisir sensuel leur paraît quelque chose de mauvais, le privilège des méchants. Et quand ils se concèdent à eux-mêmes de s’y livrer un moment, c’est dans la peau des méchants qu’ils tâchent d’entrer et de faire entrer leur complice, de façon à avoir eu un moment l’illusion de s’être évadés de leur âme scrupuleuse et tendre, dans le monde inhumain du plaisir. Et je comprenais combien elle l’eût désiré en voyant combien il lui était impossible d’y réussir. Au moment où elle se voulait si différente de son père, ce qu’elle me rappelait c’était les façons de penser, de dire, du vieux professeur de piano. Bien plus que sa photographie, ce qu’elle profanait, ce qu’elle faisait servir à ses plaisirs mais qui restait entre eux et elle et l’empêchait de les goûter directement, c’était la ressemblance de son visage, les yeux bleus de sa mère à lui qu’il lui avait transmis comme un bijou de famille, ces gestes d’amabilité qui interposaient entre le vice de Mlle Vinteuil et elle une phraséologie, une mentalité qui n’était pas faite pour lui et l’empêchait de le connaître comme quelque chose de très différent des nombreux devoirs de politesse auxquels elle se consacrait d’habitude. Ce n’est pas le mal qui lui donnait l’idée du plaisir, qui lui semblait agréable ; c’est le plaisir qui lui semblait malin. Et comme chaque fois qu’elle s’y adonnait il s’accompagnait pour elle de ces pensées mauvaises qui le reste du temps étaient absentes de son âme vertueuse, elle finissait par trouver au plaisir quelque chose de diabolique, par l’identifier au Mal. Peut-être Mlle Vinteuil sentait-elle que son amie n’était pas foncièrement mauvaise, et qu’elle n’était pas sincère au moment où elle lui tenait ces propos blasphématoires. Du moins avait-elle le plaisir d’embrasser sur son visage, des sourires, des regards, feints peut-être, mais analogues dans leur expression vicieuse et basse à ceux qu’aurait eus non un être de bonté et de souffrance, mais un être de cruauté et de plaisir. Elle pouvait s’imaginer un instant qu’elle jouait vraiment les jeux qu’eût joués avec une complice aussi dénaturée, une fille qui aurait ressenti en effet ces sentiments barbares à l’égard de la mémoire de son père. Peut-être n’eût-elle pas pensé que le mal fût un état si rare, si extraordinaire, si dépaysant, où il était si reposant d’émigrer, si elle avait su discerner en elle comme en tout le monde, cette indifférence aux souffrances qu’on cause et qui, quelques autres noms qu’on lui donne, est la forme terrible et permanente de la cruauté.

Marcel Proust, Du côté de chez Swann

Senza una contadina da baciare

E fra terra e creature non facevo distinzione. Avevo desiderio di una contadina di Méséglise o di Roussainville, di una pescatrice di Balbec, come avevo desiderio di Méséglise e di Balbec. Il piacere ch’esse potevano darmi mi sarebbe parso meno vero, non sarei riuscito a crederci, se ne avessi modificate a mio arbitrio le condizioni. Conoscere a Parigi una pescatrice di Balbec o una contadina di Méséglise, sarebbe stato come ricevere delle conchiglie non viste da me sulla spiaggia, una felce non trovata da me nel bosco, come sottrarre al piacere che la donna mi avrebbe dato tutti quelli nei quali l’aveva avvolta la mia immaginazione. Ma vagare così nei boschi senza una contadina da baciare, voleva dire non conoscere di quei boschi il tesoro nascosto, la bellezza profonda. Quella fanciulla che io non vedevo che immersa nel fogliame era lei stessa, per me, come una pianta di quella terra, d’una specie soltanto più nobile delle altre e dotata, rispetto a loro, d’una struttura che consente d’avvicinarsi maggiormente al sapore profondo del luogo. Mi era tanto più facile credere questo (e che le carezze con le quali mi avrebbe fatto giungere fin là sarebbero state a loro volta d’una qualità particolare, tali che nessun’altra avrebbe potuto farmene conoscere il piacere) in quanto mi trovavo, per lungo tempo ancora, ad avere l’età in cui non si è ancora arrivati ad astrarre quel piacere dal possesso delle diverse donne con le quali lo si è gustato, a ridurlo a una nozione generale che da un certo momento in poi le fa considerare come gli strumenti intercambiabili d’un piacere sempre identico. Nemmeno esiste, isolato, separato e formulato nella mente, come lo scopo che si persegue accostandosi a una donna, come la causa del turbamento che si prova inizialmente. Appena ci si pensa come a un piacere che si avrà; lo si chiama, piuttosto, il suo fascino, il fascino di lei; giacché non si pensa a se stessi, non si pensa che a uscire da sé. Oscuramente atteso, immanente e celato, porta soltanto, nel momento in cui si compie, a un tale parossismo gli altri piaceri suscitati in noi dalle dolci occhiate, dai baci di colei che ci sta accanto, che appare soprattutto a noi stessi come una sorta di trasporto della nostra riconoscenza per la bontà di cuore della nostra compagna, e per la toccante predilezione che ci accorda e che noi misuriamo dalle delizie, dalla gioia di cui ci colma.

[Marcel Proust, Alla Ricerca del tempo perdutoDalla parte di Swann, traduzione di Giovanni Raboni, I Meridiani Mondadori ] pp. 191-192

Françoise e la morte di zia Léonie

Durante i quindici giorni che durò la sua ultima malattia, Françoise non la abbandonò un istante, non si spogliò mai, non permise a nessun altro di prestarle qualche cura, e non lasciò il suo corpo che quando fu sepolto. Allora ci apparve chiaro che quella sorta di timore, nel quale Françoise era vissuta, delle cattive parole, dei sospetti, delle collere di mia zia aveva sviluppato in lei un sentimento che avevamo scambiato per odio e che era invece venerazione e amore. La sua padrona vera, la padrona dalle decisioni impossibili a prevedersi, dalle astuzie difficili da eludere, dal buon cuore facile da piegare, la sua sovrana, la sua monarca misteriosa e onnipotente non c’era più. Al suo confronto, noi contavamo ben poco. Era lontano il tempo (quando avevamo cominciato a venire a Combray, per le vacanze) in cui agli occhi di Françoise, uguagliavamo in prestigio la zia. Quell’autunno, interamente assorbiti dalle formalità da sbrigare, dagli incontri con i notai e con i fattori, i miei genitori, non avendo la possibilità di fare delle gite che d’altronde il tempo non favoriva, presero l’abitudine di lasciarmi andare a passeggiare senza di loro dalla parte di Méséglise, avvolto in un grande plaid che mi proteggeva dalla pioggia e che io mi gettavo tanto più volentieri sulle spalle quanto più percepivo che il suo disegno scozzese scandalizzava Françoise, nella cui testa era impossibile inculcare l’idea che il colore dei vestiti non ha nulla a che vedere con il lutto e alla quale, per altro, il dispiacere che noi provavamo per la morte della zia era poco gradito dal momento che non avevamo offerto nessun banchetto funebre, non assumevamo un tono di voce speciale per parlare di lei e io, a volte, addirittura canterellavo. Sono sicuro che in un libro – sotto questo profilo ero anch’io come Françoise – una simile concezione del lutto, derivata dalla Chanson de Roland e dal portale di Saint-André-des-Champs, avrebbe suscitato la mia simpatia. Ma dato che Françoise mi era vicina, un demone mi spingeva a desiderare che fosse in collera, coglievo ogni pretesto per dirle che rimpiangevo mia zia perché era una buona donna, malgrado le sue fisime ridicole, ma assolutamente non perché era mia zia, che avrebbe potuto essere mia zia e risultarmi odiosa, e la sua morte non provocarmi alcuna sofferenza, tutti discorsi che in un libro mi sarebbero sembrati insulsi. Se Françoise, traboccante come un poeta d’un flusso di pensieri confusi sul dolore, sui ricordi di famiglia, si scusava allora di non saper rispondere alle mie teorie e diceva: “Non so esprimermi”, io trionfavo di quell’ammissione con un buonsenso ironico e brutale degno del dottor Percepied; e se lei aggiungeva: “Però era sempre della parentela, resta comunque il rispetto che si deve alla parentela”, io scrollavo le spalle e pensavo: “Sono troppo buono a mettermi a discutere con un’analfabeta che fa degli svarioni simili”, adottando così, per giudicare Françoise, il meschino punto di vista di quella gente di cui gli stessi che più la disprezzano nell’imparzialità della riflessione sono poi capacissimi di assumere la parte quando devono recitare in una della scene volgari della vita.

[Marcel Proust, Alla Ricerca del tempo perdutoDalla parte di Swann, traduzione di Giovanni Raboni, I Meridiani Mondadori ] pp. 186-187-188