Vittorio Emanuele I (1802-1821

Vittorio Emanuele I (1802-1821)
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Un re di poca intelligenza, di nessuna cultura, di scarsa personalità, presuntuoso e guerrafondaio, lo definisce il Carta Raspi:è stato questo Vittorio Emanuele I. Altri storici ricordano opportunamente la sua funesta politica tutta giocata sulla discriminazione dei sardi, la repressione e le condanne a morte e con esse il brutale fiscalismo.
Che fu aumentato a dismisura dal 1799 al 1816, con la presenza della Corte savoiarda a Cagliari, in seguito all’occupazione dell’Italia settentrionale da parte di Napoleone. Nei 17 anni della presenza a Cagliari dei Savoia, dal 1799 al 1816 infatti “furono complessivamente pagate come contribuzioni straordinarie per la corte 9.714.514 lire sarde: dal 1799 373.000 ogni anno per l’appannaggio della famiglia reale; dal 1805 oltre 76.750 per lo spillatico della regina. Il deficit del bilancio raggiunse a causa di queste spese e di quelle militari, la cifra impressionante di 3 milioni, quasi tre volte l’importo delle entrate ordinarie. La ripartizione di questi maggiori oneri fiscali, ad accrescere gli squilibri e il malcontento, era fatta in modo iniquo, i villaggi, ad esempio, dovevano pagare più del clero e dei feudatari: ben 87.500 lire sarde (75 mila il clero e appena 62 mila i feudatari) mentre sui proprietari delle città, sui creditori di censi, sui titolari d’impieghi civili gravava un onere di ben 125.000 lire sarde e sui commercianti di 37 mila”1.
E ciò mentre l’Isola vive sulla propria pelle una gravissima crisi economica e finanziaria: certo conseguenza delle calamità naturali e delle pestilenze di quegli anni ma anche di una politica e di un’amministrazione forsennata da parte dei Savoia, specie, ripeto, con l’aumento delle tasse.
Il peso delle nuove imposizioni fiscali, colpivano non soltanto le masse contadine ma anche gli strati intermedi delle città. Così succedeva che “Spesso gli impiegati rimanevano senza stipendio, i soldati senza il soldo, mentre ai padroni di casa veniva imposto il blocco degli affitti e ai commercianti veniva fatto pagare il diritto di tratta più di una volta”2.
 
1, Su famini de s’annu doxi
Ma ecco un breve quadro delle condizioni in cui la popolazione cagliaritana e sarda viveva in quel periodo, culminato con s’annu de sa famini: il 1812. “Consunte le biade, i poveri ed anche gente in prima non bisognosa presero a pascersi, a modo di bruti, d’erbe silvestri anche nocive alla sanità; intiere fami­glie emigrarono dalle loro stanze in cerca di vitto; ed infor­mata dalle ossa la pelle, lacere le vesti, a passi stentati. e con gemiti e grida compassionevoli, recarono la desolazione ed il lutto ovunque fecero di sé lamentosa mostra. In Caglia­ri soprattutto dal febbraio cominciarono a rendersi frequenti scene cotanto dolorose. A frotte vi piombavano gl’infelici, gremite erano di loro le vie che dall’interno del paese riescono alla città. Alla desolante vista d’una folla di spettri ambulanti per le contrade, senza tetto, senza vesti, senza nutri­mento, al mirarli giacenti di notte sul suolo stesso che giorno avevano calpestato per accattarsi un pane, e tal caduti morti per la fame e per lo gelo invernale, non era uomo che non si dolesse di essere riserbato a tempi così calamitosi. Giovanetto io li vidi, né posso raffigurarmeli senza raccapriccio. Non è già che mancasse la carità cittadina. Ma a che valeva se avventurati erano gli stessi uomini a quando di pane, e salubre, potevano nutrirsi? Gli orrori della carestia giunsero in Cagliari al loro apogeo nel marzo e nell’aprile”3.
E ancora:”Il commercio interno del frumento ripigliò l’anda­mento normale, il prezzo ne fu minorato, le popolazioni eb­bero un sollievo, ed il governo declinò in gran parte dai ri­gorosi ordinamenti. Se non che durarono lungamente le tracce dell’orribile carestia: crebbe il debito pubblico dello stato; minarono le amministrazioni frumentarie dei municipi e specialmente di Cagliari; cadde nell’inopia gran novero di agricoltori; in pochi si concentrarono sterminate proprietà: alcuni villaggi meschini soggiacquero alla padronanza d’uno o più notabili; i piccoli proprietari notevolmente scemarono: si assottigliarono i monti granatici; e perciò decadde l’agri­coltura, ed a tacer d’altro, il sistema tributario viepiù vi­ziossi, trapassati essendo i beni dalle classi inferiori a preti ed a nobili esenti da molti pesi pubblici. Ondeché per la in­felice Sardegna questa carestia segnò un’epoca di trasforma­zione economica, la più miseranda ed impeditiva della prosperità ventura”4.
“Gli anni successivi furono meno duri, ma di nuovo e peggiore di ogni altra si manifestò la carestia del 1816; si che Cagliari, come gli altri maggiori centri, fu di nuovo invasa da gente in cerca di cibo, affamata e cenciosa. Fu notevole anche la mortalità in tutta l’isola, e in Cagliari si sviluppò un’epidemia di febbri non bene accertate, ma che possiamo credere provocate dalla cattiva nutrizione. No­nostante il consiglio di allontanarsi maggiormente da Cagliari, preferibilmente a Carloforte, Carlo Felice, ormai in procinto di lasciare la Sardegna, nell’imperversare del morbo si era ritratto alla Villa Orri, donde provvedeva ai grandi bisogni del paese, col consiglio del suo caro Villahermosa; e possiamo aggiungere, coi porchetti e il buon vino che l’ospite segretario gli forniva, contro ogni epidemia, anche politica”5.
 
2. La legge delle chiudende nella proposta di Padre Gemelli.
A parte i suoi gravi limiti, alcuni storici attribuiscono al re Vittorio Emanuele I il merito d avere emanato L’Editto sopra le Chiudende, con cui si crea in Sardegna la cosiddetta proprietà perfetta.
A teorizzarla, è stato il gesuita Francesco Gemelli. Questi fin dal 1776, rilevando le pessime condizioni dell’agricoltura nell’Isola, nell’opera Rifiorimento della Sardegna proposto nel miglioramento di sua agricoltura, sostiene che le cause sono “il difetto di libera proprietà delle terre per la comunanza o quasi comunanza di esse; il difetto di case contadinesche; il difetto di società durevole tra il proprietario e il coltivatore del Fondo 6 e, in particolare, il difetto di chiusura intorno ai fondi.
Secondo il Gemelli se la diagnosi dell’arretratezza della Sardegna e in specie della sua agricoltura è molto netta ed esplicita:” Nasce tutto il disordine dalla comunanza o quasi comunanza delle terre”; altrettanto esplicita è la terapia:Distruggasi quindi questa comunanza o quasi comunanza delle terre in Sardegna, concedendole in perfetta e libera proprietà alle persone particolari; e otterrassi di certo il disiato rifiorimento dell’agricoltura ne’ seminati, ne’ pascoli, nelle piante, e in ogni parte della rustica economia” .
La gestione sostanzialmente “comunitaria” delle terre ordinariamente aperte, senza siepe, senza muriccia, senza chusura rappresentava dunque – secondo il Gemelli – un ostacolo oggettivo all’affermazione di un sistema produttivo efficiente. Era infatti il modo di organizzazione del processo produttivo a creare arretratezza: al contadino – non avendo nessuna certezza di permanere nel fondo – veniva meno ogni stimolo alle trasformazioni e alle migliorie, le stesse tecniche agrarie subivano un ristagno e la produzione inevitabilmente languiva. Questo tipo di struttura produttiva si accompagnava alla comunanza dei pascoli che – sempre secondo il Gemelli – obbligava i pastori alla ricerca affannosa di sempre nuovi pascoli, poiché nessun miglioramento era possibile introdurre in terreni nei quali l’uso era sempre incerto.
 
3. L’Editto delle Chiudende del re Vittorio Emanuele: giudizi e valutazioni di storici, scrittori e intellettuali.
In data del 6 ottobre del 1820 Vittorio Emanuele emette il regio Editto sopra le Chiudende, con nove articoli. Quello fondamentale è il 1° che recita testualmente: “Qualunque proprietario potrà liberamente chiudere di siepe o di muro, o vallar di fossa, qualunque suo terreno non soggetto a servitù di pascolo, di passaggio, di fontana, o abbeveratoio .
Questo in teoria. La pratica sarà ben diversa. A rendersene conto le stesse autorità che, con qualche ipocrita considerazione critica e sia pure solo a livello di documento «riservato», ammetteranno abusi colossali e violazioni sistematiche in merito alla osservanza dell’articolo primo in specie, in seguito alla massiccia chiusure dei terreni, che avverrà dopo il 1830. Nei primi anni, dopo l’emanazione del Decreto, le chiusure saranno molto poche.
Il viceré di Sardegna, nella sua relazione sulle Chiudende presentata alla Corte il 22 settembre 1832, scrive: “E’ veramente eccessivo l’abuso che fecesi delle Chiudende da alcuni proprietari. Siffatto abuso è quasi generale nel Nuorese. Si chiusero a muro e a siepi boschi ghiandiferi, si chiusero al piano e ai monti i pascoli migliori per obbligare i pastori a pagare un fitto altissimo e si incorporarono perfino le pubbliche fonti e gli abbeveratoi per meglio dettare ai medesimi la legge … Questa (legge) giovò nella sua esecuzione solo ai ricchi e ai potenti, i quali non ebbero ribrezzo di cingere immense estensioni di terreno d’ogni natura, senza idea di migliorare il sistema agrario, ma al solo oggetto di far pagare dai contadini e dai pastori la facoltà di seminarli e il diritto di far pascolare i loro armenti”.
Altro che disiato rifiorimento! Sarà un disastro.
Nel suo romanzo Paese d’ombre Giuseppe Dessì scriverà di Una legge famigerata,che sovvertiva un ordine durato nell’Isola da secoli.
E che causerà gravissime crisi economiche e sociali. E ribellioni violente contro la recinzione delle terre comunitarie: tanto che, soprattutto nel Nuorese, o comunque dove l’opposizione fu più decisa, soprattutto i pastori riuscirono a “conservare” molto “cumonale”. Fu in conseguenza di quella lotta che ancora oggi in Sardegna e nelle zone interne pastorali in particolare, le terre comunali indivise occupano il 15% circa dell’intera superficie (353.000 ettari) cui occorre aggiungere 227.000 ettari di terre appartenenti a Enti Pubblici.
Sempre Giuseppe Dessì scrive che “con la creazione forzata della proprietà privata dovuta alla Legge delle chiudende e la conseguente decadenza dei Monti granatici ai poveri non restava altro che rivolgersi agli usurai che la fecero da padroni in tutti i paesi dell’isola, favoriti anche dalla disastrosa crisi bancaria”7.
Mentre un altro Dessy, Ugo questa volta, anche lui valente saggista, scrittore e romanziere, in modo duro e radicale, con toni ironici e anche sarcastici, denuncia la legge e i risultati che produrrà: “«il disiato rifiorimento» riguardava le casse della con­sorteria al potere: la nuova nobiltà, la nascente e affamata borghesia e il clero trasformista. Ma anche in un periodo di assolutismo monarchico, finché si può, gli atti di rapina dei ceti dominanti vengono mascherati come interventi per instaurare l’ordine, incrementare la produzione, creare il benessere generale. Nel «rifiorimento» progettato dal gesuita e dai successivi programmatori sabaudi era compreso il superamento dell’ antica dicotomia contadino-pastore, Pirastu, Il banditismo in Sardegna, Editori Riuniti, 1974, Roma, pagina 29.
11.Ibidem, pagina 30.
che si faceva risalire a Caino e Abele, e che neppure il Padre Eterno, stando alla Bibbia, era riuscito a risolvere. L’avvento della proprietà «perfetta» della terra risolvendo tutti i mali avrebbe finalmente sanato anche il conflitto tra Caino e Abele: rendendoli ambedue schiavi, ambedue alla pari sotto lo sfruttamento del proprietario terriero, il quale dietro pagamento, avrebbe concesso la terra, ora all’uno in pascolo ora all’altro per semina, dissanguandoli”8.
Prosegue Ugo Dessy: ”si deve alla resistenza popolare, al sacrificio di tante vite umane se l’economia pastorale e la civiltà di cui è espressione non furono cancellate dalla faccia della terra. I danni  inferti alla economia isolana dalle Chiudende furono ingenti. Dal 1790 al 1805 la quantità di grano (in starelli) prodotta in Sardegna va da 1.793.894 a 1.192.103; dal 1842 scende da 1.074.597 a 530.111. La produzione del grano dopo le Chiudende si dimezza, in un primo tempo, e poi si riduce a circa un quarto. Dal 1790 al 1795 (mancano i dati relativi ai primi anni del 1800) la produzione dell’orzo (in starelli) va da 588.708 a 438.987; dal 1842 al 1847 scende da 537.144 a 170.970. Il patrimonio ovino risulterà dimezzato”9 .
Soprattutto nel Nuorese, zona prevalentemente pastorale, la resistenza e la lotta dei pastori sarà furibonda e non li scoraggeranno neppure le fucilazioni sommarie e la repressione violenta da parte dell’esercito.
“La conseguenza – scrive Ignazio Pirastu, gran conoscitore del banditismo sardo – fu che centinaia di contadini e pastori si diedero alla macchia per sfuggire agli arresti e alle condanne deliberate senza maturo giudizio. Le accuse aperte e le delazioni segrete aprirono una nuova catena di vendette, mentre la Commissione alternava arresti e pene severissime, anche di morte, alla revoca delle chiusure, alla restituzione delle terre usurpate all’uso pubblico cui spesso erano stati sottratti ponti, strade, fontane … “10.
La resistenza da parte dei pastori deriva dalla consapevolezza che quell’Editto li avrebbe di fatto cancellati.
Scrive ancora Pirastu a tal proposito: “Che l’editto fosse diretto non solo a ridurre, limitare la pastorizia ma a distruggerla, è provato dal fatto che, se non vi fossero state la rivolta contro le chiusure e la demolizione violenta delle recinzioni, i pastori, quasi nessuno dei quali era proprietario del terreno, sarebbero stati estromessi dai pascoli trasformabili che sarebbero stati recintati e sottoposti a coltivazione; per sopravvivere si sarebbero dovuti ridurre a far pascolare le greggi nei terreni peggiori o piegarsi a pagare fitti esosi: è infatti quello che in definitiva è avvenuto, non pacificamente. È importante notare il fatto che, in gran parte della Sardegna, l’ usurpazione, elevata a metodo, è stata il mezzo normale di formazione della proprietà e non in tempi remoti, ma relativamente recenti; ciò spiega da una parte la grettezza e la propensione all’’assenteismo della pro­prietà in Sardegna e, dall’altra, il nessun rispetto dei ceti popolari per la proprietà terriera, la cui origine di rapina non si perde nel lontano passato ma è presente nella storia di famiglia di pastori e contadini defraudati poco più di un secolo fa … In conclusione si può affermare che la legge sulle Chiudende ebbe conseguenze nefaste. da essa nacque la proprietà assenteista attuale, con essa non si rea­lizzò il «rifiorimento della Sardegna» sognato dal Gemelli; le coltivazioni agricole non ebbero alcun rilevante in­cremento e le chiusure altro non ottennero che segna­re i limiti di una proprietà assenteista e parassitaria nel­la quale i pastori continuarono ad esercitare la loro at­tività primitiva per di più gravata da un nuovo insostenibile onere, il canone di affitto”11.
 
Note Bibliografiche
1. Pietro Martini, Storia di Sardegna dall’anno 1799 al 1816, a cura di Aldo Accardo, Ed. Ilisso, Nuoro, 1999, pagina 252.
2. Ibidem, pagina 252-253.
3. Ibidem, pagina 206.
4. Ibidem, pagina 208.
5. Raimondo Carta Raspi, Storia della Sardegna, Ed. Mursia, Milano, 1971, pagina 853.
6. Francesco Gemelli, Rifiorimento della Sardegna, Ed. Fossataro, Cagliari 1966, pagine 12-13.
7. Giuseppe Dessì, Paese d’ombre, prefazione di Sandro Maxia, Ed. Ilisso, Nuoro 1998, pagina 276.
8. Ugo Dessy, Quali banditi? – Controinchiesta sulla società sarda, volume secondo, Bertani Editore, Verona, 1977, pagine 323-324.
9. Ibidem, pagina 341.
10. Ignazio
Vittorio Emanuele I (1802-1821ultima modifica: 2017-07-12T11:28:00+02:00da fcasula45