L’uccisione del viceré Camarassa

L’uccisione del viceré Camarassa.

di Francesco Casula

Durante la loro esistenza vi furono tentativi ricorrenti degli Stamenti di rivendicare e di assumere più ampi poteri. Come in tutta Europa del resto, i Parlamenti lottavano contro i re/principi che invece tentavano di instaurare il loro potere assoluto.
L’episodio di maggiore frizione e conflitto fra il Parlamento sardo e il sovrano spagnolo avvenne nel 1655, quando gli Stamenti posero al sovrano una condizione secca: noi approviamo il donativo quando e se voi approvate le nostre richieste.
Fino ad allora il Parlamento che si riuniva ogni dieci anni, aveva posto il problema delle richieste ma slegate dall’approvazione del donativo. Ora invece è intransigente: senza l’accoglimento di ben 25 richieste, il donativo non verrà approvato.
Protagonisti di quel Parlamento sono l’arcivescovo di Cagliari (che era anche capo della Chiesa sarda) e soprattutto il marchese di Laconi, don Agustin de Castelvì, «prima voce » dello stamento militare, che viene inviato a Madrid per spiegare (e convincere) il re in relazione alle richieste del Parlamento.
Contrariamente all’uso dell’invio di un rappresentante per ogni stamento, don Agustin fu mandato lui solo a capo della delegazione, a riprova della fiducia che l’intero Parlamento, finalmente unito, salvo un gruppo nettamente minoritario, riponeva in lui.
Rimarrà per un anno a Madrid: resistendo a ricatti, minacce e lusinghe. Tentò anche forti mediazioni, riducendo le richieste da 25 a 5: una di queste non era altro che l’habeas corpus, cioè il principio secondo il quale nessuno può essere imprigionato senza il mandato di un giudice e sulla base di un reato definito; l’altra, molto più rilevante ai fini economici e sociali delle classi privilegiate che il Marchese di Laconi rappresentava, era quella della riserva ai residenti in Sardegna di tutte le cariche, civili, religiose e militari.
Il Governo di Madrid, naturalmente, respinse le richieste, non solo per una questione di merito ma di principio: non poteva accettare la tesi dello scambio (donativo per approvazione richieste) perché in qualche modo avrebbe significato mettere in una situazione di parità il regno di Sardegna con quello di Spagna.
Di più: al suo ritorno in Sardegna agli inizi del 1668 il viceré Emanuel Gomez de los Cobos marchese di Camarassa, destituì il marchese di Laconi e il 24 maggio sciolse il Parlamento stesso. Circa un mese dopo, nella notte fra il 20 e il 21 giugno il marchese di Laconi fu ucciso. Il delitto, fu fatto ricadere sulla corte viceregia. E comunque un mese dopo fu assassinato anche il viceré Camarassa. Furono accusati la moglie e il suo amante, Salvatore Aymeric, cadetto dei conti di Villamar.
Uno scontro fra il viceré, il suo autoritarismo e il parlamento? E in particolare con il Marchese di Laconi, invero un po’ ribelle e bandolero ma caduto per la difesa degli interessi dei naturales sardi, di tutti indistintamente? Addirittura redemptor y restaurador de la Patria? Padre del Pueblo o amparador de los pobres, espressioni che risultano da alcuni documenti dei giorni seguenti il delitto? Questo è il don Agustín che si vuole accreditare presso l’opinione pubblica. In realtà si tratta di un conflitto fra gli interessi delle classi privilegiate sarde e il Governo di Madrid che non vuole rinunciare minimamente al centralismo del suo potere e del suo dominio.
In altre parole, comunque: ”Non è certo possibile ricondurre questi episodi a un consapevole progetto di affermazione autonomistica e ‘nazionale’ dell’isola nei confronti della Spagna, ma essi sono comunque il segno di una monarchia non più vincente sul teatro politico e militare europeo in piena decadenza economica e civile, e che non ha più argomenti sufficienti per far accettare senza reazione le sue pretese centralistiche. E non può più offrire alle aspirazioni di affermazione delle élites, e forse dell’intera società sarda, un orizzonte di adeguato appagamento.”*
*A. Brigaglia A.Mastino G.G. Ortu, Storia della Sardegna 3, Editori Laterza, Roma-Bari 2002, pagina 31.

La morte del savoiardo.

La morte del savoiardo.
di Francesco Casula
Di fronte alla morte, a tutte le morti è doveroso il “parce sepulto”. E persino la pietas cristiana, per i credenti. Ma, per cortesia senza dimenticare le gravissime malefatte del morto in questione. E’ stato accusato di avere ucciso un giovane studente tedesco Dirk Hamer. E’ pur vero che è stato assolto. Ma è anche vero che lo stesso Vittorio Emanuele in una intercettazione si vanterà di “aver imbrogliato” la Giustizia francese. Si tratta comunque di un plurinquisito e plurindagato: per commercio internazionale di armi. E’ stato iscritto alla P2: l’organizzazione politico-mafiosa e golpista. Intervistato da una TV ha rifiutato di chiedere scusa per le infami Leggi razziali emanate dal nonno Sciaboletta: a tal punto che persino il figlio Filiberto glielo rimprovererà. Nei confronti dei sardi si è sempre espresso con insulti infamanti e razzistici:””Sono capre”, “puzzano e basta”. Ha avuto l’impudenza, con l’intera famiglia di iniziare una battaglia legale per riavere indietro i gioielli custoditi in un caveau di Banca d’Italia. Come se quei preziosi fossero frutto del loro lavoro e non del sudore e del sangue dei sudditi, dei Sardi in particolare, sfruttati e angariati per ben 226 anni (1720-1846) Dimenticandosi che quando vennero in Sardegna, la prima volta, tartassavano i Sardi di tasse spropositare e al di fuori e contro qualsiasi legge e consuetudine. Succederà così che con il re Carlo Emanuele nel 1799 (sbarcato a Cagliari, il 3 marzo come esule in quanto cacciato da Napoleone che aveva occupato il Piemonte), il Donativo sarà addirittura triplicato, senza convocare il Parlamento, passando da 200.000 lire sarde a 600.000 lire sarde, così suddiviso: 227.000, per la Corte, 35.000 per il re, 18.000 spillatico per la regina, 10.000 per la principessa Felicita, 95.000 per il duca d’Aosta, 60.000 per il duca di Monferrato, 40.000 per il duca del Genovese, altrettante il conte di Moriana e 75.000 per il duca del Chiablese” . Buon sangue non mente: il discendente dei tiranni sabaudi, famelici e sanguinari, si muove esattamente come loro, nell’arco di tutta la sua vita: fra titulias e disacatos, infamie e crimini.
 
 
 
 
 
 
 

ANCORA ESCLUSI TUTTI GLI SCRITTORI SARDI, DELEDDA COMPRESA!

ANCORA ESCLUSI TUTTI GLI SCRITTORI SARDI, DELEDDA COMPRESA!

di Francesco Casula

Cambiano i Governi ma la musica non cambia: prima Berlusconi poi i “democratici” (Monti, Letta, Renzi e Gentiloni) poi il giallo-verde di Lega e 5 stelle e poi ancora il Conte 2 e Draghi e oggi Meloni: ma gli scrittori sardi continuano ad essere esclusi dai programmi scolastici.
Sono infatti passati più di due decenni e la situazione è ancora quella cristallizzata dal DPR 89/2010 nel quale Mariastella Gelmini, all’epoca Ministro dell’Istruzione, dettava le linee guida per i docenti, e definiva i fondamentali degli insegnamenti ritenuti strategici per le scuole superiori.
Nel documento ancora in vigore, per quel che concerne la poesia e la narrativa del ‘900 da affrontare nei licei, sono indicati a titolo esemplificativo diciassette autori principali a cui fare riferimento: “…si esordirà con le esperienze decisive di Ungaretti, Saba e Montale, …contemplerà un’adeguata conoscenza di Rebora, Campana, Luzi, Sereni, Caproni, Zanzotto, …comprenderà letture da autori significativi come Gadda, Fenoglio, Calvino, P. Levi e potrà essere integrato da altri autori come Pavese, Pasolini, Morante, Meneghello”.
Avete capito?
C’è Meneghello (con tutto il rispetto per lo scrittore vicentino) ma non Grazia Deledda, unica Premio Nobel donna in Italia per la letteratura. Come non c’è un romanziere di levatura europea: Salvatore Satta.
E’ pur vero che il docente nella sua autonomia didattica può inserire nella sua Programmazione scolastica gli Autori che ritiene più validi. Ma quanti lo fanno? E comunque rimane immutata la scelta ministeriale, cieca e escludente gli Autori sardi.
Perché?

L’OLOCAUSTO SARDO

L’OLOCAUSTO SARDO
di Francesco Casula
Il 27 gennaio 1945 ad opera delle truppe sovietiche dell’Armata Rossa fu liberato il campo di concentramento di Auschwitz. Per ricordare tale evento e per commemorare le vittime dell’Olocausto, l’Assemblea generale delle Nazioni Unite il 1º novembre 2005, ha istituito, il Giorno della Memoria, da celebrarsi, a livello internazionale ogni anno, proprio il 27 gennaio. Per la verità, il Parlamento italiano, dopo ben quattro anni di discussioni, aveva già istituito nel 2000 e per la stessa data, il Giorno della memoria. E’ stata una decisione quanto mai opportuna: quel genocidio di milioni di esseri umani non può infatti finire nel dimenticatoio. Come fosse roba vecchia, da consegnare, sic et simpliciter, al passato. Occorre infatti sorvegliare attentamente la nostra memoria e non dimenticare. Anche perché quel passato orribile, non è del tutto passato. Proprio in questi ultimi anni infatti inquietanti e cupe nubi si addensano nei cieli europei con l’affermarsi di movimenti e Partiti intolleranti e xenofobi, che si sipirano proprio al fascismo e al nazismo. Perché questi vengano sconfitti e liquidati, soprattutto i giovani devono studiare e conoscere la tragedia immane dell’Olocausto. Ad essere internati nei lager e poi sterminati furono in particolare gli Ebrei: 6 milioni, dicono le cifre ufficiali. A questi occorre aggiungere almeno altri 6 milioni costituiti da oppositori e dissidenti politici, omosessuali, disabili, Rom, Slavi. E persino da minoranze religiose come i testimoni di Geova, Pentecostali ecc. Di mezza Europa. Bene: ma in questa sede voglio parlare dell’olocausto sardo: di cui non si parla mai. La Sardegna è una delle regioni che ha pagato un altissimo tributo di deportati, soprattutto militari:furono circa 12.000 mila i soldati sardi IMI (Internati militari italiani) rinchiusi nei lager, fra i 750-800 mila militari e civili fatti prigionieri dai nazisti dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943. Per spiegare un numero così alto di militari sardi deportati occorre capire la situazione in cui si trovarono nei fronti di guerra (Grecia, Albania, Slovenia, Dalmazia) dopo l’armistizio dell’8 settembre. Quando il 9 settembre, vigliaccamente sia il re Vittorio Enmanuele III (più noto come Sciaboletta) che Badoglio, abbandonano Roma e fuggono a Brindisi. I soldati sardi nei fronti di guerra, in genere giovani e giovanissimi,con la difficoltà di tornare in Sardegna e sbandati, furono posti di fronte all’alternativa di aderire alla RSI (Repubblica sociale di Salò) o di diventare prigionieri dei tedeschi e dunque di essere imprigionati nei lager. Quasi nessuno aderì alla RSI e dunque il loro destino fu segnato. Finirono quasi tutti nei campi di concentramento: solo pochi, dopo la liberazione, tornarono in Sardegna. E gli altri? Della maggior parte ancora oggi non sappiamo niente o quasi. Iniziamo a ricordare questi giovani, il nostro Olocausto: dimenticato dalla scuola, dai Media e dalla politica. Colpevolmente.
 
 
 
 
 
 
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S’ISCOLA IN SARDIGNA

Francesco Casula
S’ISCOLA IN SARDIGNA
di Francesco Casula
Deo la penso goi. E so curiosu de ischire e connoschere ite nde narant sos Partidos chi si presentant a sas eletziones. la scuola italiana in Sardegna non risulta né interessante, né gratificante, né attraente: è una scuola di Stato e non pubblica nel senso che è rivolta a un alunno che non c’è: tutt’al più a uno studente metropolitano, nordista e maschio. Dunque non a un sardo. E tanto meno a una sarda. E’ una scuola che con i contesti sociali, ambientali, culturali e linguistici degli studenti non ha niente a che fare. Nella scuola la Sardegna non c’è: è assente nei programmi, nelle discipline, nei libri di testo, nell’organizzazione. Provate a chiedere a uno studente sardo che esca da un liceo artistico, cosa conosce di una civiltà e di un’architettura grandiosa come quella nuragica, sicuramente fra la più significative dell’intero Mediterraneo; provate a chiedere a uno studente del liceo classico cosa sa della parentela fra la lingua sarda e il latino; provate a chiedere a uno studente di un Istituto tecnico per ragionieri e persino a un laureato in Giurisprudenza cosa conosce di quel monumentale codice giuridico che è la Carta de Logu di Eleonora d’Arborea. Vi rendereste conto che la storia, la lingua e la civiltà complessiva dei Sardi dalla scuola ufficiale è stata non solo negata ma cancellata. Permane una scuola monoculturale e monolinguistica, negatrice delle specificità, tutta tesa allo sradicamento degli antichi codici culturali e basata sulla sovrapposizione al “periferico” di astratti paradigmi e categorie che le grandi civiltà avrebbero voluto irradiare verso le civiltà considerate inferiori. Questa scuola ha prodotto in Sardegna, soprattutto negli ultimi decenni, giovani che ormai appartengono a una sorta di area grigia, a una terra di nessuno. Apprendono l’italiano a scuola ma soprattutto grazie ai media: ma si tratta di una lingua stereotipata, gergale, banale, una lingua di plastica, inodore, insapore e incolore. Ma una scuola monoculturale e monolinguistica produce effetti ancor più gravi e devastanti a livello psicologico e culturale. Da decenni infatti la pedagogia moderna più attenta e avveduta ritiene che la lingua materna e i valori alti di cui si alimenta siano i succhi vitali, la linfa, che nutrono e fanno crescere i bambini senza correre il gravissimo pericolo di essere collocati fuori dal tempo e dallo spazio contestuale alla loro vita. Solo essa consente di saldare le valenze e i prodotti propri della sua cultura ai valori di altre culture. Negando la lingua materna, non assecondandola e coltivandola si esercita grave e ingiustificata violenza sui bambini, nuocendo al loro sviluppo e al loro equilibrio psichico. Li si strappa al nucleo familiare di origine e si trasforma in un campo di rovine, la loro prima conoscenza del mondo. I bambini infatti – ma il discorso vale anche per i giovani studenti delle medie e delle superiori – se soggetti in ambito scolastico a un processo di sradicamento dalla lingua materna e dalla cultura del proprio ambiente e territorio, diventano e risultano insicuri, impacciati, “poveri” sia culturalmente che linguisticamente. Di qui, per esempio, la mortalità e la dispersione scolastica record in tutta l’Italia.. Ite faghere? Cambiare radicalmente la didattica, i curricula, la stessa mentalità di docenti e dirigenti scolastici. Per quanto attiene alla lingua sarda occorrerà finalmente partire dal dato – appurato scientificamente da tutti gli studiosi – che la presenza della lingua materna e della cultura locale nel curriculum scolastico non si configurano come un fatto increscioso da correggere e controllare ma come elementi indispensabili di arricchimento, di addizione e non di sottrazione, che non “disturbano” anzi favoriscono apprendimento e le capacità comunicative degli studenti, perché agiscono positivamente nelle psicodinamiche dello sviluppo. Di qui la necessità che nelle scuole di ogni ordine e grado si inserisca la lingua e la cultura sarda, come materia curriculare. Altrimenti i record negativi della scuola in Sardegna permarranno. E continuare a piangersi addosso e a lamentarci servirà a poco.
 
 
 
 
 
 
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MATTARELLA E MELONI: due volti diversi dello stesso Stato (coloniale)

MATTARELLA E MELONI: due volti diversi dello stesso Stato (coloniale)
di Francesco Casula
Mattarella e Meloni sono due volti diversi, (il primo più accattivante, il secondo più respingente, perché più classista nordista e antisardo) ma rappresentano lo stesso Stato italico coloniale. Che da sempre ha mostrato nei confronti della Sardegna il suo volto feroce e brutale di dominio economico e di repressione culturale e linguistica. Fin dalle sue origini e dalla sua funesta unità: con un fiscalismo esoso e insopportabile, con una Sardegna che paga tasse superiori alla media delle tasse che pagano le altre regioni italiane, talvolta persino superiori a quelle delle regioni più ricche. Scrive Giuseppe Dessì nel romanzo Paese d’ombre: “La legge del 14 luglio 1864 aveva aumentato le imposte di cinque milioni per tutta la penisola, e di questi oltre la metà furono caricati sulla sola Sardegna, per cui l’isola si vide triplicare di colpo le tasse. In molti paesi del Centro, quando gli esattori apparivano all’orizzonte, venivano presi a fucilate e se ne tornavano, a mani vuote, ma più spesso l’esattore, spalleggiato dai Carabinieri, metteva all’asta casette e campicelli e tutto questo senza che nessuno tentasse di difendere gli isolani. I politici legati agli interessi del governo, predicavano la rassegnazione. I sardi si convincevano di essere sudditi e non concittadini degli italiani…”1. Per non parlare dell’imposta sul macinato l’imposta più odiosa di tutte, “perché gravava sulle classi più povere, consumatrici di pane e di pasta e particolarmente dura in Sardegna, dove il grano veniva di solito macinato nelle macine casalinghe fatte girare dall’asinello” 2. E per non parlare ancora dell’aggio esattoriale che “Nelle altre province del regno ha una media che non supera il 3%, in Sardegna non è minore del 7% e in alcuni comuni arriva persino a 14%”3 . A dimostrazione che la pressione fiscale in Sardegna era fortissima e comunque più forte che nelle altre regioni ne è una riprova – come documenta Francesco Saverio Nitti, già Presidente del Consiglio dal 1919 al 1920 – il fatto che dal 1 gennaio 1885 al 30 giugno del 1897 si ebbero in Sardegna “52.060 devoluzioni allo stato di immobili il cui proprietario non era riuscito a pagare le imposte, contro le 52.867 delle altre regioni messe insieme” 4. A dire che quando non si pagano le tasse lo Stato ti sequestra piccoli beni (appezzamenti di terreno, casette) e ai contadini, lo ricorda Giuseppe Dessì nel suo romanzo “Paese d’ombre”, persino i carri a buoi! Ed ancora nel 1913 – al trono Vittorio Emanuele III, la media delle devoluzioni ogni 1000.000 abitanti era 110,8 in Sardegna e di 7,3 nel regno, è sempre Nitti a scriverlo. E dopo lo sgoverno dei tiranni sabaudi e il Fascismo? Cambia la “forma” coloniale non la “sostanza”. L’Isola continua ad essere considerata semplice appendice dello Stato italiano. Colonia d’oltre mare da utilizzare come base di servizio di industrie nere e inquinanti, fabbriche di armi, basi militari, stazione di servizio per speculazione energetica. Con le Pale eoliche infatti, come con le industrie petrolchimiche, alla Sardegna rimane sa palla (e l’inquinamento) e issos si pigant su ranu. Calchi sisinu, pocos soddos alle popolazioni che ospitano i mostri di ferro e profitti milionari agli speculatori. Alla Sardegna fra 20/30 anni tonnellate di ferro arrugginito da smaltire e al Nord energia bella, pronta e pulita. Perché occorre ribadirlo l’energia prodotta dal vento (e dal sole) sardo non è per noi ma per loro. Come i semilavorati della chimica. Per creare, ancora una volta, la loro ricchezza. Alle nostre spalle. A fronte di tutto ciò, che senso può avere per i sardi, la retorica patriottarda del discorso di Mattarella, questa sera? O, peggio ancora, le balle ciclopiche che ci racconterà il 4 gennaio prossimo Meloni? Meglio la lettura di un bel libro sardo che perdere tempo con le chiacchiere (e le frottole) italiche. Note Bibliografiche 1. Giuseppe Dessì, prefazione di Sandro Maxia, Ed. Ilisso, Nuoro 1998, pagina 292. 2 Natalino Sanna, Il cammino dei sardi, vol.III, Editrice Sardegna, pagina 440. 3. F. Pais Serra, Antologia storica della Questione sarda a cura di L. Del Piano, Cedam, Padova, 1959, pagina 245. 4. F. Nitti, Scritti nella Questione meridionale, Laterza, Bari, 1958, pagina 162
 
 
 
 
 
 
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I pragmatici. I realisti.

I pragmatici. I realisti.

Di Francesco Casula

Li conosco tali soggetti. E sono molti. Spuntano come funghi soprattutto in occasione delle elezioni. E di fatis, millos mih!
Sono molti di quelli che volevano cambiare il mondo ma sono riusciti solo a cambiare se stessi. Adeguandosi allo stato delle cose presenti.
Sono molti di quelli che nel ’68 volevano fare la rivoluzione: spaccando tutto. In realtà sono riusciti solo a spaccare qualche vetrina.
Sono molti di quella generazione che sono passati da essere gramscianamente intellettuali “organici”, a organici solo a Ministeri e Enti inutili. E a Partiti, ugualmente inutili. Spesso anzi, dannosi.
Un’intera generazione di giovanotti che, una volta cresciuti, si sono sdraiati nei salotti del Potere: nel Parlamento e nella Banche; nei Giornaloni e nelle TV (di Stato o private poco importa). Negli Enti di qualsivoglia tipo e genere purché remunerativi in termini finanziari e di prestigio. E di potere.
Diventati pragmatici e realisti: amanti del quieto vivere, dello status quo intendo. Diventati pavidi. Ignavi: se vogliamo scomodare il Poeta fiorentino.
Diventati sostenitori del “Quieta non movere et mota quietare”. Con il pretesto che cambiare non si può, visti i rapporti di forza, visto il contesto.
Diventati sostenitori del compromesso: se si vuole entrare nelle istituzioni. Se si vuole governare. Contare. Gestire.
Non capendo che si governerà e si gestirà la miseria: la miseria del presente.
Sento ripetere anche da parte di molti giovani – invecchiati precocemente – che questo non è il tempo della testimonianza, degli ideali, delle utopie, dei sogni: bisogna essere realisti, pragmatici: ecco l’ossessivo mantra.
Bene: a questo gregge normalizzato e narcotizzato, con pervicacia oppongo – pur convinto e consapevole che si tratta di una vox clamans in deserto – una traiettoria esistenziale prima ancora che culturale e politica, opposta, radicalmente “altra” e antagonista. Reverde.
Voglio continuare a coltivare sogni idealità utopie. Seguendo il compianto Antonello Satta, gran giornalista e valente intellettuale sardo di Gavoi secondo cui “Chi nella vita non coltiva qualche utopia, è meglio che si dimetta”. Dalla vita ovviamente.
Voglio persino continuare a essere “irragionevole”. Ma di quella irragionevolezza di cui parlava un caustico esponente della cultura europea del primo Novecento, George Bernard Shaw, quando affermava che “l’uomo ragionevole si adatta al mondo, l’uomo irragionevole vorrebbe adattare il mondo a se stesso: per questo ogni progresso dipende dagli uomini irragionevoli”.
Basta dunque con l’adeguarsi. Ma basta anche con il ripiegamento interiore, indotto dalla crisi e dalla sconfitta. E basta con il vittimismo intimista, con la lamentazione sterile e generica, con l’attesa passiva in cui ci si consuma a inghiottire il pianto, perché il passato è visto solo come gravame e il futuro come negatività spettrale.
No est gai.Mudare si podet. Bastat a lu cherrere.

FESTE POPOLARI/ FESTE RELIGIOSE/ RUOLO DELLA CHIESA: Il capodanno.

FESTE POPOLARI/FESTE RELIGIOSE/ RUOLO DELLA CHIESA:
Il capodanno.

di Francesco Casula

L’intelligenza e la flessibilità della Chiesa cattolica è stata, storicamente, nel sopprimere ma nello stesso tempo nel recuperare e mediare quel senso di segno magico-pagano e profano, quell’universo mitico di estrazione folclorico-rurale, proveniente da antichissime abitudini precristiane, mai completamente sradicate, nell’ambito sacro del Cristianesimo e delle sue feste.

Tanto che oggi non esistono non solo Feste popolari ma scadenze liturgiche importanti che non presentino innesti di tipo pagano-profano, che la Chiesa comunque renderà compatibili con la simbologia cristiana, riplasmandoli: dal Natale alla Pasqua, dalla Quaresima alla Festa dei morti, dalla festa di San Giovanni a quella di Sant’Efisio o di San Francesco a Lula. Un’ampia gamma di soluzioni sincretistiche punteggerà in modo discreto ma persistente lo sviluppo dell’intero anno liturgico, per non parlare della loro presenza nel ciclo esistenziale di ciascun individuo: dalla culla alla bara.

Iniziamo dal Natale. Con l’avvento del Cristianesimo gli antichi culti del solstizio invernale furono soppressi ma insieme recuperati riadattati cristianizzati: nel mondo cristiano di oggi infatti il momento di transizione segnato dal solstizio d’inverno coincide con le feste di natale e poi capodanno, Sant’Antonio ecc.

A proposito del capodanno, la chiesa dopo aver combattuto a lungo la festa di capodanno come festa solo laica e profana, ma soprattutto a forti caratteri precristiani l’ha inserita nel calendario cristiano, attribuendogli specifici significati religiosi.

Così il 31 dicembre con un Te Deum di ringraziamento, per i benefici ricevuti, celebra l’anno che si conclude, mentre il primo gennaio invoca il Veni Creator Spiritus perché illumini la Comunità nel corso del nuovo anno.0

IL NATALE NELLA CULTURA E NELLA TRADIZIONE SARDA

IL NATALE NELLA CULTURA E NELLA TRADIZIONE SARDA
di Francesco Casula
Nella tradizione sarda, quando la civiltà industriale e commerciale ancora non aveva soppiantato quella contadina e agropastorale, il Natale costituiva un importante e significativo momento di aggregazione, ideale per ribadire e talvolta ripristinare la coesione del nucleo familiare temporaneamente incrinata dai vincoli derivanti dal lavoro in campagna. Il Natale basato sul messaggio di fede e speranza, si contrapponeva positivamente alla solitudine degli altri periodi dedicati alla produzione del reddito, quando, per molti mesi all’anno, il capo famiglia era costretto a vivere in freddi ricoveri di montagna, lontano dalla propria casa e dai propri cari. Il momento cardine che sanciva la ricomposizione di ciascuna famiglia e la ripresa dei contatti umani, era proprio la notte della Vigilia, definita dalla tradizione Sa notte ’e xena (notte della cena). In quest’occasione, il caminetto rappresentava il centro delle attività di ciascuna famiglia e, quindi, il punto di emanazione del calore necessario a mitigare le fredde temperature invernali. Per questo motivo, era consuetudine predisporre per le festività natalizie, un grosso ceppo appositamente tagliato e conservato Su truncu ’e xena o cotzina ’e xena. Un’atmosfera descritta in “Miele Amaro”, ripensando alla sua Orotelli, da Salvatore Cambosu: «Certo, ci vuole proprio un villaggio perché un bambino come Gesù possa nascere ogni anno per la prima volta. In città non c’è una stalla vera con l’asino vero e il bue; non si ode belato, e neppure il grido atroce del porco sacrificato, scannato per la ricorrenza. In città è persino tempo perso andar cercando una cucina nel cui cuore nero sbocci il fiore rosso della fiamma del ceppo». Proprio accanto al piacevole tepore emanato dal fuoco l’intero gruppo familiare consumava i prodotti tipici sardi della tradizione pastorale come l’agnello o il capretto arrosto con annesse frattaglie (su trataliu e sa corda), formaggi sardi e salsicce sarde ottenute da su mannale, il maiale allevato in casa. Secondo questa consuetudine i preparativi per la cena iniziavano già nei giorni precedenti la Notte Santa. Al riguardo, la tradizione orale racconta come in quella circostanza il consumo di tutte le pietanze preparate diventasse un obbligo. E proprio per questo motivo, spesso e volentieri, si ammonivano i bambini a mangiare abbondantemente, altrimenti una terribile megera chiamata “Maria Puntaborru” (in alcuni paesi del Campidano) o “Palpaeccia” (in molti paesi dell’interno), avrebbe tastato il loro ventre durante il sonno e se questo fosse risultato vuoto, avrebbe infilzato la loro pancia con uno spiedo appuntito oppure messo sul loro stomaco una grossa pietra per schiacciarlo. Dopo la cena si era soliti intrattenersi ascoltando le storie e gli aneddoti di vita narrati dagli anziani. In alternativa, il momento d’attesa era trascorso facendo ricorso a giochi tradizionali come su barrallicu, arrodedas de conca de fusu, punta o cù, cavalieri in potu, tòmbula, matzetu e set’è mesu in craru. Con l’avvicinarsi della mezzanotte, i rintocchi delle campane avvisavano la popolazione dell’imminente inizio della “Messa di Natale”, Sa Miss ’e pudda, ovvero la “messa del primo canto del gallo”. In tale circostanza tutte le chiese venivano addobbate con una gran quantità di ceri. L’atmosfera natalizia e l’alta concentrazione di gente che assisteva alla solenne funzione (ad eccezione delle donne in lutto che la notte restavano a casa e partecipavano alla prima orazione del giorno dopo) diventavano spesso fonte di baccano durante lo svolgimento delle sacre funzioni religiose e, in alcuni casi, capitava addirittura di udire archibugiate in segno di giubilo provenienti dal portone o, talvolta, dall’interno della chiesa stessa. Ne è testimonianza ciò che accadde in occasione del Natale del 1878, quando, all’ora dell’elevazione dell’ostia, uno dei barracelli presenti al rito sparò una schioppettata nel presbiterio, cosicché il parroco sbigottito dovette affrettarsi a finire le funzioni religiose prima dell’ora stabilita. A tal proposito la Chiesa, già dal lontano passato, aveva sempre lamentato il perpetuarsi di questi inconvenienti, tant’è che i Sinodi di Cagliari degli anni 1651 e 1695, ad esempio, davano indicazioni ben precise al Clero locale, affinché: «… si vietino il chiasso e la gran confusione che si creano in chiesa in occasione delle grandi feste e … le notti di Natale, Giovedì e Venerdì Santo, … non si permetta il lancio di noccioline, nocciuole, dolci, ecc., … né si sparino archibugiate all’interno della chiesa, anche se per festeggiare il Santo. E se sarà necessario si invochi l’aiuto del braccio secolare per scongiurare questi eccessi». In Barbagia non mancano tradizioni specifiche riferibili alle feste natalizie e di fine anno. A Bitti fino all’Epifania Su Nenneddu (un’antica piccola statua di Gesù Bambino) viene accolto di casa in casa (emigrati compresi) con canti e preghiere. Ancora a Bitti il 31 dicembre al termine del Te Deum il parroco si affaccia alla finestra della chiesa per lanciare Sas Bulustrinas, monetine e caramelle che scatenano la caccia dei bambini. Bimbi protagonisti anche a Orgosolo nella mattinata di San Silvestro quando viene ancora riproposta Sa candelarìa: gruppi di bambini girano di casa in casa per ricevere piccoli regali tra cui un pane tipico preparato per l’occasione. La notte tocca poi agli adulti che fanno visita alle coppie che si sono sposate nell’anno moribondo.
 
 
 
 
 
 
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L’UNITÀ D’ITALIA? contronatura

L’UNITA’ D’ITALIA? Contronatura.

di Francesco Casula

Scrive Francesco Abate nel suo ultimo bel romanzo*: ”Il maestrale è un vento metodico, soffia secondo sequenze dispari e mai pari. In genere, nel Sud dell’Isola, può imperversare per uno, tre o cinque giorni. Di rado si spinge a far sentire il suo freddo e possente respiro per una settimana di fila. Secondo gli esperti, da che si aveva memoria, solo nel 1861 si accanì con violenza su Cagliari, iniziando domenica 17 marzo e decidendo di farla finita addirittura nove giorni dopo. Sembrava volesse sradicare la città dalle fondamenta. Il fenomeno fu letto come un segnale di indisposizione della natura nei confronti delle scelte umane: il giorno prima sabato 16 marzo, infatti, dopo sei secoli il Regno di Sardegna era morto per fare spazio a quello d’Italia”.
Si dirà che si tratta di un romanzo. Certo. E se ormai a fare gli storici e gli storiografici seri, fossero rimasti solo i romanzieri, essendo gli storici di professione impegnati a mistificare la storia? Rendendola rassicurante e oleografica e, dunque falsa?
E come spiegare che anche molti intellettuali federalisti italiani sostengano, come Francesco Abate, che l’unità d’Italia sia stata “contronatura”?
Scrive Francesco Ferrara, siciliano di Palermo: “ La grande utopia del secolo è questa delle fusioni: nulla di più agevole che congiungere e assimilare in belle frasi scappate nel calore di una improvvisazione politica….ma nulla di più puerile che l’illudersi sull’effetto reale delle belle frasi. Nella natura materiale non si combinano che molecole affini. Nella natura umana, se vi ha mezzo di combinare due popoli, è quello di non sforzarne le specialità”.
E a proposito dei sardi e della Sardegna scrive: “La Sardegna è una specialità alla quale ciò che di più pernicioso può farsi è il volerla costringere ad una assimilazione completa di forme, contrastate a ogni passo dalla natura. Il Piemonte nella sua condizione di possessore di un’isola, può dirsi già fortunato dell’avere incontrato nel buon senso dei Sardi una docilità, anzi una vogliosità di fusione, che non è molto agevole rinvenire nell’indole dell’isolano; ma non ci illudiamo perciò: una nota di gratitudine, uno slancio di patriottismo non bastano a mutare il suolo, il clima, il carattere, i bisogni, le attitudini individuali e produttive, il dialetto, le conseguenze di un lungo passato”.

*Francesco Abate, Il mistero della tonnara, Einaudi, 2023, pagina 287.L