C’era un padre

Nel film Viaggio a Tokio,  la coppia di   anziani genitori venuta a Tokio per visitare i figli, viene  convinta da loro a soggiornare ad Atami
Nel film Viaggio a Tokio, la coppia di
anziani genitori venuta a Tokio per visitare i figli, viene convinta da loro a soggiornare ad Atami

Le pagine che seguiranno sono state prese e liberamente punteggiate da un testo scritto dall’autore nipponico Inoue Yasushi che si intitola “Ricordi di mia madre”. All’inizio del libro, prima di passare al racconto degli ultimi anni della madre affetta da demenza senile, l’autore si sofferma sulla figura dell’anziano padre morente. Mi colpiva la delicatezza con cui è tratteggiata la figura del padre e come sono descritti gli ultimi ricordi di lui. Riportandoli l’autore pare scoprire, forse per la prima volta, l’enorme valore di ciò che in maniera quasi impercettibile egli gli ha trasmesso. E di ciò si coglie un’eco di gratitudine commossa e di un’intimo stupore uniti però al riserbo e al pudore tipici di quella cultura. Le immagini invece sono state tratte dal film “C’era un padre” del grande regista giapponese Yasujiro Ozu e da altri suoi film che celebrano i valori della società tradizionale quali i legami familiari, il sacrificio e la dedizione attraverso la fedeltà ai propri compiti esistenziali come il lavoro e l’attraversamento allo stesso tempo mite e dignitoso delle avversità e delle prove della vita… Il contesto storico che viene raffigurato riguarda gli anni che hanno attraversato e sono seguiti al secondo conflitto mondiale, crogiolo di potenti trasformazioni sociali. (D. Bersan)

“L’ultima volta in cui lo vidi gli dissi, salutandolo, che stavo per ritornare a Tokio, ma che dopo due o tre giorni sarei stato di nuovo accanto a lui; mio padre sollevò da sotto la coperta la mano destra, magra e consunta, e la tese verso di me. Prima di allora non aveva mai fatto un gesto così, e non riuscii a capire che cosa desiderasse. Presi la sua mano nella mia. Me la strinse.

Le nostre due mani rimasero per un istante unite, ma subito ebbi l’impressione che la mia fosse stata debolmente respinta. La stessa impressione che si prova pescando, quando la punta della lenza vibra leggermente. Colto di sorpresa, allontanai la mano da quella di mio padre. Non capivo come, ma in quel gesto avevo intuito, sia pure per un attimo, la volontà di mio padre. Ebbi la gelida impressione di essere stato io a prendergli con troppa confidenza la mano, e che lui mi avesse respinto, quasi a dirmi: “Non è il momento di scherzare”.

Quell’evento rimase a lungo impresso dentro di me dopo la morte di mio padre. Trascorsi molto tempo a riflettere, tormentato dagli scrupoli. Forse mi aveva teso la mano, in un’ultima espressione di affetto paterno, perché si sentiva vicino alla morte. Forse nell’attimo in cui aveva stretto la mia mano aveva provato un’improvvisa ripulsa per quel moto spontaneo, e l’aveva ritratta. Spiegazione plausibile anche questa. Anzi, mi pareva la più naturale. O forse mio padre aveva avvertito qualcosa di sgradevole nel modo in cui io rispondevo alla sua stretta e immediatamente aveva annullato la dimostrazione d’affetto che stava per darmi, allontanando la mia mano.

Comunque era indubbio che, con quella impercettibile ripulsa, aveva riportato alla distanza di sempre il rapporto stretto fra noi in quell’attimo. Ero contento che si fosse comportato in modo consono al suo carattere, ma d’altro canto non riuscivo a dissipare il dubbio di averla respinta io, la sua mano. Forse era stato lui ad allontanare la mia, ma se fossi stato io? Forse quella sensazione gelida era assolutamente ignota a mio padre, ero stato io ad avvertirla e a provocarla. Non avevo alcuna prova per confutare quell’ipotesi. Forse avevo pensato: “in un momento simile non è da te mostrarti bisognoso d’affetto. Non devi tendere la mano a me che sono tuo figlio”. Può darsi che questo pensiero mi avesse indotto a respingere la mano che mio padre mi tendeva.

La mia mente non trovava requie, ne soffrivo in modo atroce. Ma un giorno riuscii a liberarmi di quei pensieri tormentosi. La liberazione giunse improvvisa e senza preannuncio quando mi balenò alla mente l’idea che anche mio padre stesse meditando nella tomba su quell’impercettibile contatto, ignoto a tutti fuorché a me e e lui, e fosse tormentato dai miei stessi pensieri. Forse nell’altro mondo stava riflettendo, proprio come me, su quell’incidente. Fantasticando su tale ipotesi provai la sensazione di essergli figlio come mai avevo sentito quand’era in vita. Ero suo figlio, e lui mio padre.”

CON IL SUO VIVERE MI AVEVA PROTETTO

“Dopo la morte mi assalì, a volte, il timore di assomigliargli. Quand’era in vita non me n’ero mai accorto, e chi mi era accanto immaginava che io avessi un carattere del tutto differente. Dagli anni della scuola e dell’università avevo sempre cercato di farmi una mentalità opposta alla sua, mi ero prefisso di vivere in modo a lui contrario; e comunque non si poteva affermare che io e mio padre ci assomigliassimo. Fin da giovane ebbe un temperamento da misantropo, io invece mi sono sempre circondato di amici; da studente ero campione sportivo e stavo di continuo tra gente allegra e festosa.

Rimasi in tale disposizione d’animo anche dopo l’università, qund’ero ormai inserito nella vita sociale; all’età in cui mio padre aveva iniziato la sua vita ritirata non mi sfiorava neppure l’idea di isolarmi come lui e di andare a vivere al paese. Superati i quarant’anni, lasciai il giornale e iniziai una nuova vita come scrittore, proprio nel periodo in cui mio padre decideva di tagliare i ponti con la società. Ma dopo la sua scomparsa incominciai ad avvertirne in me la presenza. Nei momenti più inattesi. Per un nonnulla. Per esempio, quando volevo scendere dalla veranda in giardino, mi muovevo come lui, cercando con un piede i sandali. Come lui aprivo il giornale, in soggiorno, e ne scorrevo i titoli curvo in avanti.

Mi capitò di accorgermi, mentre prendevo il portasigarette, che stavo replicando un gesto identico al suo, e lo lasciai istintivamente ricadere. Tutte le mattine davanti allo specchio del bagno mi rado il viso con il rasoio di sicurezza, poi lavo nell’acqua corrente il pennello insaponato e ne strizzo la punta con le dita: mi domando se siano i medesimi gesti di mio padre.

Riuscivo a tollerare di assomigliargli nelle abitudini e nei gesti, ma mi urtava l’idea che potessi avere le sue stesse opinioni. Mentre lavoro sono solito allontanarmi ogni tanto dal tavolo, e sedermi in veranda su una poltrona di giunco, e immergermi in pensieri incoerenti assolutamente estranei al lavoro: da lì contemplo il vecchio olmo che protende i suoi rami nelle quattro direzioni. Identica abitudine aveva mio padre quando dalla poltrona di giunco sulla veranda di casa, al paese natale, contemplava i rami degli alberi. D’un tratto mi sentii come sull’orlo di un abisso. Provavo un’emozione profonda considerando che forse anche a mio padre era accaduto di precipitare nei pensieri in cui io ero immerso adesso.

Mi accorgevo così di quanto lui sopravvivesse in me, e sempre di più pensavo all’essere umano che chiamavo padre. Lo avevo sovente di fronte a me, e con lui discorrevo. Soltanto dopo la sua morte compresi come, da vivo, si fosse assunto il compito di proteggermi dalla morte. Un tempo avevo, pur se in modo inconsapevole, la sensazione che niente potesse succedermi perchè mio padre viveva, un tempo non pensavo mai all’eventualità della mia morte. Ma da quando lui era mancato, erano cadute tutte le barriere tra la morte e me, lo spazio era più largo e la visuale più aperta: era ormai inevitabile che io scorgessi l’oceano della morte.

Sapevo che sarebbe venuto il mio turno, ma me ne resi conto solo dopo la morte di mio padre. Con il suo vivere mi aveva protetto. Non che lui ne fosse consapevole, non era una questione di sollecitudine umana, o di affetto tra genitori e figli, ma il risultato del semplice fatto che si fosse padre e figlio, il senso più genuino di questo rapporto.”

images (5)

C’era un padreultima modifica: 2019-09-07T00:17:21+02:00da david.1960