Music box – Qualcosa che non c’è

“Tutto questo tempo a chiedermi cos’è che non mi lascia in pace

Tutti questi anni a chiedermi se vado veramente bene così come sono, così

Così un giorno ho scritto sul quaderno io farò sognare il mondo con la musica

Non molto tempo dopo quando mi bastava fare un salto per raggiungere la felicità

E la verità è ho aspettato a lungo qualcosa che non c’è invece di guardare il sole sorgere

Questo è sempre stato un modo per fermare il tempo e la velocità

I passi svelti della gente, la disattenzione, le parole dette senza umiltà

Senza cuore così, solo per far rumore

Ho aspettato a lungo qualcosa che non c’è invece di guardare il sole sorgere

E miracolosamente non ho smesso di sognare

E miracolosamente non riesco a non sperare

E se c’è un segreto è fare tutto come se vedessi solo il sole e non qualcosa che non c’è

Elisa

In questa mia rubrica, Elisa non poteva mancare. La sua voce intensa, la profondità dei testi, la musica coinvolgente, sono tutti elementi che la rendono semplicemente unica.

Qualcosa che non c’è” è un brano pubblicato nel 2006 nel primo greatest hits di Elisa. Scritto a seguito di un periodo di blocco creativo, è un chiaro invito ad amare semplicemente tutto ciò che la vita ci pone davanti, senza aspettare qualcosa che non arriverà mai. Non significa smettere di sperare o sognare, ma sapere cogliere il momento giusto per raggiungere la vera felicità, lasciandosi andare senza intestardirsi nel cercare grandi cose.

Un messaggio di ricerca di una vita semplice e autentica.

Aforismi – Vivere in eterno

Cani abbaiano alla luna, galli cantano, ranocchie gracidano, le stelle in cielo guardano dall’alto e ammiccano, e Dio stesso si appisola tra le nubi. L’Onnipotente è vecchio, non è una cosa da nulla vivere in eterno“.

La citazione è tratta dal racconto “La distruzione di Kreshev” di Isaac Bashevis Singer, premio Nobel per la letteratura nel 1978. È la storia, raccontata in prima persona dal maligno che arriva in una piccola frazione polacca, dove insinua lussuria, falsità, adulterio e sacrilegio portando la comunità alla distruzione.

Mi colpisce l’espressione “non è una cosa da nulla vivere in eterno”. Quando ero piccolo e frequentavo le lezioni di religione, mi immaginavo spesso Dio che stava da qualche parte e viveva lì da sempre, tutto solo. Poi, ad un certo punto, stanco di stare da solo, aveva deciso di creare l’Universo, con il Mare, il Cielo, le Stelle e, infine, quell’essere così piccolo che si crede tanto grande e che si chiama Uomo. Cosa avesse fatto Dio fino ad allora per secoli e millenni era un mistero che mi incuriosiva tanto.

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Attualmente, la mia fede va e viene, forse, più che altro, per l’atteggiamento ostico, contraddittorio e spesso paradossale di gran parte della Chiesa. Tuttavia, mi capita spesso di pensare alla possibilità di una vita eterna dopo la morte, anche se mi riesce molto difficile immaginarla concretamente, soprattutto adottando canoni tipicamente umani. Anzi, a dire il vero, l’eternità, qualunque forma essa abbia, mi spaventa un poco.

Quando si parla di vita eterna e immortalità, mi vengono in mente anche i santoni dell’Himalaya, che vivono ad alta quota, in perfetta solitudine, dediti alla meditazione e alla preghiera. A questi santoni viene attribuita un’età molto più avanzata di qualsiasi essere umano, anzi pare che siano stati visti ad intervalli di secoli sempre con il medesimo aspetto.

Si tratta, ovviamente, di una leggenda, così come è una leggenda quella dei vampiri, che nella letteratura fantasy sono dipinti come giovani stupendi e immortali, alla continua ricerca di sangue.

Ebbene, dopo aver mischiato il sacro con il profano, non posso fare a meno di pensare che immortalità è anche lasciare qualcosa di sé agli altri, qualcosa in grado di sopravvivere in maniera duratura, oltrepassando i secoli e rimanendo sempre vivo e attuale. I grandi autori come Manzoni, Shakespeare, Goldoni (per citarne solo alcuni) in fondo ci sono riusciti.

Immortalità

In “ricordo” del Presidente Ciampi

È strano come a volte un avvenimento particolare susciti riflessioni inaspettate che, in parte e almeno apparentemente, c’entrano poco con il fatto stesso. La morte di Carlo Azeglio Ciampi, Presidente emerito della Repubblica Italiana, ne è un esempio.

Ciampi ci ha lasciato pochi giorni fa, all’età di 95 anni, e proprio ieri si sono celebrati i funerali, in forma privata, ma con lutto nazionale. L’annuncio della sua morte è stato seguito da immancabili manifestazioni di cordoglio, trattandosi di una figura importante che ha avuto un ruolo di primo piano nel processo che ha portato l’Italia ad entrare nell’Unione monetaria, con l’adozione dell’euro.

Ma, ovviamente, non tutti erano lì a stracciarsi le vesti. L’adorabile Salvini, con il suo savoir-faire da scaricatore di porto (con tutto il rispetto per chi svolge questa mansione), non poteva risparmiare i suoi soliti improperi definendo Ciampi “un traditore dell’Italia”. E qui parte la prima riflessione.

Premetto che, a mio avviso, il rispetto per i defunti non implica necessariamente la loro santificazione, nel senso che non bisogna parlare forzatamente bene di una persona solo perché è morta. Ci si può limitare a tacere, evitando sia atti di inutile ipocrisia che pubbliche offese verso qualcuno che in vita ci piaceva poco.

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Credo, però, che Salvini avesse ben altri motivi per tacere. Come sottolineato dal mio giornalista preferito Michele Serra, è singolare che il capo di un partito, il cui principale obiettivo è la secessione della Padania dallo Stato Italiano, (con palese violazione del principio costituzionale di unità della Repubblica), si spertichi in accuse di tradimento nei confronti dell’Italia. Le offese nei confronti dei meridionali, la creazione dei Ministeri a Monza, il boicottaggio dell’Inno dei Mameli e tante altre perle imporrebbero un decoroso silenzio da parte di politici che continuano a prendere soldi dall’odiato Stato italiano.

Ma come diceva Niccolò Tommaseo, “chi sa tacere, sa anco parlare a tempo”.

La seconda riflessione, invece, riguarda le “morti bianche”. Il caso ha voluto, infatti, che contestualmente alla morte di Ciampi si verificassero due gravi incidenti sul lavoro. Un operaio venticinquenne è morto all’Ilva di Taranto, schiacciato da un rullo, mentre un operaio ATAC di 53 anni è morto folgorato su un treno Roma – Viterbo.

Oltre a queste tremende notizie, mi ha colpito un commento di un utente di Facebook che, pur esprimendo cordoglio per la morte di Ciampi, si sentiva molto più rattristato per gli operai morti che di certo non avrebbero avuto lutto nazionale o bandiere a mezz’asta.

Francamente, io non riesco a dare molta importanza alle bandiere a lutto. Ritengo che il lutto nazionale sia un atto simbolico, certamente dovuto dalle Istituzioni nei confronti di soggetti che hanno ricoperto cariche pubbliche importanti, come, appunto, il Presidente Ciampi.

Ma le morti bianche costituiscono un’assurda tragedia che deve pesare sulla coscienza di chi non garantisce l’applicazione di misure di sicurezza sul lavoro. Quindi, più che il lutto nazionale, che a volte serve solo a lavare le coscienze, le Istituzioni dovrebbero dare alle famiglie delle vittime risposte ad una sola domanda: chi sono i responsabili e pagheranno per la morte di quegli operai?

Morti bianche

Music box- Il pescatore di asterischi

“C’è un quaderno che nascondo, ma non ho mai scritto cosa sei per me

perché è facile, tu mi leggi dentro io no

se gli errori li cancello, resta la peggior calligrafia

che ho avuto in vita mia, nuda lì sul foglio

io sono un pescatore di asterischi, sotto un’onda a forma di parentesi rotonda che mi porta via

non si può partecipare subito a un concorso di poesia

che idea intitolarlo apnea, vale un primo posto

in questo gioco di pensieri sporchi, sopra un letto prima di abbracciarti

mi connetto e penso insieme a te

i tuoi capelli neri a punta d’inchiostro si aggrovigliano ai miei

io polipo tu seppia

non vuoi farti mangiare però, nella vita c’è sempre un però

un cielo che si appoggia sul mare e tu impari chi sei

come giocolieri esperti, tutto il tempo a cercare il senso gravitazionale che non c’è”

                                                                                 Samuele Bersani

Il pescatore di asterischi” è un brano scritto e cantato da Samuele Bersani, pubblicato nel 2000 come secondo singolo tratto dall’album “L’oroscopo speciale”.

A mio avviso, è una delle canzoni migliori di Samuele, un cantautore particolare e, a volte, un po’ ermetico.

Inizialmente, ho avuto come la sensazione di ascoltare una favola, accompagnata da una musica delicata e piacevole, ma, poi, ho potuto apprezzare la profondità di un testo caratterizzato da numerose metafore.

Il quaderno rappresenta la vita, in cui ci sono tanti errori che non possono essere cancellati, in quanto rappresentano esperienze importanti per poter andar avanti. Senza questi errori, infatti, rimane “la peggior calligrafia” mai avuta, una perfezione ideale e irraggiungibile,  in quanto non ci si può illudere di arrivare subito alla propria meta, “non si può partecipare subito a un concorso di poesia”. Siamo, infatti, come giocolieri che possono cadere ogni tanto, ma imparano dalle proprie cadute.

Il brano è, quindi, un invito a vivere in piena libertà, a godere della vita, senza cercare di dare un senso ad ogni cosa e sprecare il tempo a cercare “il senso gravitazionale che non c’è“. Un invito che, personalmente, mi riprometto sempre di seguire, anche se a volte le mie paure e paranoie hanno il sopravvento.

Vita di metropolitana

Incominciata quasi dieci anni fa, la mia “vita di metropolitana” nella Capitale mi ha sempre offerto interessanti spunti di riflessione.

Il mio ingresso in banchina già suscita una prima domanda cruciale: ma quanto dura un minuto? Almeno quello indicato sul tabellone luminoso sembra protrarsi per un’eternità!

Sempre che io riesca ad arrivare in banchina. A volte, arrivo davanti al cancello e trovo un interessante avviso di chiusura per sciopero. Consapevole che avrei dovuto informarmi prima (ma gli avvisi spesso mi sfuggono), mi affido alla sorte e alla trafila degli autobus immersi nel traffico impazzito, sempre che alcuni autisti abbiano avuto la bontà di non scioperare.

Ma poniamo il caso (fortunatamente abbastanza frequente) che io riesca a giungere in banchina. Non appena il tabellone miracolosamente segnala l’arrivo del treno, ecco che il mezzo comincia a fare capolino …. certo, a volte sfreccia via senza fermarsi, con l’autista che fa “ciaone” con la manina, ma quello successivo si ferma.

A quel punto inizia l’attento studio della varia umanità che popola la metropolitana. Ormai, comunque, si incontrano le stesse tipologie di persone che possono essere tranquillamente divise in categorie.

Anziutto, ci sono gli “Eterni Frettolosi” che temono che il treno sfugga loro di mano ed entrano con furia senza aspettare che gli altri escano dal vagone, travolgendo tutti, con inevitabili improperi.

Poi, arrivano puntualmente gli “Urlatori” che hanno come obiettivo principale quello di fare conoscere a tutti ogni intimo dettaglio della loro vita, tenendo al cellulare lunghi ed enfatici monologhi. In questa categoria, emergono chiaramente il “Professionista” che elargisce con grande cura e meticolosità aspetti della propria professione (inclusi quelli un po’ più riservati!!) e l'”Arrabbiata” che è appena uscita da una non meglio identificata delusione.

Ma ecco che a deliziare il viaggio, spunta all’orizzonte l'”Uomo puzzola” che ha, evidentemente, deciso di scioperare contro ogni forma di modernità e artificiosità, inclusi saponi e deodoranti, per poter serenamente abbracciare in modo autentico Madre Natura (che forse potrebbe decidere di fuggire!).

Intanto, lo “Stanco morto” che non ha trovato un posto a sedere, decide di abbarbicarsi al palo cui dovrebbero reggersi anche altri avventori, schiacciando e scacciando altre manine, mentre la “Mamma Rampante” munita di passeggino con a bordo l’erede ha deciso di puntare qualche piede.

Ecco, però, la mia fermata… alla prossima!

Metro

La vergogna di chi dice “se l’è cercata”

“Se l’è cercata”. Per quanto tempo ancora dovremmo sentire questa frase assurda, che come un marchio infuocato, si imprime nell’anima di una vittima innocente, facendola sentire ancora più sporca e ferita dopo una violenza?

L’episodio accaduto di recente in un paese in provincia di Reggio Calabria ci fa precipitare nuovamente in una situazione tristemente familiare: violenze sessuali perpetrate per anni vengono riportate alla luce, ma i compaesani, chiusi nella loro retrograda mentalità, invece che solidarizzare e sostenere la vittima, la accusano di essersela cercata, di non saper stare al suo posto, disertando, addirittura, la fiaccolata organizzata per lei. Tutto questo, a mio avviso, perché i colpevoli sono persone “rispettabili”, figli di marescialli, fratelli di poliziotti, persone da difendere nonostante tutto.

Mi viene sempre in mente un episodio accaduto più di un anno fa a Roma. Una ragazzina venne violentata in un quartiere “per bene” romano in tarda serata. Inizialmente, si pensava fosse stato un immigrato, con gli inevitabili commenti razzisti. Poi si scoprì che era stato, invece, un militare italiano in libera uscita, che evidentemente aveva bisogno di un diversivo. Ovviamente, l’opinione pubblica non poté fare a meno di cambiare il proprio punto di vista sui fatti accaduti, per cui ogni colpa venne addossata alla ragazza.

E così passano gli anni, ma il pensiero rimane lo stesso: la colpa è sempre della vittima, che con il suo comportamento inadeguato, attira solo guai. Almeno, secondo quella mentalità retrograda maschilista e – io aggiungerei – omofoba, che purtroppo è molto diffusa nel nostro Paese.

In fondo, la situazione di una vittima di stupro, per certi aspetti, non è così lontana da quella di una donna che subisce violenza fisica o psicologica da parte del proprio compagno e che, magari, viene convinta di essere l’unica colpevole e di meritarselo. Oppure, di ragazzi gay vittime di atti di bullismo o di omofobia, magari per colpa di un bacio innocente che viene considerato inadeguato. All’indomani della strage di Orlando, molti “opinionisti” la pensavano così.

Di fronte ad una mentalità che colpevolizza la vittima sempre e comunque, a cosa servono le norme per contrastare la violenza, il femminicidio, l’omofobia? Sicuramente, se non accompagnate da una certa sensibilizzazione, rischiano di diventare atti privi di valenza pratica, vuoti e inutili.

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Aforismi – Ricchezza e salute

“La ricchezza non è tutto, ma è molto meglio della salute. Dopo tutto, non è che si possa andare dal macellaio e dire: “Guardi che bell’abbronzatura che ho, e non solo, ma non prendo mai un raffreddore”,  e aspettarsi che vi incarti un filetto (a meno che il macellaio non sia completamente idiota)”

                                                                                                               Woody Allen

L’ironia di Woody Allen è sempre superlativa, oltre che fonte di interessanti riflessioni. In particolare, questa sua battuta si adatta agevolmente a vicende italiane, anche recenti.

Che la ricchezza non sia tutto è un luogo comune, ma di sicuro sta diventando sempre più una condizione necessaria per la salute. Come dice Allen, la ricchezza è molto meglio della salute, ma proprio perché la seconda sembra non poter più prescindere dalla prima.

Il sistema sanitario pubblico italiano, in molte Regioni, nel corso degli anni ha visto contrarre notevolmente la tutela dei livelli essenziali di assistenza. Se lasciamo da parte alcune Regioni del Nord (Valle d’Aosta, Friuli Venezia Giulia, Province di Trento e Bolzano) che garantiscono cure decisamente maggiori, nelle altre realtà regionali le prestazioni mediche garantite dal sistema sanitario sono molto ridotte. Con ospedali affollati e fatiscenti, lunghe liste di attesa per esami e visite di controllo, coloro che hanno buone disponibilità economiche decidono di rivolgersi a strutture private, gli altri non possono che affidarsi alla buona sorte.

E fin qui, parliamo di vicende tristemente note. Poi, però, le notizie diffuse in questi giorni sulla condanna per frode della casa farmaceutica italiana, la Menarini di Firenze, ci fanno capire che la realtà è di gran lunga peggiore.

La Menarini per quasi trent’anni avrebbe perpetrato una colossale frode ai danni del sistema sanitario nazionale, usando società estere fittizie per l’acquisto dei principi attivi dei farmaci, per poi aumentarne il prezzo finale grazie a una serie di false fatturazioni. Lo Stato avrebbe, quindi, rimborsato in questi anni medicinali con prezzi gonfiati con un danno di 860 milioni di euro. In poche parole, i vertici della Menarini hanno sottratto risorse al Sistema sanitario pubblico, che sarebbero state utilizzate altrimenti per assistere pazienti gravemente malati, condurre ricerche scientifiche per la scoperta di nuove cure o ristrutturare ospedali.

Quindi, parafrasando Woody Allen, questi soggetti hanno certamente ritenuto che la loro ricchezza fosse molto meglio della nostra salute. Pagheranno davvero per tutto ciò?

STAINO-SANITA

Il discorso del Re

Nell’immaginario collettivo, i monarchici sono spesso raffigurati come personaggi autoritari e conservatori, incapaci di comprendere le reali esigenze della popolazione, ancorati al passato.

Non a caso il passaggio dalla Monarchia alla Repubblica in molti Paesi è stato considerato come il momento cruciale di apertura verso forme di tutela dei diritti civili e di partecipazione democratica alle decisioni collettive.

Ma poi arriva il Re di Norvegia che con il suo discorso spiazza tutti. Non un monologo compassato e formale, ma un discorso appassionato e autentico, rivolto ai diritti gay, al rispetto delle diverse religioni e dell’ateismo, agli immigrati. Il nucleo essenziale del discorso del Re è “siamo tutti Norvegesi”.

Il video ha avuto tantissime condivisioni e qualche critica da parte di chi parla di populismo, ma, in fondo, parole così belle e sentite, pronunciate da un monarca evidentemente illuminato (a capo, ricordiamolo, di una monarchia parlamentare), dovrebbero far riflettere tanti altri leader “democratici”.

Donald Trump, in corsa per le elezioni presidenziali in America, parla di espellere tutti gli islamici e mostra di non avere alcun interesse a tutelare i diritti gay.

Matteo Salvini, leader leghista, oltre ad avere la ferma intenzione di affondare i barconi degli immigrati e di travolgere chiunque con la sua ruspa, vorrebbe far abrogare la legge sulle unioni civili, che da poco ha portato un piccolo barlume di civiltà nel nostro Paese.

Tutto questo in un clima di intolleranza e di fanatismo, in cui il riconoscimento dei diritti in favore di qualcuno sembra costituire pregiudizio per altri e le unioni civili sono addirittura accusate di essere causa di punizioni divine e terremoti.

Invece, Re Harald, con le sue parole, ha semplicemente mostrato di amare il suo popolo, a prescindere dalla religione, dalla razza, dall’orientamento sessuale e, soprattutto, a prescindere dai consensi.

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Music box – Il negozio di antiquariato

Non si può cercare un negozio di antiquariato

in via del Corso,

ogni acquisto ha il suo luogo giusto

e non tutte le strade sono un percorso.

Raro è trovare una cosa speciale

nelle vetrine di una strada centrale,

per ogni cosa c’è un posto

ma quello della meraviglia

è solo un po’ più nascosto.

Il tesoro è alla fine dell’arcobaleno

e trovarlo vicino, nel proprio letto

piace molto di meno.

                                                                                                                                     Niccolò Fabi

Inauguro questa rubrica dedicata ai miei brani musicali preferiti con una splendida canzone di Niccolò Fabi, “Il negozio di antiquariato“, tratta dall’album “La cura del tempo” del 2003.

Nel brano viene citata la famosa Via del Corso, una strada romana dedicata allo shopping e alle passeggiate durante il tempo libero, piena di negozi in cui poter acquistare abbigliamento o profumi di marche famose. Di certo non oggetti rari o speciali come quelli che, invece, potremmo trovare in un negozio di antiquariato, magari in una strada più nascosta e meno affollata.

Infatti, il posto della meraviglia “è solo un po’ più nascosto“, perché se si trovasse in un posto più affollato e visibile a tutti non sarebbe più tale, non riuscirebbe più a stupirci. Le cose migliori, in grado di procurarci stupore e meraviglia, vanno, quindi, cercate lontano, senza fretta, come cercare l’ombra in un deserto. Perché, come conclude Fabi, “l’argento sai si beve ma l’oro si aspetta“.

Oggi siamo ancora in grado di meravigliarci, di rifugiarci in posti lontani per cercare qualcosa di speciale? Ci dovremmo provare ogni tanto, anche se forse  siamo troppo abituati a tutte quelle cose che abbiamo a portata di mano  e da cui non riusciamo a separarci, perché ci fanno sentire più sicuri.

Il diritto a riappropriarsi della propria vita

Una massima che tutti conosciamo molto bene è “si lavora per vivere, non si vive per lavorare“. Potrebbe apparire scontata ai più, forse, ma di fatto viene molto spesso disapplicata.

Ci lasciamo prendere dalle incombenze lavorative, prolunghiamo l’orario di ufficio oltre l’umana sopportazione, magari ci portiamo il lavoro a casa. Tutto questo, per tentare di raggiungere i nostri obiettivi, ottenere un avanzamento di carriera o semplicemente fare bella figura con il capo che conta su una squadra efficiente, più che altro per alimentare il proprio prestigio. La continua disponibilità genera maggiori aspettative con un aumento delle pressioni e dei carichi di lavoro, il classico serpente che si morde la coda.

A prescindere dalla capacità di raggiungere i nostri obiettivi, il nostro tempo libero diventa inesistente, diviene impossibile dedicarsi ai propri affetti e ai propri interessi.

Ho sempre detestato l’idea di poter essere reperibile al di fuori dell’orario di lavoro: la possibilità che qualcuno possa chiamarmi, mandarmi messaggi o e-mail anche nel fine settimana e che io debba essere costretto a rispondere mi pone in uno stato di continua angoscia, come se mi sentissi perseguitato.

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Tuttavia, poche ore fa ho letto una notizia davvero interessante, secondo cui la Francia sarebbe uno dei primi Paesi ad aver varato una legge che fissa un nuovo principio per tutti i dipendenti: staccare telefono e computer, non rendersi sempre reperibili. In pratica, la legislazione francese avrebbe sancito il “diritto alla disconnessione“, da applicare concretamente mediante accordi tra imprese e sindacati. Principio che dovrebbe essere adottato anche in Italia, sebbene tempi di approvazione del disegno di legge e criteri applicativi non mi siano noti.

La notizia mi consola, ma nello stesso tempo suscita in me alcune perplessità. Il diritto ad essere disconnessi fuori dell’orario di lavoro, anche senza norme specifiche, doveva essere il risultato di una scelta di buon senso di aziende e lavoratori. Questi, invece, sono i primi a “trasgredire“, a quanto pare.

Dunque, siamo al paradosso di uno Stato che deve stabilire per legge cosa non deve fare un lavoratore nel tempo libero. D’altronde, se noi siamo i primi a non pensare a noi stessi.

In ogni caso, mi chiedo cosa accadrà alla resa dei conti: aziende e sindacati riusciranno a trovare un accordo su come i dipendenti devono gestire il proprio tempo libero?

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