Chiamatemi Ismaele

L’Isola è una concrezione dello spazio, l’intersezione di un fascio anonimo di meridiani eparalleli che si fa roccia e terra, una tumefazione del mare, sbrindellata di insenature come una vecchia mappa: corrosa di golfi, frastagliata di scogliere, chiusa in se stessa, nemica al mondo e al mondo ignota se non per antiche tracce che vanno scomparendo dalla memoria degli uomini.
Le rotte che l’attraversano sono un crocevia di ossessioni che hanno l’inquietudine come
merce di scambio e che vengono variamente indicate da parole che cambiano di significato come un serpente la pelle; parole ingannevoli, falsamente definitive che rimbalzano da un orecchio all’altro amplificandosi di ricchezze sempre più favolose. Oro, argento, pietre, sfumano nel sempre meno definito via via che le concupiscenze si fanno più grandi e per uomini alle cui menti l’incalcolabile inizia dopo qualche migliaio, l’Infinito prende il nome di Tesoro, l’unica effemeride che presieda da sempre al culminare e spesso al declinare delle loro vite.
E l’infinito, lo smisurato di cui oscuramente si percepisce il Tesoro stesso non essere che una pallida risonanza, diventa un’oppressione del cuore ogni volta che lo sguardo incrocia l’orizzonte limitato dalle sagome di agili tre-alberi alla fonda, neri contro il cielo nero in una notte come questa, raggiata di stelle d’impensate magnitudini.
Il mare è tranquillo, lo sciabordìo delle onde che si allungano sulla battigia fin quasi a sfiorare i primi lentischi è una nenia sonnolenta ritmata dallo sbattere dei remi negli scalmi delle scialuppe lungo la Rada del Sonno, dove la risacca riappacifica nel mare fumi di sonni inquieti e veglie smaniose di rotte intentate.

Chiamatemi Ismaele. È un nome buono come un altro, un nome non ignorante di portolani, costellazioni e sestanti; ma anche nome di marrano di una fede mai posseduta, medico di cicliche malarie, cronici scorbuti, tassonomo di tutte le arti conosciute per dare o sfuggire la morte, custode di proteiformi esperienze e sconnesse narrazioni che la mia abitudine al commercio con le parole trasformerà in sapienza, conoscenza o semplicemente nella indispensabile teogonia del mare per chiunque abbia posto l’Oceano a sineddoche dell’Universo.
E di conseguenza, in ultimo, anche insospettato dispensatore di unzioni vicarie per gli agonizzanti, viatici a chi in vita sprezza la forca e irride la morte e il diavolo ma è sempre sul punto di cadere in deliquio per il terrore di una Bibbia calpestata per errore.

Qui, sull’sola, ciascuno seppellisce il Tesoro del proprio passato, il solo che gli sia concesso di possedere in perpetuo; chi tutto intero per smemorarlo in un eterno presente inattaccabile anche dal liquore più bruciante; e chi invece soltanto in parte, conservata dopo cèrnite indecise, sofferte spigolature il cui dolore fioco e sotterraneo quasi mai riesce a farsi coscienza.
Tutti hanno il proprio angolo di memoria e giacché il ricordo è un modo consapevole di sognare, nessuno rimprovererà a nessuno la scelta del nome che sull’Isola farà da specchio deformante alla scheggia di universo riportata da infinite traversate, insieme bottino e zavorra.
Perché l’Isola è la mappa del mondo e noi ne siamo la mutevole Rosa dei Venti.

Di tanto in tanto un vento leggero porta l’eco della voce gracchiante del Capitano Flint e del suo grido di guerra scagliato alle stelle — “Pezzi da otto, pezzi da otto!” — quando il Demone Incubo gli opprime il petto; e quel rauco canto notturno si frange sulla roccia di silenzio di Achab e del suo cannocchiale che occhieggia disperato alle onde screziate dalla luna in cerca del suo sabba di morte.
Da qualche parte, la raucedine di un’armonica tenta una melodia che s’interrompe per ricominciare quasi subito, con una ostinazione che la rende, se possibile, ancora più sgraziata. Sono le poche voci dell’Isola che la notte consente senza esserne violata, voci scorticate dalle profondità che hanno dovuto percorrere per lampeggiare nel buio e subito spegnersi, profondità irraggiungibili da qualunque scandaglio.

Nessuno ci ha esiliati. Nessuna bolla di pontefice ha fatto di noi degli eresiarchi, né chiodo ha inciso i nostri nomi su ostraka di terracotta che ci bandissero, non balivo ha affisso lungo le contrade d’Europa le grida che decretassero per noi perpetua vita randagia.
Qui non ci sono anacronismi perché i mesi, gli anni, li facciamo noi, sono nostri, ci appartengono come dovevano appartenere a Robinson prima che il fatale incontro con Venerdì gli recasse l’ambiguo dono del tempo in cambio della Legge.
Qui il tempo è ancora quello segnato dalle tacche sulle impugnature di coltelli che hanno abbandonato le ossessioni di sangue che il sale ha trasformate in placidi sogni di ruggine.
Robinson, l’apostata di una comprensione estorta alla paura, un privilegio che il pio Jim Hawkins non seppe mai.

Il mio tesoro sta tutto in una scacchiera di alabastro e nei suoi pezzi fusi nel peltro da un anonimo artigiano spagnolo, che me ne fece dono in cambio di una intercessione che gli salvò la vita, al largo di una costa che non serve ricordare ma che pure trova qui, sull’Isola, la sua proiezione.
Ho srotolato con infinta cautela gli strati di panno che l’avvolgono, rivelandone ai guizzi incostanti della lampada a olio la superficie liscia e scintillante, traversata da venature perlacee. L’ho poggiata sulla cassa che fa da tavolo, preparandomi al rito solenne e misterioso della disposizione dei pezzi sulle loro case.
L’artista che con scarso guadagno ha barattato la sua vita con questa scacchiera, ha fatto di ciascun pezzo un’allegoria del nostro destino; e in un modo incognito che percuote la mia ragione ogni volta che il pensiero la attraversa, è riuscito a dotare queste forme di una sorta di profetica maestà, in ragione diretta alla cura con cui ha realizzato l’opera.
Perché figure in forme di uomo e di nave si affrontano in quel simulacro d’universo, come l’Isola conchiuso in se stesso, oltre le cui Colonne d’Ercole d’ebano scuro lavora eterna e silenziosa la clessidra del tarlo.

Ricordo la sorpresa che mi assalì con la violenza di una rivelazione quando, vedendola per la prima volta, osservai che gli umili fanti che si schierano nella seconda fila erano sostituiti da caravelle spagnole fronteggiate da caravelle portoghesi, poggiate orgogliosamente su di una sfera armillare; come a pretendere dal mondo intero un tributo di sottomissione all’arroganza della flotta.
Non è difficile immaginare nelle figure regali con lo scettro e l’ermellino i nomi di Ferdinando il Cattolico e Don Giovanni di Portogallo; così come certamente gli alfieri seduti sugli scranni che stringono nelle mani sestanti e mappe con pensosa severità non sono altri che Colombo e Magellano a contendere in eterno a Vasco De Gama e Pedro Alvares Cabràl la strategia che porterà alla conquista di un nuovo mondo; e i cavalli inquieti dalle froge dilatate, certo portano in groppa la distruzione di Cortés e Pizarro, o l’arroganza di Francisco De Almeida e Alfonso di Albuquerque.
Le sfere che sostengono le caravelle con le loro enormi vele sono saldate al piedistallo in un minuscolo punto, fragile. E infatti, per alcune di esse ha finito con lo spezzarsi, per cui si è costretti a giocare con alcune navi rovesciate ed è impossibile, durante una partita, sottrarsi al fascino orribile di queste immagini di naufragio, non considerare che questa profetica scacchiera ha previsto le sorti dell’Invencible Armada e forse, di qualunque altro giocatore. Un frammento di storia, uno scontro che non troverà mai la sua Tordesillas, era stato fuso nel metallo, perché la battaglia si ripetesse in eterno, antica come il mare, irrequieta come l’uomo.

Passai un certo tempo assorto in partite solitarie, più che altro a studiare la forma squisita dei pezzi, alla ricerca di invisibili imperfezioni, cercando di dare un nome alle architetture sconosciute delle torri avversarie che ancora mi elude: sia di quella spagnola, alta e slanciata, che di quella portoghese, più tozza e larga alla base. Ma il fascino di quelle forme e delle geometrie che si disegnavano sulla scacchiera durante svagate partite contro me stesso, aveva finito con il contagiare anche gli altri. Dapprima accettammo di degradare quelle forme eleganti e aristocratiche al ruolo di pedine di dama, gioco che quasi tutti conoscevano; ma non passò molto che, conquistati dalla complessità del gioco che si intuiva dalla diversità dei pezzi, quasi tutti arrivarono a chiedermi di insegnar loro le regole, certo catturati da quelle navi, da quegli arrembaggi fulminei, senza strage eppure così violenti.

Pochissimi si rivelarono insensibili a questo fascino, il movimento arabescato del cavallo, l’anarchia dell’arrocco, i rapidi affondi degli alfieri che il tracciato diagonale rende più veloci, l’irruenza tutta materiale delle torri, ai loro occhi si contrapponevano per beffarda ironia al moto lento delle caravelle, a uno scivolare placido e faticoso sulle onde bicolori della scacchiera, di casa in casa, e alla loro presa indiretta, come di soppiatto, indegna di uno scafo. E i movimenti impacciati del Re, così umilianti accanto all’effervescenza della Regina, avevano solleticato lepidezze e sarcasmi; e vi fu chi, incredulo davanti a quel rovesciamento di ruoli, arrivò a proporre la riparazione del torto, a ristabilire l’ordine anche alla scacchiera invertendo le regole di gioco per i sovrani delle armate di metallo.

Le mani esitano più del solito quando si tratta di muovere un pedone, indugiano in un una pausa adombrata d’angoscia prima di afferrare una torre. E non si tratta soltanto di un supplemento di riflessione nel dispiegare strategie che, dati i giocatori, sono per forza di cose elementari; è senz’altro la superstizione in cui ciascuno cade, superstizione del veder rappresentato se stesso su quel mare minerale, il presagio oscuro e insistente che la caravella che rischia la cattura potrebbe essere la divinazione del proprio naufragio.
Per questo ciascuno si siede davanti alla scacchiera come nell’attesa di conoscere il proprio destino: e se spesse volte, insieme alle carte entrano nel gioco randelli e pugnali, Vasco De Gama e Magellano si affrontano in un silenzio oracolare che sgomenta l’;impazienza, silenzio cui è sfuggito Long John Silver con l’intuito misterioso e infallibile del predatore, rifiutandosi fin da subito di imparare le regole di questa màntica di morte senza sangue.

L’aria è immobile, e lo stoppino brucia bene. Allineo i pezzi, in attesa di un avversario che non verrà.
Anche sulla scacchiera c’è bonaccia stanotte, I cavalli si studiano con indolenza, le caravelle avanzano di casa in casa in una ipotesi di battaglia che non ci sarà, come se gli Ammiragliati antagonisti volessero soltanto saggiare le loro flotte in mare aperto.
In questo tempo rappreso, nella sua libertà immobile senza Legge o Regola, anche agli scafi di peltro sull’oceano di alabastro sarà consentita la mossa all’indietro, il ritorno, l’attracco senza viltà al porto dove avevano giurato vittoria o morte.
E allora chiamatemi Ismaele, un nome buono come un altro in questo limbo di Caraibi, atollo più, atollo meno, lungo la Rada del Sonno.

Qui, a Tortuga.