Islam 3

LE ISTITUZIONI

Dal corso degli eventi che hanno interessato la storia dell’Islam, abbiamo appreso come nel tempo siano esistite diverse società islamiche.

Abbiamo anche imparato che la fortuna dei musulmani e dell’Islam è stata fluttuante a seconda dei periodi e delle regioni, e a volte all’interno dello stesso periodo e della stessa regione.

Ma anche limitandoci a un particolare periodo e luogo, ci sono vari criteri per misurare la fortuna delle società islamiche:

malgrado tanti discorsi sulle “età dell’oro” (sotto il governo dei Califfi Rashidun, dei primi Abbasidi, degli Umayyadi di Andalusia ecc.), la conversione all’Islam, la produttività culturale dei musulmani e il dominio politico islamico, raramente sono stati fenomeni coincidenti, in qualsiasi regione.

In parte, questa eccezionale eterogeneità può essere spiegata chiarendo l’identità dei diversi popoli che compaiono nella storia, ognuno dei quali porta con sé il proprio bagaglio culturale.

Esigenze di spazio, però, ci hanno spinti ad alcune generalizzazioni: naturalmente, non tutti i turchi sono di mentalità aperta, così come non tutti i persiani sono ardentemente fieri della propria veneranda cultura.

Un altro modo possibile per spiegare e illustrare questa eterogeneità consiste nell’esaminare le istituzioni che sono comuni, in teoria, a tutte le società islamiche, ma differenti nella pratica, nelle varie regioni e periodi della storia dell’Islam.

I tre esempi scelti in questa sede sono:

1       La Moschea

2       il Jihad

3       il Califfato (o Imamato)

La Moschea è un’istituzione fisica;

il Jihad è un’istituzione teologico-giuridica;

il Califfato (o Imamato) è un’istituzione sia fisica che teologico-giuridica.

La Moschea

Sebbene alcune delle moschee più antiche edificate nelle province conquistate dagli arabi hanno caratteristiche architettoniche greco-romane, questi edifici di culto, piuttosto che indicare che la cultura islamica sia stata erede delle tradizioni del periodo classico, dimostrano esattamente il contrario.

I sovrani musulmani non tentarono di imporre uno stile architettonico uniforme (quello greco-romano) ovunque andassero; furono invece le tradizioni locali a influenzare i musulmani, i quali adattarono ai propri bisogni le strutture preesistenti o, quando partivano da zero, i materiali e le tecniche di costruzione.

Di conseguenza,le tradizioni greco-romane influenzarono l’architettura islamica solo nelle terre sottratte ai Bizantini.

Di che cosa ha bisogno una moschea?

In senso stretto, esistono due tipi di moschea:

1 La Masjid o “luogo di culto” (da cui, attraverso lo spagnolo Mezquita, deriva la parola “moschea”)

2 La Jami’, la moschea congregazionale di un città che raccoglie i musulmani per la preghiera e per altre funzioni religiose.

In quanto luoghi di culto, le moschee hanno bisogno anzitutto e principalmente di fedeli e di guide alla preghiera.

Per quanto, tuttavia, alcuni fedeli rimangano nella moschea anche tra un momento di preghiera e l’altro (persino mangiando e dormendo al suo interno), queste persone finiranno forse per far parte della tappezzeria della moschea, ma non della sua architettura.

L’edificio in sé richiede:

  • uno spazio dove possano essere effettuate le abluzioni rituali prima della preghiera (spazio che include la necessaria fontana di acqua pura);
  • un mihrab (“nicchia”) che indica la direzione di Mecca, verso la quale i musulmani rivolgono le loro preghiere;
  • e anche spesso, ma non sempre, un minbar (“pulpito”), dal quale vengono pronunciati i sermoni, e un minareto da cui i fedeli sono chiamati alla preghiera 5 volte al giorno.

Com’è facilmente ipotizzabile, la grande Moschea di Mecca, edificata attorno alla Ka’ba[1], è la più ampia moschea del mondo, dove si riuniscono ogni anno milioni di pellegrini.

E’ meno prevedibile, invece, che la Moschea di Hassan II a Casablanca, in Marocco, sia considerata per ampiezza la seconda moschea del mondo.

Completata nell’arco di 7 anni (1986-1993) grazie all’impiego di 6.000 persone, questa moschea può ospitare al suo interno 25.000 fedeli e comprende il minareto più alto del mondo.

Con i suoi pavimenti in vetro, i tetti scorrevoli, i raggi laser puntati verso Mecca durante le preghiere notturne, i lastricati di marmo riscaldato, le porte automatiche, le pareti scolpite e dipinte, le colonne di granito bianco e i lampadari di vetro, la Moschea di Casablanca è un edificio stupefacente.

Altrettanto stupefacente è il fatto che il suo costo, pari a 800 milioni di dollari, sia stato addossato interamente alla popolazione del Marocco (indigenti compresi).

Per quanto riguarda il  diritto islamico, le moschee sono sostanzialmente non necessarie: tutto ciò di cui un musulmano ha bisogno per pregare è costituito dall’occorrente per le abluzioni[2], da una superficie pulita sulla quale prostrarsi e da un’idea della posizione di Mecca.

Così, chi visita il mondo islamico ha alte probabilità di incontrare, il venerdì alle 12.00, estesi gruppi di uomini che pregano lungo le strade della città.

Perché allora costruire moschee?

E perché spendere 800 milioni di dollari per realizzarle?   

Alla prima domanda i giuristi hanno dato nel tempo diverse risposte, sottolineando la grande potenza delle preghiere collettive e il valore speciale dei luoghi sacri (ad esempio di Mecca e Medina), esattamente come gli ebrei pregano presso il Muro del Pianto nonostante credano, come i musulmani, che Dio sia presente in ogni luogo.

La risposta alla seconda domanda è invece più complessa: chiaramente una moschea è più che un semplice spazio per la preghiera.

Inoltre, esistono due funzioni di grande importanza storica che le moschee hanno ricoperto nel corso dei secoli.

La prima è quella di un simbolo di trionfo e potere, indirizzato allo stesso modo ai musulmani e ai non musulmani;

la seconda è quella di uno strumento concreto per la circolazione delle idee all’interno della Umma.

Nel corso dei secoli, quando i musulmani conquistavano nuovi territori, erano liberi di edificare moschee quasi ovunque.

Di fatto, dal momento che il diritto islamico salvaguarda le chiese e i templi  non  islamici  (almeno  finché non mettono in ombra quelli islamici), gli unici posti interdetti ai musulmani a questo scopo dovrebbero essere i siti occupati dai luoghi di culto preesistenti.

Tuttavia il mondo islamico, dal ‘600 fino ai giorni nostri, è pieno di moschee che una volta furono chiese e templi.

La Moschea Al-Aqsa e la vicina Cupola della Roccia sono state edificate sul Monte del Tempio a Gerusalemme;

la la Moschea degli Umayyadi di Damasco sorge sulla preesistente Chiesa di San Giovanni Battista (già tempio romano);

la Basilica di Santa Sofia di Costantinopoli venne convertita da Mehmet II nella Ayasofya di Istanbul.

Esistono centinaia di esempi di questo tipo, così come numerosi casi in cui il passaggio è avvenuto in direzione opposta: al tempo delle crociate, le moschee (molte delle quali erano state chiese) vennero convertite (di nuovo) in luoghi di culto cristiani, per tornare ancora moschee quando i Franchi vennero scacciati dalla Terrasanta nel 1291.

Analogamente, la Mezquita di Cordova fu edificata nel 1000 su un sito che era stato già tempio e poi chiesa, finché negli anni ’30 del 1200 essa venne reconquistada e riconvertita in edificio di culto cristiano (funzione che ha tutt’oggi).

La costruzione delle moschee fu dunque uno strumento efficace per comunicare il messaggio del trionfo dell’Islam sulle altre religioni.

La rimozione dalle città della presenza più visibile della cultura antagonista era un modo per lanciare il chiaro segnale che gli equilibri di potere non pendevano più dalla parte delle tradizioni più antiche e che la partita volgeva ormai a favore dell’Islam.

La maggioranza delle persone preferisce stare dalla parte vincente della storia:

così, alle conquiste delle terre e dei paesaggi seguirono spesso le conversioni di massa delle popolazioni locali.

Il messaggio trionfalistico di una moschea poteva però essere indirizzato agli stessi musulmani: sono sopravvissuti numerosi esempi di moschee architettonicamente uniche, la cui costruzione mirava a suscitare una determinata impressione sui fedeli del posto.

E’ dunque molto probabile che i musulmani iracheni dell’800, i quali assistettero all’edificazione della moschea di Samarra e del suo minareto, associassero l’aspetto dell’edificio alle antiche tradizioni vicino-orientali, volte a innalzare monarchi divinamente designati, i quali avevano il potere di ascendere in cielo per comunicare con gli dei.

Sin dai tempi più antichi, i sovrani musulmani si sono serviti delle moschee per trasmettere importanti messaggi politici alle comunità islamiche più distanti.

Il rappresentante locale del Califfo otteneva l’attenzione della comunità quando il popolo si riuniva nella Jami’ e in tali occasioni poteva trasmettere messaggi ufficiali in modo affidabile.

Allo stesso modo, attraverso le preghiere settimanali, le comunità locali promettevano fedeltà al Califfo, pronunciando il suo nome nella khutba (“sermone”).

Evitare di menzionare il nome di un sovrano o, ancora peggio, tentare di inserire nel sermone il nome di un suo rivale era il modo più immediato di ribellarsi alle autorità.

Oggi i leader politici musulmani, che mirano a raggiungere un pubblico più ampio possibile, hanno per lo più abbandonato questi strumenti di comunicazione con il popolo, per fare ricorso ai media moderni.

Il ruolo delle moschee, però, anziché essere soppresso, è stato assunto dagli Islamisti come porta di accesso verso i fedeli:

d’altronde il pubblico consueto degli Islamisti è formato (verosimilmente) da persone che frequentano le moschee, e che possono sfruttare pienamente a proprio vantaggio l’inviolabilità del luogo sacro.

Nessun politico, neanche il dittatore più intransigente, vorrebbe mai apparire come il promotore di un giro di vite sulle moschee:

così, all’interno delle loro mura, possono essere trasmessi impunemente persino messaggi di dissenso verso le istituzioni.

Inoltre, non solo la moschea è un simbolo dell’eterogeneità interna all’Islam, ma rappresenta anche il carattere “organico” della cultura islamica.

Le moschee della Cina appaiono cinesi, e non arabe, siriane, irachene o greco-romane.

Le moschee del periodo Mughal e del periodo Ottomano sono facilmente distinguibili le une dalle altre, benché entrambe siano, almeno a considerarle superficialmente, un prodotto della stessa cultura turco-islamica.

Infatti, le moschee Mughal combinano fra loro elementi islamici e indiani, mentre quelle Ottomane accostano elementi islamici e bizantini.

Anche quando la costruzione di una moschea costituiva un modo per affermare la vittoria dell’Islam sulle altre religioni, il mondo islamico e i suoi monumenti si definirono in relazione diretta con le tradizioni religiose locali.

Mentre i romani tendevano a sradicare le tradizioni architettoniche delle altre culture, i musulmani hanno invece sempre riconosciuto i contesti regionali con cui entravano in contatto, integrando all’interno della propria società gli elementi caratteristici di quelle più antiche e determinando spesso una combinazione unica di stili vecchi e nuovi.

In un certo senso, inoltre, l’Islam rappresenta la prima civiltà “ambientalista” della storia (benché del tutto involontariamente), grazie a una lunga tradizione di riciclo dei materiali preesistenti e all’abitudine di attingere soprattutto ai prodotti locali.

Il Jihad

Il Jihad è un’istituzione che può ricevere supporto da altre insospettabili parti:

l’ex premier israeliano Ehud Barak e il deputato del parlamento inglese Jenny Tonge hanno affermato che, se fossero cresciuti sopportando le stesse condizioni nelle quali vivono i palestinesi, avrebbero potuto “diventare un attentatore suicida”.

A meno che Barak e Tonge, nel loro scenario ipotetico, non fossero cripto-musulmani, probabilmente si sbagliano.

Sebbene le motivazioni degli attentatori suicidi siano senza dubbio complesse, è chiaro che per entrare nelle loro fila occorre che siano soddisfatti due criteri:

1 Colui che agisce deve star fremendo di rabbia a causa di qualcosa

2 L’opzione di alleviare la propria rabbia per mezzo della violenza deve essere materialmente accessibile e dogmaticamente giustificabile

Nel caso della Palestina, è la categoria generica di Jihad, a cui si pensa che appartengano gli attentati suicidi, a fornire la giustificazione necessaria.

Ciò spiega perché, sebbene centinaia di palestinesi cristiani vivano nelle stesse condizioni miserabili (e sebbene milioni di indiani e africani non musulmani ne sopportino di molto peggiori), essi non ricorrano a simili strategie.

Naturalmente, la maggioranza assoluta dei musulmani non dà alcun sostegno né tanto meno ricorre agli attentati suicidi (anzi, spesso condannandoli severamente), e interpretazioni non violente del Jihad circolano tra i musulmani da secoli.

L’istituzione del Jihad è infatti un esempio eccellente della grande eterogeneità dell’Islam, dal momento che un numero incalcolabile di governanti, studiosi, gruppi religiosi e intere società hanno inteso il dovere del Jihad ognuno a proprio modo.

A giudicare dalle apparenze, non dovrebbe esserci molto spazio per interpretazioni divergenti del concetto di Jihad, sia perché il Corano ne parla (per quanto in modo ambiguo), sia perché Jihad è un tipico termine arabo.

Le parole arabe sono formate da una radice consonantica e da una serie di modelli o forme verbali in cui viene inserita la radice.

Sia la radice che i modelli racchiudono un significato essenziale:

  • nel nostro caso la  radice h.d. ha a che fare con l’atto  di “sforzarsi”:
  • la parola Jihad di per sé è un sostantivo derivato dalla terza forma verbale, il cui significato essenziale è “fare qualcosa contro qualcuno”.

Di conseguenza, Jihad significa letteralmente “compiere uno sforzo contro qualcuno”.

Il Corano afferma che lo sforzo deve essere fatto “sulla via di Dio” e “contro i politeisti” o “la Gente del Libro”, a meno che questi non accettino determinate condizioni.

Considerato ciò, il significato essenziale di Jihad potrebbe essere: “lotta di carattere religioso contro i politeisti e certi gruppi non musulmani”.

Soffermiamoci ancora sul concetto di Jihad: per quanto possa sembrare di facile comprensione, anche questa definizione ha portato a diverse interpretazioni per vari motivi.

In primo luogo, i musulmani traggono raramente, per non dire mai, istruzioni di carattere religioso direttamente dal Corano.

E’ grazie al lavoro degli Ulama, i quali diedero un senso ai versetti coranici e li spiegarono servendosi di altre fonti del diritto religioso, che è stata elaborata la Shari’a.

Gran parte di questi studiosi afferma che Jihad significa “fare la guerra al fine di diffondere l’Islam”, una definizione che si presta a sua volta ad essere interpretata.

La diffusione dell’Islam doveva essere intesa come conquista politica delle altre popolazioni (come nel caso dei romani e dei mongoli) o aveva come fine ultimo la conversione (come nel caso dei buddhisti e dei missionari cristiani)?

Tutti concordavano nel sostenere che la risposta fosse “entrambe queste cose”, purché l’obiettivo della conversione fosse la priorità, e il potere politico rappresentasse solo un trampolino verso la conversione finale.

Era inoltre opinione condivisa che l’impresa del Jihad fosse per assicurarsi il favore divino, indipendentemente dagli sforzi della collettività.

Ciò che invece sfuggiva al consenso generale erano le questioni legate ai bersagli del Jihad e alle circostanze in cui esso deve essere intrapreso.

Gli apostati dell’Islam rappresentano un bersaglio facile agli occhi di tutti, ma come comportarsi nei confronti di ebrei e cristiani, indù, pagani o nei confronti degli atei e degli apostati di altre religioni?

La maggior parte delle autorità mantiene un punto di vista magnanimo sulla questione e accorda lo stato di non musulmani tollerati a un’ampia gamma di gruppi.

Dalla parte opposta, alcuni estremisti considerano tutti i non musulmani (e persino quei musulmani che dissentono con loro su questioni teologiche o giuridiche) alla stregua di infedeli che devono essere sconfitti.

Alcuni studiosi, inoltre, pensano che il Jihad debba essere intrapreso per un’iniziativa dei musulmani, mentre altri ritengono che dovrebbe essere intrapreso solo in reazione a provocazioni esterne.

In secondo luogo, nella pratica il diritto non viene sempre applicato alla lettera: così, anche se tutti gli studiosi musulmani dovessero essere d’accordo su ogni singola controversia, la realtà concreta rivelerebbe poi le differenze.

Di conseguenza, per ragioni geografiche era più facile, ad esempio, per i sovrani dell’Anatolia, della Penisola Iberica e dell’India estendere i confini dell’Islam di quanto non lo fosse per chi governava in Arabia o in Iraq.

Per ragioni politiche, invece, accadeva che i dettami di testi giuridici scritti sotto l’egida di un Califfato forte non fossero rispettati quando lo Stato era debole, cosicché la teoria del diritto si scontrava spesso con le possibilità reali di dichiarare il Jihad.

In terzo luogo, i diversi approcci alla religione che si sono sviluppati nel corso dei secoli hanno aperto la strada a molteplici interpretazioni del Jihad.

A partire dal ‘900 d.c. molti musulmani, influenzati da orientamenti quietistici (come quelli degli Sciiti duodecimali), spirituali (quelli dei Sufi) e degli attacchi dei cristiani contro la pretesa dell’Islam di essere una religione portatrice di pace, giunsero a distinguere due tipi di Jihad.

Il primo tipo è ciò che essi chiamarono “il Jihad minore”, che corrisponde al noto dovere di diffondere l’Islam a spese delle altre religioni, ma che può essere intrapreso solo come misura difensiva.

Il secondo tipo è “il Jihad  maggiore”, ossia il dovere comune a tutti i musulmani di allontanare attivamente le proprie cattive inclinazioni.

Benché tale distinzione sia stata retroattivamente attribuita allo stesso Muhammad, dalle fonti storiche è evidente che la maggioranza dei sovrani (ma anche molti musulmani) non concordava con simili interpretazioni.

Ciò che è importante, però, è che queste interpretazioni erano lì, pronte per essere impugnate da quanti aborrivano persino la violenza di carattere difensivo, nonché, più tardi, a disposizione di quegli apologeti musulmani che sostengono che il Jihad sia sempre stato solamente uno strumento di difesa o un combattimento interiore.

Infine, anche se dovessimo accontentarci di una particolare interpretazione del dovere del Jihad (per così dire, una visione indulgente secondo la quale il Jihad rappresenta solo una misura difensiva che non dovrebbe mai colpire civili innocenti), i termini coinvolti nella definizione potrebbero essere letti a loro volta in modi ancora differenti.

L’interpretazione indulgente scelta in questa sede si adatterebbe sicuramente alla stragrande maggioranza dei musulmani che considerano il Jihad una battaglia personale contro le tentazioni e che si lascerebbero coinvolgere in una dichiarazione di guerra fisica solo se provocata da chi minacciasse direttamente l’Islam.

D’altro canto, è interessante notare che, probabilmente, persino gli estremisti come quelli a cui si devono gli attentati alla rete metropolitana di Londra del 7 luglio 2005, accetterebbero un’interpretazione che suona tanto indulgente.

Dal punto di vista degli estremisti, infatti, l’Islam sta subendo un attacco (come provato dal miope utilizzo dell’espressione guerra al terrore da parte di alcuni governi occidentali) e di conseguenza un Jihad difensivo è necessario:

inoltre, i civili non combattenti che sono stati uccisi negli attacchi terroristici non erano affatto innocenti, poiché in democrazia i votanti sono pienamente responsabili delle azioni dei propri governi (in questo caso, di quella che ai loro occhi era l’aggressione della Gran Bretagna nei confronti dei musulmani in Iraq e in Afghanistan).

Il punto di forza degli estremisti è dunque l’insistenza sul fatto che gli sforzi per un Jihad globale siano di natura difensiva.

Questo rende il Jihad immediatamente allettante per quei musulmani che potrebbero sentirsi assediati e minacciati da qualcosa:

dalla cultura occidentale, dalle società non islamiche in cui vivono, o dal corso della storia (una storia che sembra li stia trascurando, sebbene i loro antenati un tempo dominassero il mondo).

Se i musulmani che vivono nei paesi occidentali sentono di essere oggetto dell’islamofobia, o se viene loro impedito di praticare l’Islam, allora essi sono costretti a creare le condizioni necessarie per la difesa della Shari’a, attraverso l’ideale creazione di uno Stato islamico.

Secondo alcuni Islamisti, non esiste al mondo nessuno Stato islamico accettabile e, per questo motivo, è necessario che venga istituito uno Stato califfale, a partire da zero  e con l’uso della forza.

Di conseguenza, per capire il Jihad di Al-Qaeda dobbiamo prima comprendere quale sia la natura (per certi versi sfuggente) del Califfato.

 

Il Califfato o Imamato

Molti gruppi Islamisti, se non la maggior parte di loro, vorrebbero istituire un Califfato: cioè uno Stato panislamico guidato da un Califfo.

Per alcuni di loro (come il Partito Islamico della Liberazione) l’istituzione del Califfato costituisce praticamente l’unico obiettivo.

E’ probabile che molti musulmani tradizionalisti accoglierebbero volentieri una restaurazione del Califfato sul piano teorico, ma che pensano non sia compito loro farlo nascere.

Gli Islamisti credono che il Jihad debba essere dichiarato dalla comunità nel suo insieme, al fine di estendere i confini di uno Stato islamico.

Ma visto che non c’è uno Stato islamico, né esiste la “comunità nel suo insieme”, lo scopo del Jihad, per il momento, deve essere quello di crearli.

Anche per quei musulmani che vedono nel significato di Jihad poco più di un impegno a evitare piatti a base di maiale, l’idea di vivere sotto un Califfato presenta notevoli vantaggi.

Solo sotto il governo di un Califfato i musulmani sarebbero veramente liberi di praticare le proprie tradizioni religiose senza bisogno di giustificarsi.

Inoltre, un Califfato unificherebbe la Umma, liberando così l’enorme potenziale politico, economico e militare del mondo islamico.

I mali delle società islamiche moderne, come affermano gli stessi Islamisti, sono interamente dovuti alle divisioni interne alla Umma:

i confini artificiali imposti dalle potenze occidentali, la varietà di governi (tutti pessimi) sotto i quali vivono i musulmani (sempre a causa di un complotto occidentale) e così via.

Unificando la Umma, il Califfato riporterebbe i musulmani alla guida del mondo.

Come potrebbe non piacere l’idea?

Attrae, ovviamente, ma il problema non sta nel fatto che i musulmani nel corso della storia abbiano rifiutato l’idea del Califfato, bensì nel fatto che non abbiano saputo trovarsi d’accordo né su quale dovesse essere la sua struttura generale né sui particolari.

Ironia della sorte, anziché unire la Umma, le dispute sul Califfato hanno contribuito a frammentarla, politicamente e teologicamente, più di quanto non abbiano fatto qualsiasi altra idea o istituzione.

In questo senso, il Califfato è un esempio ideale dell’eterogeneità tipica delle società islamiche e della storia dell’Islam.

Muhammad morì nel 632, dopo aver governato come capo religioso e politico dello Stato dei musulmani sin dal momento della sua fondazione, nel 622.

Chiaramente, ora spettava a qualcun altro assumersi la responsabilità degli affari politici in sua assenza.

Ma chi sarebbe stato, e come sarebbe stato scelto?

Una delle soluzioni proposte voleva che gli anziani della comunità si riunissero e scegliessero il candidato più adatto tra gli appartenenti alla tribù di Muhammad (i Quraysh).

Secondo i Sunniti, questa era la cosa giusta da fare, e una simile consultazione (Shura) è infatti alla base dell’elezione di alcuni dei primi Califfi.

E se invece Muhammad in persona, ispirato da Dio, avesse nominato un successore idoneo quando era ancora in vita?

Per gli Sciiti questo è esattamente ciò che accade, e il designato era Ali;

a loro modo di vedere, la carica califfale si trasmette attraverso i discendenti diretti di Ali, da una generazione all’altra.

Come sappiamo, gli Sciiti non si sono sempre trovati d’accordo su quale fosse la precisa genealogia dei discendenti dell’Imam, il che ha dato origine a nuovi scismi.

Come comportarsi nel caso in cui Ali si fosse rivelato una guida non all’altezza delle aspettative, come pensavano quelli che sarebbero poi divenuti i Kharijiti?

Secondo i Kharijiti, sarebbe dovuto diventare Califfo semplicemente il candidato più adatto al compito, a prescindere dal suo lignaggio (così, quando Ali dimostrò di non essere quel candidato, lo uccisero).

Gli Umayyadi pensavano che il fattore decisivo per l’elezione dovesse essere la capacità di un capo di assumere il controllo dello Stato.

Dopotutto, se Dio guida gli eventi, e se mette il potere nelle mani di una particolare persona o famiglia, chi può avere da ridire?

L’elenco potrebbe essere ancora più lungo, ma il punto dovrebbe essere ormai chiaro: non solo il Califfato non riuscì a unire la Umma, ma fu anche la principale causa di divisione all’interno della comunità.    

Invece che scatenare il potere collettivo della Umma, nel corso della storia dell’Islam i musulmani hanno speso gran parte delle loro energie fisiche e intellettuali a combattere fra di loro a causa proprio del Califfato.

Esiste poi una grande diversità di opinioni tra gli studiosi musulmani a proposito della natura di questa istituzione.

Qual era il ruolo del Califfo (o dell’Imam, poiché questo è il termine impiegato sia nella teoria sunnita che nella pratica sciita)?

Che egli esercitasse il governo politico della Umma era un dato di fatto: ma come comportarsi con il potere religioso?

Alcuni, compresi gli Umayyadi, i primi Abbasidi e gli Sciiti, sostenevano che il Califfo/Imam detenesse anche l’autorità religiosa.

Una tale visione è in effetti supportata dal fatto che il disaccordo attorno alle competenze del Califfo diede origine a sette, piuttosto che a fazioni politiche.

Altri, come gli Ulama e gli Abbasidi, non erano d’accordo.

E come bisognava agire qualora si sapesse chi era il vero Califfo/Imam (come lo sanno o lo sapevano gli Sciiti) ma la guida politica della Umma si trovava nelle mani sbagliate?

Aspettare che Dio restituisse il potere al suo Imam, o cominciare immediatamente ad attuare questa restituzione?

Questo problema si risolse per molti Sciiti quando il loro Imam prescelto scomparve, alla fine dell’800, inducendo in loro una tendenza al quietismo.

Altri Sciiti, il cui Imam continuava ad essere presente, adottarono invece abitualmente l’attivismo, e lo fecero particolarmente bene sotto i Fatimidi.

A partire dalla metà del ‘900, il prestigio della carica califfale subì un duro colpo.

Nelle terre Abbasidi, sotto il controllo degli Sciiti Buyidi, il Califfo (Sunnita) venne ridotto a un mero strumento  di legittimazione per un potere detenuto de facto da altri.

Attorno allo stesso periodo emersero per giunta due “contro-califfati”, governati dai Fatimidi e dagli Umayyadi di Andalusia.

Nel 1200, la carica califfale venne ulteriormente svuotata di valore dello sradicamento del Califfato Abbaside dall’Iraq per opera dei Mongoli, e dal trasferimento al Cairo di un Califfo Abbaside “ombra” per opera dei Mamelucchi.

Strano a dirsi, questo Califfo a sua volta legittimò la condizione di Califfi effettivi assunta da altri, e in particolare, come è ben noto, dagli Ottomani (i quali non potevano dichiarare di avere il pedigree adatto alla carica, dal momento che facevano risalire il proprio lignaggio non ai Quraysh, bensì a una lupa, come avevano fatto i romani).

Il Califfo mamelucco-abbaside del Cairo nominò persino altri Califfi, la cui carica coincideva esattamente con la sua.

Quando gli oppositori di un Califfo volevano indebolire la sua pretesa di legittimità, generalmente lo chiamavano “re”.

Nel Corano la regalità è riservata a Dio, mentre al tempo di Muhammad gli uomini che portavano il titolo di re erano autocrati infedeli, come il Cesare bizantino o lo Shah sasanide.

Benché, sin dal 900, alcuni antichi titoli siano stati riutilizzati nei territori persiani, compreso proprio quello di re, è solo per influenza occidentale che i sovrani musulmani ad ovest dell’Iran hanno volontariamente assunto tale titolo, a partire da Sharif Hussein (Re dell’Hijaz dal 1916) e da suo figlio Faisal (Re di Siria e poi dell’Iraq).

Presto vi furono re musulmani in Egitto, nell’Hijaz e nella regione unificata del Najd-Hijaz, nota dal 1932 come Regno dell’Arabia Saudita.

Il Marocco, la Libia e la Giordania seguirono l’esempio.

Per gli Islamisti, questa fu una prova ulteriore della tossicoccidentalizzazione  dei  paesi islamici: l’esistenza di un regno che domina su Mecca e Medina è per loro particolarmente irritante, e non c’è da sorprendersi che organizzazioni come Hizb ut-Tahrir siano bandite in Arabia Saudita.

Nel corso della storia dell’Islam, è accaduto a volte che alcuni uomini affermassero di essere un’altra categoria di guide divinamente elette al comando della Umma.

Alcuni di loro si sono proclamati salvatori messianici (i mahdi), mentre altri sono stati più semplicemente dei riformatori religiosi, come il Sultano Mughal Akbar e il Sovrano Afsharide d’Iran, Nadir Shah (1736-47).

Altri ancora unirono in sé gli attributi di autorità diverse: Wallace Fard Muhammad, fondatore di Nation of Islam, affermò di essere sia il messia atteso che la reincarnazione di Gesù.

Talvolta, la natura eterodossa delle rivendicazioni di queste guide è stata troppo pesante da sopportare persino per la struttura flessibile dell’Islam, il che ha determinato la fondazione di religioni distinte, come nel caso della fede drusa e di quella baha’i.

Se uno dei vostri obiettivi è quello di incontrare un Califfo/Imam, non dovete disperare: Califfi e Imam possono essere trovati anche oggi.

Aga Khan IV è attualmente l’Imam della comunità ismailita Nazarita;

la Comunità Musulmana Ahmadita segue il Califfo Mirza Masroor Ahmad, il quinto successore di Mirza Ghulam Ahmad, il quale nel 1889 affermò di essere il Mahdi, il secondo avvento di Gesù e un rinnovatore dell’Islam (Mujaddid).

Tanto il movimento Nazarita quanto quello Ahmadita sono ampiamente diffusi, con milioni di seguaci in tutto il mondo.

Altri califfi, che non godono dello stesso riconoscimento, saltano fuori di tanto in tanto, come nel caso di Metin Kaplan, il sedicente “Califfo di Colonia”, che sta scontando una condanna all’ergastolo in un carcere turco per aver tentato di rovesciare il governo della Turchia e istituire al suo posto un Califfato.

Vale la pena riflettere sul fatto che anche nel caso dei tentativi andati a buon fine di restituire il governo della Umma nelle mani del legittimo Califfo/Imam, ogni volta che i movimenti rivoluzionari hanno dovuto far fronte alle esigenze concrete che il governare comporta, hanno finito quasi sempre per tradire le rivendicazioni e gli obiettivi originari, regredendo fino ad assumere quelle stesse  pratiche di governo che avevano criticato durante la prima fase rivoluzionaria.

E’ questo il caso degli Abbasidi, dei Fatimidi, degli Almoravidi, dei Safavidi e di numerose altre dinastie, sia nel corso della storia dell’Islam sia in quello, più in generale, della storia del mondo (parlando di rivoluzioni politiche).

Oggi le chiamate alla restaurazione di un Califfato seguono modelli prevedibili: ma è la forma finale di qualsiasi Califfato futuro ad essere imprevedibile.

[1] La Kaʿba è un’antica costruzione situata all’interno della Sacra Moschea, al centro della Mecca (in Arabia Saudita); rappresenta il luogo più sacro dell’Islam.

[2] https://it.wikipedia.org/wiki/Abluzione

Islam 2

POPOLI E CULTURE

Buona parte della storia dell’Islam è dominata dagli stessi fattori che determinano la storia delle altre società, cioè in particolare dalle condizioni geografiche e dalla diffusione delle tecnologie, dai cammelli alle automobili, dal papiro alla pergamena fino alla stampa.

L’Haji, ad esempio, da rituale strettamente legato all’esistenza delle carovane si è trasformato in un’impresa resa possibile dal servizio fornito dalle compagnie aeree;

e nonostante la tecnologia moderna abbia permesso a un numero enorme di musulmani di intraprendere il pellegrinaggio a Mecca, la stessa tecnologia ha anche depotenziato il ruolo stesso dell’Haji come strumento di diffusione di idee, merci, notizie e di un senso di coesione interno alla Umma.

Potrebbe essere interessante osservare come alcuni cambiamenti “neutrali” si siano ripercossi sulle istituzioni islamiche, come nel caso dell’Haji, ma questa non è una storia di per sé peculiarmente “islamica”: piuttosto, non è altro che la storia del mondo raccontata attraverso esempi sull’Islam.

Ciò che invece è peculiare della storia dell’Islam sono quei popoli  (gli arabi, i persiani e i turchi) che l’hanno creata, indirizzando la geografia e la tecnologia (tra gli altri fattori) in direzioni del tutto particolari.

Gli arabi

Nel 2003 Kilroy-Silk, politico inglese molto celebre, scrisse un articolo intitolato We Owe Arabs Nothing, nel quale sosteneva che gli arabi fossero poco più che “attentatori suicidi, amputatori di mani e oppressori delle donne”.

La condanna dell’articolo e del suo autore, come era da attendersi, fu immediata, con il Consiglio islamico britannico a capo delle proteste.

Che opinioni offensive inneschino di necessità delle reazioni non desta sorpresa: ciò che sorprende, in questo caso, è piuttosto il fatto che la replica a un articolo sugli arabi sia stata portata avanti da musulmani non arabi.

Sebbene sia noto che la maggior parte dei musulmani non è composta da arabi, è chiaro che essi abbiano avuto un ruolo talmente centrale nella storia e nella civiltà dell’Islam che i concetti di “arabo” e di “musulmano” vengono regolarmente sovrapposti dai sostenitori dell’Islam e dai suoi detrattori in egual misura.

E’ interessante notare che, per quanto riguarda la storia dell’Islam delle origini, questa sovrapposizione non è totalmente priva di senso.

Si potrebbe sostenere, infatti, che l’Islam sia nato come religione di un determinato popolo, nonché destinata esclusivamente agli arabi:

il Corano dichiara di essere scritto in arabo “affinché possiate comprendere il suo messaggio”, affermazione che presuppone un pubblico di arabofoni.

Inoltre, al tempo dei califfi Umayyadi la conversione dei non arabi all’Islam veniva generalmente scoraggiata, e coloro che effettivamente si convertivano venivano resi “clienti” delle tribù arabe: in altre parole, per essere musulmani si doveva prima essere arabi, o quantomeno arabi onorari.

Per secoli, gli ebrei dei territori islamici (solitamente in Persia) hanno affermato che Muhammad era senza dubbio un vero profeta inviato da Dio per diffondere il monoteismo, ma solo presso gli arabi pagani che ne avevano bisogno (va detto che gli ebrei persiani oggi non condividono più questa teoria).

Un sostegno a quest’idea viene dato dallo stesso Corano, che afferma:

“Prima di questo, il Libro di Mosè era guida e misericordia: e questo Libro ne è conferma in lingua araba”.

Chiaramente, questa non è l’unica visione possibile, e non è certo in questo modo che è andata a finire.

Ad ogni modo, gli arabi e la loro cultura rimangono sotto molti aspetti un elemento centrale per tutti i musulmani.

L’antica associazione tra l’Islam e gli arabi, insieme a una resistenza di vecchia data (ormai superata) a tradurre il Corano, hanno comportato persino per i musulmani non arabi la necessità di imparare quantomeno le basi dell’arabo.

E non è un male che l’arabo sia considerato (anche presso i persiani) la lingua di Dio (per quanto molti storici musulmani affermino che Adamo ed Eva parlassero l’aramaico).

E’ imprescindibile, per chi desidera leggere le opere fondamentali del diritto islamico, della teologia, degli studi coranici, degli Hadith ecc. conoscere in modo approfondito l’arabo.

Poiché l’Islam si è diffuso per lo più in regioni e in epoche storiche in cui l’alfabetizzazione era decisamente limitata, il primo incontro di un musulmano con le lettere implicava spesso l’apprendimento della lettura e della scrittura nella lingua di Dio.

Di conseguenza, anche lingue diverse dall’arabo finirono per essere scritte con un alfabeto arabo modificato in modo tale da adattarsi alle caratteristiche del parlato.

Il persiano, l’urdu (hindi in lingua araba) e il turco, così molte altre lingue, usano l’alfabeto arabo e sono composte da molte parole arabe.

Perciò nei primi secoli della storia dell’Islam tutti gli autori, a prescindere dalla loro appartenenza etnica, scrivevano le loro opere in questa lingua.

L’arabo potrebbe, quindi, essere paragonato al cinese, una lingua la cui solidità nei millenni ha consentito agli studiosi cinesi di leggere e ampliare le intuizioni dei loro predecessori, con il risultato che molte delle invenzioni che hanno cambiato il mondo hanno avuto origine in Cina, dalla carta alla stampa, alla bussola e alla polvere da sparo, fino ai trucchi di magia e al kung fu.

In quanto lingua di cultura condivisa da studiosi non madrelingua, l’arabo ricorda anche l’uso del latino nell’Europa pre-moderna e della prima età moderna.

La diffusione dell’arabo come lingua di cultura consentì agli studiosi, sia musulmani che non musulmani, di trasmettere le proprie idee superando confini e generazioni, con effetti significativi in diversi campi.

Nell’800 d.c., ad esempio, una notevole parte delle opere scritte in greco antico venne tradotta in arabo per volontà dei califfi, in un’epoca in cui la maggioranza degli occidentali aveva perso la capacità di apprezzare una simile eredità: e fu grazie alle traduzioni in latino di tali versioni arabe dei testi greci che l’Europa poté riscoprire molte di quelle opere e le idee in esse contenute.

Di conseguenza, è stato largamente riconosciuto che il Rinascimento, così come lo conosciamo, non sarebbe mai esistito se gli arabi e la loro lingua fossero rimasti in Arabia.

Naturalmente se gli arabi fossero rimasti in Arabia non sarebbe mai esistita neanche una civiltà islamica, dato che furono proprio loro a conquistare il Vicino Oriente, il Nord Africa, la Penisola Iberica e l’Asia Centrale.

Inoltre, gli arabi fornirono le fondamenta politiche e ideologiche su cui sorsero gli imperi Umayyade e Abbaside.

Mentre, però, l’arabo e la sua cultura hanno conservato la loro importanza per l’Islam anche nell’età moderna, gli arabi come popolo sono stati in un certo senso dimenticati: infatti, persino all’apice della cultura arabo-islamica, nei secoli ‘800 e ‘900 d.c., gran parte dei luminari della cultura non erano arabi.

Al Kindi (801-873 d.c.), ad esempio, era noto come “il filosofo degli arabi” non perché i filosofi fossero in maggioranza arabi, ma proprio perché non lo erano.

Inoltre, dal ‘900 d.c. in poi, gli arabi si trovarono spesso sotto il dominio di altri popoli, solitamente correligionari persiani, berberi o turchi.

In seguito alla I Guerra Mondiale, con il disfacimento dell’Impero Ottomano si assistette a una generale riconfigurazione degli elementi etnici e religiosi del Vicino Oriente, con diversi gruppi in lotta per la creazione di nuove identità nazionali e sovranazionali.

Benché la ricerca di un’identità comune partisse dall’appartenenza all’Islam, che garantiva un principio unificatore già pronto grazie al concetto di “Umma”, molti  intellettuali arabi erano cristiani: per questo motivo, essi cercarono di promuovere un’identità “araba” piuttosto che “islamica”.

Di conseguenza, il nazionalismo arabo e il panarabismo furono movimenti deliberatamente laici (e spesso socialisti).

Tuttavia, a causa del fallimento dell’esperimento panarabista tentato da Nasser[1] (1958-61), dell’incapacità degli stati arabi di sconfiggere Israele e per diverse altre ragioni, le ideologie di stampo religioso sono emerse ancora una volta, finendo per sostituirsi all’idea di unità degli arabi come elemento unificatore dei popoli del Vicino Oriente e oltre.

In un simile quadro, i confini tra i movimenti arabo e islamico-centrici appaiono talvolta sfumati: Michael Aflaq (1910-1989), leader del nazionalismo arabo, si fece promotore dell’idea che l’Islam fosse il più grande successo degli arabi e Muhammad il loro più grande eroe, e questo nonostante il fatto che egli (Aflaq) fosse un siriano cristiano.

Oltretutto, singoli individui e intere nazioni hanno coltivato allo stesso tempo molteplici identità:

  • Muammar Gheddafi si è fatto paladino sia dell’unità degli africani che di quella degli arabi;
  • alcuni libanesi sono alla ricerca delle loro radici fenicie, mentre una parte dei palestinesi lo sono del loro retroterra cananeo.

E’ interessante notare che, sebbene inizialmente l’”Islam” e gli “arabi” fossero due concetti inseparabili (per essere musulmani occorreva prima essere arabi), intorno alla metà del 1900 le ideologie arabe e islamiche siano entrate in aperta competizione per conquistare cuore e mente dei popoli vicino-orientali.

Nel mondo arabo i movimenti Islamisti hanno acquisito un forte ascendente, ma nelle zone a est di esso (ad es. in Iran), la competizione tra la fedeltà etnica e quella religiosa rappresenta un conflitto ben più serrato.

I persiani

Gli arabi e i turchi devono all’Islam la propria preminenza sulla scena mondiale: i persiani, invece, no.

I persiani[2] hanno alle spalle un’antica e grandiosa storia di tradizione statale che risale al periodo Achemenide (559-330 A.C.): quando i conquistatori arabi sconfissero l’Impero Sasanide (224- 651 D.C.), misero fine in Persia a circa 12 secoli di quasi ininterrotto autogoverno e di autonomia politica.

Così, se per gli arabi e i turchi l’ascesa dell’Islam rappresentò un successo assoluto, per i persiani fu invece una sorta di arma a doppio taglio:

  • da un lato essi guadagnarono il monoteismo e la “Vera Religione”;
  • dall’altro ci rimisero, tuttavia, l’impero e la propria indipendenza.

E anche se i primi musulmani fondarono il loro Stato su terre precedentemente bizantine e sasanidi, i Sasanidi pagarono il prezzo più alto fra i due:

mentre i sudditi bizantini delle regioni conquistate poterono fuggire in quelle zone dell’impero che non erano state occupate, e ogni elemento della cultura greca e cristiana che era stato estirpato dai conquistatori poté così essere ripiantato nei territori bizantini superstiti, l’intero Impero Sasanide al contrario venne conquistato dai musulmani, e nonostante alcuni zoroastriani fossero riusciti a fuggire in India, la cultura persiana non poté fare altro che diventare clandestina.

Tutto ciò ha avuto delle conseguenze importanti.

Nel breve termine, il popolo e il paesaggio della Persia resistettero fieramente alle armate arabe, il che fece sì che in alcune province il potere califfale, la conversione all’Islam, l’insediamento degli arabi e l’arabizzazione attecchirono solo superficialmente.

Nella maggior parte delle regioni fu così consentito ai notabili persiani di mantenere un certo grado di potere e, di conseguenza, le tradizioni amministrative persiane furono preservate.

Molti persiani guardavano alle conquiste islamiche come a un contrattempo momentaneo e reversibile.

Nel corso dei due secoli successivi fece la sua comparsa in Persia una lunga processione di “redentori”, che avevano come obiettivo il ripristino dello status quo politico, sociale e religioso del periodo pre-islamico.

Alcuni storici moderni, e persino alcuni testimoni dell’epoca, hanno (erroneamente) interpretato diversi avvenimenti della storia dell’Islam come esempi di movimenti votati alla redenzione della Persia, includendo fra questi la Rivoluzione Abbaside, la fondazione di Baghdad, l’ascesa dei Buyidi, dei Samanidi e dei Safavidi, e l’adozione dello Sciismo da parte dei sovrani Safavidi e dei loro sudditi.

Una simile interpretazione degli eventi risulta scorretta per tutti questi casi, ma è giusta per quanto riguarda la comprensione generale dell’impatto traumatico che l’ascesa dell’Islam ebbe su molti persiani.

Nel medio termine, anziché tentare  di annullare gli effetti della comparsa dell’Islam, i persiani e la cultura persiana vennero islamizzati.

Questo fenomeno si verificò in modo particolarmente evidente sotto il dominio degli Abbasidi, i quali, trasferendosi in Iraq, costruirono il loro potere sulle macerie delle istituzioni Sasanidi.

Non solo l’organizzazione politica e amministrativa Abbaside fu erede delle tradizioni governative persiane (così come le tradizioni bizantine erano state ereditate dagli Umayyadi in Siria), ma gran parte della cultura (la letteratura, la storia, la teologia, le scienze religiose, gli studi coranici e persino la poesia araba e la linguistica) venne istituita e guidata da persone che scrivevano libri in arabo, ma raccontavano le “fiabe della buonanotte” in persiano.

I persiani erano talmente consapevoli del proprio predominio culturale che nacque un movimento letterario teso a promuovere la cultura persiana e a ricordare agli arabi il debito che avevano nei loro confronti.

Persino il grande storico e filosofo tunisino Ibn Khaldun (1332-1406), che operava nel profondo ovest dell’Impero Islamico, incluse nella sua Muqaddima una sezione intitolata “Moltissimi studiosi musulmani sono stati persiani”.

Nel lungo termine, così, fu la stessa cultura islamica a venire persianizzata, anche a discapito di altre strade percorribili.

Tale processo iniziò con la nascita di dinastie persiane semi-indipendenti nell’est dell’Impero Abbaside, dove i governatori adottarono titoli Sasanidi, tracciarono genealogie Sasanidi per le proprie dinastie e soprattutto patrocinarono la letteratura in lingua persiana.

La più celebre opera in persiano, lo Shahnama (“Il Libro dei Re”) fu composta in età Sasanide e fu dedicata a un sovrano Ghaznavide.

Lo Shahnama narra in forma epica tutti i momenti salienti della storia dell’Iran, cominciando con la creazione del mondo e finendo con la sconfitta delle forze Sasanidi per mano dei musulmani nella Battaglia di Al-Qadissya (637 d.c.).

In ogni caso, ciò che contribuì in modo decisivo alla fioritura della letteratura persiana anche al di fuori dell’Iran fu l’espansione dei turchi, dei mongoli e dei turco-mongoli verso le terre islamiche.

I missionari di lingua persiana giocarono un ruolo cruciale nella propagazione dell’Islam verso Oriente, e non è un caso che la terminologia religiosa di cui si servono i musulmani in Cina prediliga parole persiane rispetto ai loro sinonimi arabi.

Prima di fare il loro ingresso nel mondo islamico nel tardo ‘900 d.c., le tribù turche da cui sarebbero discesi i Selgiuchidi e gli Ottomani vennero convertite all’Islam da parte di predicatori persiani: la religione che ricevettero venne dunque filtrata attraverso il setaccio persiano.

Quando i Selgiuchidi fondarono una propria dinastia in Iran e in Iraq, l’amministrazione e la letteratura del regno assunsero una forma persiana, e quando un ramo della famiglia si mosse verso ovest per conquistare l’Anatolia e fondare così l’Impero Ottomano, il persiano venne adottato come lingua di cultura.

Le conquiste Mongole e Timuridi, per quanto distruttive, contribuirono a loro volta al successo della lingua persiana:

  • da una parte, i Mongoli, non essendo legati all’arabo in quanto lingua della religione, patrocinarono la cultura persiana in Iran (impiegando amministratori locali, cioè iraniani) anche in quei settori che finora erano stati riservati all’arabo;
  • dall’altra, la devastazione provocata dalle loro conquiste spinse i più importanti studiosi iraniani a cercare salvezza (e patrocinio) altrove, per lo più nell’India musulmana.

Sotto il governo dei sultani di Dehli e soprattutto dei sultani Mughal, la letteratura indo-islamica, le arti e l’amministrazione imperiale furono persiane nella lingua e nella forma, tanto che alcuni dei più raffinati prodotti della cultura persiana vennero realizzati proprio nei territori Mughal.

Pertanto, dal 1000 al 1800, il persiano fu, in tutto il mondo islamico, la lingua rappresentativa della cultura elevata:

anche quando venne eclissata da altri idiomi (l’inglese e poi l’urdu e l’hindi in India, il turco e l’arabo nelle ex province dell’Impero Ottomano), la lingua persiana influì in modo percepibile su molti livelli.

La letteratura persiana ha trovato, fra gli autori occidentali, degli ammiratori anche in Johann Goethe e in Giacomo Puccini con l’opera Turandot.

E’ chiaro che i persiani hanno molto di cui andare fieri, in quanto popolo che è stato alla guida di un vero e proprio impero nell’età pre-islamica e che ha poi dominato la cultura e l’amministrazione nell’età islamica.

La tarda comparsa, nel 1907, di una dominazione occidentale indiretta sull’Iran (cioè quando il paese venne diviso tra Russia e Inghilterra in sfere di influenza), rese evidente che il patriottismo degli iraniani non si era mai veramente sopito.

Inoltre, la resistenza del popolo persiano alla diffusione dell’arabo, insieme all’identità Sciita dell’Islam, hanno contribuito per secoli a determinare un sentimento di unione nazionale.

Il rovescio della medaglia risiede nel fatto che, quando la posizione dell’Iran sulla scena internazionale non si è rivelata all’altezza delle ambizioni e delle aspettative interne, siano state cercate occasionalmente spiegazioni bizzarre (e pericolose) per giustificare la situazione.

Dall’inizio del 1900, quando l’intervento straniero nel paese ha raggiunto il suo apice, sono circolate ampiamente ipotesi che connettevano le disgrazie dell’Iran a complotti segreti orditi da russi, inglesi, americani, crociati/cristiani, sionisti/ebrei, massoni ecc.

Alcune risultano, in effetti, meno eccentriche di altri:

la CIA orchestrò davvero il colpo di Stato che nel 1953 rovesciò il governo iraniano, ma è comunque irragionevole pensare che l’Ayatollah Khomeini fosse un agente inglese o americano, o che gli ebrei e i massoni avessero cospirato sin dall’inizio per promuovere l’ellenismo (sic) ai danni dell’Iran.

E’ indubbio, però, che l’Iran e i persiani abbiano avuto un’influenza realmente decisiva sull’assetto della civiltà islamica:

per molti versi, tuttavia, non avrebbero mai potuto farlo senza i turchi.

I turchi

Il coinvolgimento dei turchi nella storia dell’Islam è pieno di sorprese, quasi tutte gradevoli.

La prima sorpresa consiste nel fatto stesso che vi siano stati coinvolti.

Nel corso della loro storia pre-islamica, i turchi avevano istituito una serie di imperi (522-840 d.c. ma durati fino al 1000 nelle regioni occidentali della steppa eurasiatica) e adottato varie religioni lungo il loro cammino, inclusi il Manicheismo[3], il Buddhismo, il Cristianesimo nestoriano[4] e l’Ebraismo, conservando allo stesso tempo le espressioni tradizionali dello Sciamanesimo[5].

Inoltre, diversamente dagli arabi e dai persiani, i turchi, la cui madrepatria si trovava in Mongolia, non erano nativi del Vicino Oriente.

In quanto nomadi delle steppe eurasiatiche, essi indugiavano sul ciglio della stanzialità, percorrendo le rotte che andavano da est a ovest e stabilendo solo occasionalmente delle proprie entità statali.

L’impero dei turchi uighuri (744-840 d.c.) ad esempio intrattenne strette relazioni con i cinesi, barattando cavalli in cambio di seta (a prezzo favorevole per i turchi) e concludendo anche trattati matrimoniali con le famiglie regnanti della Cina.

Come per gli Unni nei secoli precedenti e i Mongoli in quelli successivi, il loro obiettivo finale era rappresentato dalla civiltà cinese:

se avessero avuto la possibilità di scegliere, i turchi avrebbero preferito il mondo sedentario della Cina a quello del Vicino Oriente.

Perciò, quando essi penetrarono per la prima volta nel mondo islamico, lo fecero contro la propria volontà, in qualità di schiavi militari, negli anni ’20 del ‘900 d.c.

E’ importante notare che, sebbene siano uniti da legami etnici e linguistici, i “turchi” consistono in numerosi gruppi imparentati solo blandamente gli uni agli altri: tutt’ora popoli turchi imparentati tra loro, ma essenzialmente indipendenti, vivono sparsi in una vasta area dell’Asia, che va dalla Turchia attraverso la Russia meridionale, l’Iran e l’Asia Centrale fino all’ovest della Cina.

E mentre i primi turchi penetrarono nel mondo islamico in qualità di giovani schiavi-soldato, altri vi entrarono più tardi liberamente, dopo essere stati convertiti alla fine del ‘900 d.c. dalla predicazione di mercanti e maestri Sufi (i quali dovevano somigliare agli sciamani delle loro religioni).

Nel caso dei Qarakhanidi in Transoxiana (992-1212), fu il mondo islamico ad andare incontro ai turchi;

nella maggior parte degli altri casi, invece, furono i turchi ad avvicinarsi al mondo islamico.

La seconda sorpresa consiste nel fatto che gli schiavi-soldato turchi (Ghulam), fieramente fedeli al loro Califfo e privi di ambizioni politiche, finirono in breve per dominare la corte Abbaside nel ‘900 d.c. e fondare dei propri stati, a partire dai Mamelucchi in Occidente, fino ai Ghaznavidi e ai Sultani di Dehli in Oriente.

Di grande importanza politica furono quei turchi che giunsero nel mondo islamico partendo da una posizione di forza, come invasori, e che conquistarono potere e prestigio alla vecchia maniera, con una combinazione di diplomazia, strategia, collante ideologico e abilità militare.

I Selgiuchidi, gli Ottomani, i Mughal e i Safavidi appartengono tutti a  questa categoria.

Quando nel 900 d.c. i califfi Al-Mamun e Al-Mutasim iniziarono a “importare” i turchi nei territori islamici, non avrebbero mai immaginato che gli ultimi a detenere la carica califfale (abolita dagli Ottomani nel 1924) sarebbero stati proprio i turchi (liberi per nascita).

Per oltre un millennio, dunque, la maggioranza dei musulmani visse sotto il governo o la protezione dei turchi.

Non sorprende che la terminologia e le pratiche amministrative turche abbiano lasciato la loro impronta nella storia dell’Islam, in particolare nel periodo classico e nella prima età moderna.

In effetti, anche la parola “impronta”, “timbro” (in arabo moderno Dangha) è un antico termine turco usato per indicare il “marchio tribale” in età pre-islamica e l’”imposta sul commercio” al tempo dei mongoli.

Il fortunato cammino di questa parola, dall’antica Mongolia fino al mondo arabo  contemporaneo, mostra chiaramente l’ampiezza e la portata dell’azione dei turchi nella storia.

La terza sorpresa sta nel fatto che i turchi scelsero spesso di diffondere e incrementare la letteratura persiana piuttosto che quella turca.

Sebbene anche i turchi avessero creato proprie opere letterarie (i più antichi documenti turchi risalgono al ‘700 d.c. e già un secolo dopo vennero composte opere turco-islamiche, come un Dizionario arabo-turco), essi si affidarono al persiano per la propria cultura letteraria, come evidenzia un proverbio del 1000 secondo il quale “non può esserci turco senza un iraniano, così come non c’è cappello senza una testa”.

A partire dal 1300, nelle corti turche si cominciò a produrre letteratura sia in turco occidentale (ottomano) sia in turco orientale (chagatai): di conseguenza, le memorie di Babur vennero scritte in chagatai, nonostante l’alta cultura alla corte Mughal si esprimesse in persiano.

Fa sorridere che uno dei fondatori della cultura letteraria turca, Ali Shir Nava’i (1441-1501), abbia scritto un’opera polemica sulla “superiorità dei turchi sui persiani” usando un vocabolario che era persiano per quasi i 2/3.

Due ulteriori elementi di sorpresa, entrambi attinenti al mondo della cultura, riguardano il simbolo della Mezzaluna e della Stella, al quale spesso si associa l’Islam ma che in realtà vanta antiche origini turche (anziché arabe o persiane), e il fatto che i turchi abbiano letteralmente “nutrito” la civiltà islamica in ambito culinario: lo yogurt, le foglie di vite stufate, il kebab e altri piatti molto conosciuti nascono tutti con i turchi.

E se è vera la leggenda secondo cui i cornetti furono creati dai panettieri viennesi per celebrare il fallito assedio ottomano alla loro città nel 1683, allora siamo debitori (anche se indirettamente) anche di quelli.

Un’ultima sorpresa consiste nel fatto che un popolo come quello turco, per tanto tempo associato alle prodezze militari, si sia sempre dimostrato incredibilmente tollerante e aperto nei confronti delle altre culture e religioni.

A causa degli spostamenti lungo le vie della steppa eurasiatica, i turchi sono stati esposti ad assetti culturali diversi dal loro, in un modo che altri nomadi non hanno potuto sperimentare (come gli arabi che, durante le loro migrazioni stagionali, entrarono in contatto con popolazioni stanziate nel nord, sud ed est dei loro territori, che erano fondamentalmente versioni sedentarie di loro stessi).

Per questo motivo, i turchi vantano una lunga tradizione di inclusione deliberata nella propria cultura di elementi tratti da altre culture, come dimostra l’adozione delle “lettere altrui”:

sia in senso figurato, come la raffinata cultura persiana, sia in senso proprio, con l’utilizzo di vari alfabeti, prima di accettare (al pari di altri popoli musulmani) la forma scritta dell’arabo.

Significativamente, la capacità dei turchi di adattarsi ai  cambiamenti delle circostanze storiche li ha condotti, a differenza degli arabi e dei persiani, ad adottare nel 1900 un alfabeto latino: un cambiamento intrapreso non solo dai turchi della Turchia, ma anche da quelli dell’Uzbekistan, del Turkmenistan e dell’Azerbaijan.

In un certo senso, i turchi hanno dimostrato di essere sia abili nell’identificare le tendenze vincenti, sia abbastanza flessibili dall’allineare la propria società a tali tendenze.

Questa abilità si riconosce nell’adozione dell’Islam, del persiano come lingua letteraria, della polvere da sparo (un’arma contraria alla natura delle loro tradizioni originarie) e della modernità.

Se quindi gli arabi e i persiani potrebbero protestare dicendo di essere troppo orgogliosi delle proprie tradizioni per abbandonarle sotto pressioni esterne, i turchi potrebbero ribattere che nell’adottare la cultura predominante e nell’adattarsi ad essa (in questo caso la modernità) anche loro stanno rimanendo fedeli alla propria tradizione.

Conclusioni

Sin dal ‘900 d.c. i giuristi musulmani si sono riferiti al mondo islamico come alla “casa” o alla “dimora” dell’Islam (Dar Al-Islam).

Sebbene le fonti non vadano oltre questa metafora, io sono tentato di farlo.

Seguendo la metafora, si potrebbe dire che:

  • la terra sulla quale è stata edificata la “casa” è stata dapprima “acquistata” dagli arabi, i quali hanno dato alla casa una pianta architettonica e delle fondamenta
  • la maggior parte dei mattoni e dei muratori della casa furono persiani
  • ma per gran parte della storia dell’Islam, dal ‘900 al 1800, i suoi proprietari furono turchi

Gli Sciiti, da parte loro, hanno creduto a lungo che la “casa” poggiasse su fondamenta instabili, e che oggi l’”edificio” è stato suddiviso in singoli appartamenti di diversa ampiezza.

A partire dal 1700 l’”arredamento” è stato dominato dallo stile occidentale, che però in certi “appartamenti” si è scontrato con quello tradizionale, creando alcuni elementi di particolare bruttezza.

Gli Islamisti potrebbero commentare che gli “appartamenti” sono poco più che squallide “stanze di motel”, e per questo motivo essi vorrebbero radere al suolo l’”edificio” e ricostruirlo nella forma di una “casa unifamiliare”.

Ciò che questa estesa metafora vuole mostrare è come i vari popoli della storia dell’Islam abbiano interagito e cooperato nel costruire qualcosa in cui tutti loro occupano un posto importante e a cui tutti hanno contribuito, sebbene in modi diversi.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

[1] Nasser è stato un politico e militare egiziano, secondo Presidente della Repubblica egiziana, dal 23 giugno 1956 al 28 settembre 1970.

Gamāl ʿAbd al-Nāṣer, in Occidente semplicemente Nasser guidò il colpo di Stato repubblicano (1952) che abbatté la monarchia di re Fārūq I. Venne nominato Primo ministro nel 1954.

Tale momento segnò l’inizio di una lunga gestione del potere che lo vide diventare Presidente dell’Egitto dopo aver destituito il gen. Muḥammad Naǧīb.

[2] https://it.wikipedia.org/wiki/Persia

[3] https://it.wikipedia.org/wiki/Manicheismo

[4] https://it.wikipedia.org/wiki/Nestorianesimo

[5] https://it.wikipedia.org/wiki/Sciamanesimo

Islam 1

‘600-‘800 d.c.

Sia secondo la tradizione islamica, sia secondo la maggior parte degli storici moderni, l’Islam ha avuto origine in Arabia.

Per i musulmani questo non è avvenuto ai tempi di Muhammad ma ai tempi di Abramo, il quale (insieme al figlio Ismaele, progenitore degli arabi) edificò a Mecca la Ka’ba[1], verso la quale milioni di musulmani si recano in pellegrinaggio ancora oggi.

La porzione di Arabia che ci interessa maggiormente è quella occidentale di Hijaz, dove sono situate Mecca e Medina.

Muhammad nacque a Mecca nel 570 d.c. all’interno della tribù Quraysh, la quale era al governo della città.

Nel 610 d.c., a 40 anni, Muhammad iniziò a ricevere le rivelazioni che sarebbero poi divenute i versetti del Corano: egli le condivise prima con i suoi amici e parenti, e infine con gli altri abitanti di Mecca.

Il messaggio monoteistico di Muhammad era però incompatibile con la cultura politeista della città, e così, nel 622 d.c., dovette fuggire da Mecca insieme ai suoi seguaci.

Muhammad si stabilì pertanto a Medina, un’oasi popolata anche da un ampio numero di ebrei, dove il suo messaggio su Dio, sulla fine dei tempi, sul digiuno e sulla carità risultava familiare e non minaccioso.

Muhammad venne così ben accolto nella città, dove ricoprì addirittura la funzione di giudice per alcune dispute che dividevano la popolazione.

L’emigrazione di Muhammad e dei suoi sostenitori (Hijra) segnò il punto di partenza tanto per la sua carriera come “uomo di Stato” quanto per il calendario islamico.

Da Medina, ormai diventata la sua base, Muhammad diede inizio alla costituzione di una nuova comunità (la Umma), composta dai compagni emigrati con lui e dai suoi nuovi seguaci.

Quando si incrinarono le sue relazioni con gli ebrei, essi vennero gradualmente espulsi dalla città, mentre i meccani pagani vennero definitivamente sconfitti nel 630 d.c.

Negli anni successivi, Muhammad riuscì a unificare le tribù dell’Arabia sotto il vessillo della Umma.

I successi di Muhammad furono generalmente accolti come un segno del favore divino, e, in quanto tali, incoraggiarono le tribù di tutta l’Arabia a convertirsi.

Muhammad viene descritto dalle fonti antiche come un mortale che visse da fallibile e ordinario essere umano, e che morì, nel 632 d.c., come uomo:

nel Corano, Dio lo rimprovera ripetutamente.

Tuttavia, la tradizione islamica negli anni seguenti ha stabilito che egli fosse infallibile.

La morte di Muhammad causò due diverse reazioni a catena le cui conseguenze furono di fondamentale importanza.

Da un lato, infatti, emersero le sette islamiche;

dall’altro, si costituì un vero e proprio Impero islamico.

Una prima reazione riguardò quei gruppi che ritenevano che la morte del Profeta rappresentasse l’inizio di un’epoca;

una seconda reazione fu invece di coloro che ritenevano ne fosse la fine.

Costituì l’inizio di un’epoca per quei musulmani che si sottomisero al governo del Califfo (“successore”), il quale assunse la guida della comunità poco dopo la morte di Muhammad.

Il regno del primo Califfo, Abu Bakr (632-634 d.c.), venne speso soprattutto nel fare i conti con quelle tribù la cui conversione all’Islam era stata indissolubilmente legata alla figura dello stesso Muhammad, e che affermavano che, una volta morto il profeta, anche il loro “contratto” stipulato con lui fosse nullo.

Alcune tribù conservarono la nuova identità religiosa, ma rifiutarono di continuare a pagare i tributi e di rimanere fedeli alla Umma.

Altre tribù tornarono invece alle loro religioni pre-islamiche.

Tutti questi gruppi vennero considerati alla stregua di apostati[2] politici e religiosi, il cui “ritorno all’ovile” era di fondamentale importanza.

Le conseguenti “guerre all’apostasia” (Ridda) riuscirono non solo a realizzare questo obiettivo, ma anche a determinare lo slancio per ulteriori conquiste al di fuori della penisola arabica.

Molti arabi erano pastori nomadi e confidavano, per la loro sussistenza, sulle razzie a danno degli altri gruppi.

L’unificazione delle numerose tribù dell’Arabia sotto un neonato vessillo religioso instillò in loro un nuovo senso di coesione sociale e un obiettivo spirituale che seppe sfruttare il bisogno dei nomadi di razziare, ma privava allo stesso tempo gli arabi delle loro vittime più ovvie.

Dal momento che i musulmani non potevano fare razzie gli uni contro gli altri, essi si rivolsero allora contro i propri vicini di Iran, Iraq, Siria, Egitto e Nord Africa.

Queste razzie, però, erano differenti: per la prima volta, infatti, anziché saccheggiare semplicemente le popolazioni stanziali del Vicino Oriente, i nomadi importavano qualcosa di proprio, ossia un nuovo messaggio religioso.

Questo messaggio non fu accolto né dai sovrani bizantini[3] dell’Ovest, né da quelli Sasanidi[4] dell’Est: tuttavia, i loro sudditi furono più ricettivi, almeno nei confronti dell’egemonia dei musulmani.

Che le conquiste del Vicino Oriente avessero suscitato sugli uomini dell’epoca un’impressione così forte è reso evidente dal fatto che sia i conquistatori sia i conquistati erano certi che dovesse essere la mano di Dio a guidare gli eventi.

I musulmani interpretavano il loro successo come una “ricompensa” di Dio nei loro confronti per aver seguito la sua volontà;

i cristiani erano certi che le proprie sconfitte fossero una “punizione divina” per i loro peccati;

alcuni ebrei vedevano nell’Islam una parte del progetto di Dio volto a diffondere il monoteismo presso i lontani pagani dell’Hijaz.

Gli storici moderni hanno cercato altre spiegazioni per il successo della conquista musulmana araba, basandosi su tre principali teorie:

1 Le potenze imperiali erano deboli, avendo combattuto l’una contro l’altra nel corso dei secoli precedenti, prima di arrivare a una tregua costosa ed estenuante.

2 Una parte della popolazione del Vicino Oriente era ansiosa di sostituire i propri sovrani con monarchi più benevoli, avendo accumulato lagnanze dopo secoli di politiche impopolari in campo religioso ed economico.

3 Gli arabi avevano un vantaggio militare notevole sugli eserciti bizantino e sasanide, e riuscirono a sfruttare a proprio favore diversi fattori:

  • Il fervore religioso
  • L’elemento-sorpresa
  • La familiarità con le tattiche bizantine e sasanidi
  • La capacità di ritirarsi nel deserto o sulle montagne

In qualunque modo si giustifica il loro successo, gli arabi arrivarono in Vicino Oriente e in Nord Africa nella seconda metà del ‘600 d.c. e lì vi rimasero, edificando piazzeforti in Egitto, Iran Orientale e Iraq.

Entro la fine del ‘700 d.c. le piazzeforti erano diventate città pienamente sviluppate e gli arabi si erano avventurati nei villaggi e nelle città del Vicino Oriente, lasciando un segno durevole nel paesaggio.

Solo in Siria i conquistatori arabi si stabilirono in città già costruite (unendosi ad altri arabi che vi si erano stabiliti in età pre-islamica).

La diffusione dell’allevamento dei cammelli nei territori conquistati accelerò quel processo per cui le inefficienti vetture a ruote, che necessitavano di una manutenzione impegnativa e richiedevano strade lastricate, furono sostituite dai più semplici ed economici cammelli arabi.

Nelle province conquistate dall’Impero Bizantino, le ampie e rettilinee strade romane lasciarono così il posto ai vicoli ventosi e stretti ancora oggi visibili nei vecchi quartieri delle città del Vicino Oriente.

Le stesse piazzeforti divennero importanti centri economici, attirandovi gli abitanti non musulmani dagli insediamenti circostanti, e ridisegnano la mappa del Vicino Oriente.

Fu però la diffusione dell’arabo e dell’Islam a rappresentare la più significativa conseguenza delle prime conquiste.

Mentre le vittorie cruciali sugli imperi ebbero luogo durante il regno del secondo Califfo Umar (634-644 d.c.), fu sotto i califfi Umayyadi (661-750 d.c.) che la cultura araba e il dominio islamico si diffusero dalla Penisola Iberica fino al Punjab[5], fissando grossomodo le frontiere del mondo islamico per i secoli a venire.

Per alcuni musulmani del tardo 600 d.c., gli Umayyadi non avrebbero dovuto affatto essere califfi:

i loro quattro predecessori (Abu Bakr, Umar, Uthman e Ali) erano infatti tutti imparentati con Muhammad tramite legami matrimoniali o di sangue, e il regno di questi quattro califfi (noti come “califfi ben guidati”, Rashidun) è tuttora ricordato per essere stato una sorta di “età dell’oro”, durante la quale la Umma è stata governata secondo i “principi islamici”.

Gli Sciiti sono coloro che credono che Ali sarebbe dovuto succedere a Muhammad immediatamente.

Uthman era un genero di Muhammad e gli viene attribuito il merito di avere ordinato la stesura di una versione autoritativa del Corano.

Gli Umayyadi, al contrario, non erano direttamente imparentati con Muhammad, e inoltre si dice anche che gli si opposero apertamente, convertendosi all’Islam solo per necessità, in un momento tardo della carriera del Profeta.

Quando Uthman venne assassinato, emersero due pretendenti alla carica califfale:

  • Ali
  • Mu’awiya, un umayyade consanguineo di Uthman, che reclamava il diritto di vendicarne la morte

Ali divenne Califfo nel 656 d.c., ma dovette lottare per far riconoscere largamente il suo potere, al punto che già un anno dopo dovette aprire alle trattative con Mu’awiya.

Per molti dei sostenitori di Ali, questo non sarebbe dovuto mai accadere (“il giudizio appartiene unicamente a Dio” era il loro motto), e così essi si distaccarono dal suo fronte, ragion per cui sono noti come “secessionisti” (Kharijiti).

La posizione che i Kharijiti mantennero riguardo al diritto a governare li spinse a considerare i dissidenti meritevoli di morte: la loro vittima più eminente fu proprio Ali, che nel 661 d.c. venne assassinato.

Con la morte di Ali, ebbe fine l’epoca dei “califfi ben guidati”.

Il sanguinoso conflitto che ne seguì divenne noto come la prima “guerra civile” della storia dell’Islam (Fitna) e condusse all’ascesa di Mu’awiya al potere, anche se a questo punto il periodo di unità all’interno della Umma era ormai compromesso.

Mu’awiya trasferì la capitale a Damasco e designò come proprio successore il figlio Yazid (680-683 d.c.), stabilendo così un principio di successione ereditaria a causa del quale gli Umayyadi vennero fortemente avversati.

Yazid andò incontro a problemi molto presto, quando uccise il figlio di Ali, Hussein, nel 680 d.c.: questo episodio sancì la sua infamia nella memoria degli Sciiti. Né Yazid né suo fratello Mu’awiya II (683 d.c.) governarono a lungo.

Una seconda Fitna nel 680-692 d.c. provocò grandi sconvolgimenti, e fu solo con il regno di Abd Al-Malik (692-705 d.c.) che la sovranità degli Umayyadi poté essere restaurata.

Il 692 d.c. fu noto come un “anno di unità”: furono infatti prese alcune misure amministrative allo scopo di rafforzare il controllo del Califfo sui sudditi, in modo da prevenire future sfide alla sua autorità.

In effetti, ad Abd Al-Malik e ai suoi successori, per quanto generalmente diffamati dalle fonti e ricordati come “sovrani empi” si riconosce a malincuore il merito di avere dato contributi di lungo effetto alla città islamica.

Furono loro a imporre l’arabo come lingua amministrativa ufficiale dei territori islamici e a estendere i confini verso Ovest (fino alla Spagna e al Marocco) e verso Est (fino al Pakistan e all’Asia Centrale).

Il controllo del Califfo sulle sue province fu rafforzato: le tradizionali politiche tribali di decentralizzazione lasciarono il posto a più funzionali organizzazioni imperiali.

Venne inoltre imposta dalle istituzioni califfali una identità consapevolmente araba e islamica:

  • Vennero coniate “monete islamiche”
  • L’arabo sostituì il greco, il persiano e il copto[6] negli uffici amministrativi (aprendo così la strada alla partecipazione dei musulmani nell’amministrazione)
  • Venne edificata a Gerusalemme la Cupola della Roccia[7] sul Monte del Tempio: questo monumento contrastava le attese messianiche dell’Ebraismo e recava un’iscrizione di sfida alle dottrine fondamentali del Cristianesimo

Il messaggio era quindi chiaramente comprensibile a tutti: l’Islam era arrivato.

Ma che cosa significava “Islam” a quell’epoca?

Il più grande problema degli Umayyadi era proprio il fatto che la loro risposta a questa domanda differiva radicalmente da quella degli (auto-designati) esperti di scienza religiosa, gli Ulama, i quali al tempo disponevano di un grande sostegno popolare e che successivamente avrebbero scritto i libri di storia.

Per gli Umayyadi la morte di Muhammad era stata davvero la fine di un’epoca: dal momento che egli era “il sigillo dei profeti”, la volontà di Dio non sarebbe stata mai più comunicata per il tramite di uomini portatori di Scritture.

Al contrario, sarebbero stati i califfi a servire da “rappresentanti di Dio” in terra: quella era l’”epoca dei califfi” ed erano loro, gli Umayyadi, a detenere l’autorità religiosa.

Per gli esperti di religione come gli Ulama, invece, si trattava di un’assurdità: Dio aveva dato alla Umma tutto ciò che era necessario sapere.

Qualora qualcosa non si trovasse nel Corano, la si poteva ricavare dalle affermazioni e dalle azioni stesse di Muhammad.

Poiché, quindi, nessuno conosceva queste cose meglio degli Ulama, l’autorità religiosa sarebbe dovuta appartenere a loro.

Purtroppo per gli Umayyadi, non solo una grande porzione di loro sudditi musulmani concordava con gli Ulama, ma molti altri musulmani avevano ulteriori obiezioni teologiche alla loro pretesa al Califfato.

Inoltre, per gran parte del periodo Umayyade, la conversione all’Islam dei popoli conquistati venne scoraggiata dagli altri califfi, il che significava sia che veniva sempre meno sopportato il governo degli Umayyadi (i non musulmani infatti pagavano più tasse) e sia che la maggioranza dei sudditi dei califfi si componeva di non musulmani.

Gli arabi musulmani, i non arabi musulmani, gli arabi non musulmani e chi non era né arabo né musulmano: tutti avevano motivo di opporsi agli Umayyadi.

Così, gli Umayyadi vennero detronizzati nel 750 d.c. da quella che fu in sostanza una rivolta degli Sciiti partita da Oriente, che portò sul trono gli Abbasidi.

Gli Abbasidi (750 d.c.-1258) si dichiaravano discendenti di uno degli zii di Muhammad e promettevano di mettere fine alle ingiustizie degli Umayyadi: essi trasferirono il centro del potere dalla Siria verso Oriente, spostando la capitale da Damasco a Baghdad nel 762 d.c.

Tuttavia, come accadde per gli Umayyadi, anche gli Abbasidi versarono il sangue di leader carismatici musulmani, assassinando gli stessi artefici della loro rivoluzione, fondando essi stessi una dinastia e reclamando per sé l’autorità religiosa.

Anch’essi, inoltre, intensificarono la transizione da uno “Stato a maglie larghe” basato sulle tribù, a un “Impero sofisticato”.

Entro il regno di Harun Al-Rashid (786-909 d.c.) il Vicino Oriente si era ormai avviato, per molti versi, lungo un cammino che lo avrebbe visto trasformarsi fino a rendersi irriconoscibile.

‘800-1100

Che l’Islam esista, come abbiamo visto, è un fatto dovuto agli avvenimenti accaduti nel periodo 600-800 d.c.:

che esso abbia l’aspetto che ha oggi si deve invece in buona parte agli avvenimenti del periodo 800-1100.

Come i cammelli costituirono un elemento importante del primo periodo, le carovane furono rappresentative del secondo periodo.

Una carovana è composta da numerosi cammelli guidati da un gruppo di viaggiatori.

Questo rifletteva una delle maggiori differenze tra gli Umayyadi e gli Abbasidi:

mentre gli Umayyadi crearono un “Impero arabo” decisamente esclusivo, gli Abbasidi furono cosmopoliti e inclusivi, conferendo potere anche ai non arabi (soprattutto a coloro che erano di cultura persiana: caravan è peraltro un termine persiano) assorbendoli all’interno dell’Islam.

Le carovane costituirono un elemento centrale di questo periodo anche perché esse percorrevano le strade che collegavano tra loro le province Abbasidi, le quali erano estese irregolarmente nel territorio, trasportando pellegrini, mercanti, messaggeri, studiosi e soldati attraverso una rete stradale che incoraggiava un livello nuovo di multiculturalismo e di interconnessione.

Alla base di questo successo c’erano basi incredibilmente simili a quelle che vengono attribuite alla nascita dell’Occidente moderno.

Anziché una “rivoluzione della stampa”, però, l’Islam sperimentò una “rivoluzione della carta”, grazie alla quale sistemi di scrittura più costosi ed elitari (come i papiri e le pergamene) vennero sostituiti per l’appunto dalla più economica carta.

Si ritiene quindi che il livello di alfabetizzazione fosse cresciuto radicalmente, creando un nuovo pubblico di lettori capace di avvicinarsi (e di produrre) nuovi generi letterari.

Tutto, dalla poesia pre-islamica alle opere di filosofia, medicina, teologia, scienza ecc. venne registrato in forma scritta: ne derivò una commisurata rigogliosità della cultura e delle civiltà islamiche, che avrebbe poi dato origine in seno al mondo islamico a una variegata élite civile.

Anche i villaggi e il commercio prosperarono in questo periodo, nutrendosi di una grande fioritura culturale e alimentandola a loro volta.

Questo non solo significò che, sulla base delle nuove conoscenze delle terre lontane, si potessero pubblicare diari di viaggio, mappe, testi geografici ecc. ma anche che i mercanti del Vicino Oriente estesero le loro competenze e i loro orizzonti ben oltre i confini stessi dell’Impero Abbaside (si parla addirittura di viaggi in Francia e Cina).

Anche la diffusione dell’industria cartiera, partita dalla Cina fino al Vicino Oriente, è istruttiva di questo contesto: le nostre fonti ci raccontano che i musulmani sconfissero un’armata cinese nel 751 d.c., facendo prigionieri alcuni artigiani cartai, dai quali appresero le tecniche di fabbricazione della carta.

Ciò che è interessante è notare che anche circostanze molto ostili, come quella di una sanguinosa battaglia in Asia Centrale, non impedirono quasi per nulla lo scambio interculturale e la diffusione di merci, persone e idee.

Nel periodo Abbaside, infatti, i musulmani aprirono fronti in Spagna, Asia Centrale, India, Africa e Sud Europa: il racconto sui fabbricanti di carta cinesi ci ricorda che incontri simili venivano considerati dagli autori della storia come eventi capaci di offrire nuove occasioni all’interazione culturale quanto di soffocarla.

Questa “età dell’oro” della civiltà islamica fu resa possibile da un delicato bilanciamento di circostanze favorevoli, e in particolare da un costante flusso di introiti nelle casse del Tesoro califfale, supportato dal lavoro di contabili efficienti e dall’esistenza di una relativa stabilità all’interno dei territori Abbasidi.

Tale equilibrio venne però turbato a partire dal 900 d.c.: da allora, le condizioni per l’espansione globale degli Abbasidi non si sarebbero più ricreate.

La ricchezza portata dal commercio e dalle tassazioni iniziò a diminuire per svariati motivi.

La regione del Sawad, in Iraq, dove si concentrò buona parte della produzione agricola degli Abbasidi e che fino ad allora era stata prudentemente tenuta sotto controllo, venne gettata nel caos da una rivolta kharijita degli schiavi africani che erano lì impiegati.

Inoltre, i governatori delle regioni periferiche iniziarono a investire localmente gli introiti delle tassazioni anziché inviare il denaro alla capitale, conquistando un’indipendenza economica cui spesso seguiva un’indipendenza politica.

Fu poi questo il periodo in cui la massiccia conversione all’Islam da parte dei non arabi, pur aumentando la diffusione della religione, portò di contro anche alla riduzione delle entrate derivanti dalle tassazioni pro capite.

A peggiorare le cose, ciò che rimaneva nelle casse imperiali veniva rapidamente sperperato da una corte scialacquatrice che si espandeva ben al di là delle proprie possibilità e dei propri bisogni creando nuove élites dominanti, spesso molto più costose che funzionali.

Fu in questo periodo che gli Abbasidi iniziarono a perdere la loro autorità politica, militare e religiosa: ed ecco come ciò avvenne.

Da un punto di vista politico, gli Abbasidi stentavano a tenere uniti i loro vasti domini: con un Impero che si estendeva per circa 6.500 km da Est ad Ovest, e senza i vantaggi dei moderni sistemi di comunicazione, era ovvio che alcuni sudditi aspirassero a un certo grado di indipendenza.

Corrieri, piccioni viaggiatori, fari e altri mezzi di comunicazione poterono in qualche misura coprire l’enorme estensione dell’impero, ma la frammentazione politica era forse solo una questione di tempo.

Del resto, già durante il colpo di mano Abbaside un Principe Umayyade era fuggito in Andalusia, dove vi stabilì uno Stato indipendente che, sotto Al-Rahmann III (912-961 d.c.) e i suoi successori sarebbe poi diventato un “Califfato” nonché un centro di raffinata cultura.

Quando gli Abbasidi trasferirono il potere e l’attenzione a Oriente, le province Occidentali del Califfato si affrancarono l’una all’altra:

  • Il Marocco sotto gli Idrisidi[8]
  • Il resto del Nord Africa sotto gli Aghlabidi[9]
  • L’Egitto sotto i Tulunidi[10]
  • La Siria sotto i Califfi Fatimidi[11]

Anche le province orientali cercarono una certa indipendenza, con i Tahiridi, i Samanidi e i Ghaznavidi[12], i quali avevano base in Afghanistan.

Mentre, con qualche eccezione, queste dinastie orientali tesero a cooperare con gli Abbasidi e a riconoscerli formalmente, le dinastie occidentali (gli Umayyadi dell’Andalusia, gli Idrisidi e i Fatimidi) invece non lo fecero.

In pratica, anche se per ragioni meramente geografiche, gli Abbasidi ebbero spesso un’interazione maggiore con i territori sleali dell’Egitto e della Siria, e con quelli almeno nominalmente leali dell’Iran Orientale e dell’Asia Centrale.

Da un punto di vista militare, nell’800 d.c. gli Abbasidi rimpiazzarono l’esercito che li aveva portati al potere con degli schiavi-soldato turchi (ghulam o mamluk), comprati o fatti prigionieri in Asia Centrale.

I turchi erano attraenti per diverse ragioni:

  • Essendo stranieri, non erano interessati alle alleanze locali e alle pressioni del popolo: la loro fedeltà era dovuta direttamente ai Califfi
  • Erano eccellenti arcieri a cavallo
  • La loro condizione di schiavi turchi (per quanto convertiti all’Islam) significava che non avrebbero mai potuto avanzare pretese alla carica califfale

In teoria, gli schiavi-soldato erano un’idea grandiosa, ma presto essi sfuggirono di mano ai Califfi.

All’inizio venne fondata una nuova capitale a Smarra, nell’838 d.c., per ospitarli e tenerli lontani dalla popolazione di Baghdad, con la quale erano entrati in conflitto.

In seguito, essi riuscirono a sottrarre il potere effettivo ai musulmani nati liberi in tutto il mondo islamico, agendo da autorità politicamente influenti dalla seconda metà dell’800 d.c. in poi, quando assassinarono il Califfo Al Mutawakkil e i suoi tre successori.

Infine, i turchi prosciugarono il Tesoro dei suoi fondi, minando ulteriormente il potere del Califfo e causando una incontenibile emorragia delle sue risorse e della sua autorità.

Da un punto di vista religioso, gli Abbasidi furono vittime di una loro stessa iniziativa: a indebolirli fu, in particolare, l’insistenza sulla centralità di Muhammad nell’Islam.

Gli Abbasidi avevano giustificato il loro rovesciamento degli Umayyadi sottolineando la distanza di questi ultimi dal Profeta, ed esaltando allo stesso tempo il proprio (debole) legame con lui: ma avere come antenato uno degli zii di Muhammad non è esattamente la stessa cosa che essere un discendente diretto del Profeta, come facevano notare, insoddisfatti, gli Sciiti.

In ogni caso, gli Abbasidi erano coloro che erano riusciti a prendere il comando, e questo aveva un qualche valore di per sé.

Il problema nel far derivare legittimità e prestigio direttamente da Muhammad consisteva nel fatto che, così facendo, i Califfi Abbasidi stavano innalzando il Profeta a una condizione più elevata di quella di cui aveva goduto in precedenza, lasciando poco spazio per le stesse rivendicazioni degli Abbasidi sull’autorità religiosa.

Muhammad diede agli Abbasidi il diritto di governare, ma diede anche agli Ulama il diritto di definire l’ortodossia, dal momento che si credeva che costoro, ben più dei Califfi, avessero conservato una testimonianza accurata del “comportamento esemplare del Profeta” (la Sunna).

I Califfi finirono così per accettare lo status degli Ulama, ma non senza lottare: Al Mamun (813-833 d.c.) tentò di affermare la propria autorità religiosa, sottoponendo gli Ulama a una “inquisizione” (Mihna), durante la quale la posizione del Califfo su una certa questione di teologia veniva imposta a tutti gli studiosi per mezzo di periodiche indagini sull’opinione dei singoli Ulama.

La Mihna rimase parte della politica califfale finché Al Mutawakkil non vi rinunciò nell’848 d.c., quando era ormai chiaro che i Califfi avevano perduto sia la battaglia che la guerra: sorprendentemente, di lì a poco persino essi iniziarono a sostenere gli Ulama.

Alla metà del ‘900 d.c., i Califfi Abbasidi avevano ormai solo un vestigio di potere in Iraq, ma anche lì vennero umiliati dall’arrivo a Baghdad degli Sciiti Buyidi, invasori provenienti dall’Iran settentrionale, i quali rivitalizzarono alcune tradizioni Sasanidi ma mantennero gli Abbasidi sul trono califfale.

Da questo momento in poi, con poche eccezioni, i Califfi Abbasidi furono al massimo solo dei capi spirituali per il mondo islamico.

Gli Sciiti Buyidi governarono l’Iran e l’Iraq Occidentale dal 945 d.c. al 1055 e vennero poi soppiantati dai Sunniti Selgiuchidi (1037-1157): si trattava della prima delle numerose ondate di turchi che entrarono volontariamente nel mondo islamico.

Nonostante tutto ciò suoni come piuttosto negativo (e per gli Abbasidi lo fu sicuramente), alla fine di questo periodo l’Islam, inteso sia come religione sia come civiltà, era a dire il vero in ottima forma.

Con la frammentazione politica del Califfato e l’esistenza di altri due Califfati a Cordova e al Cairo, i simboli del potere Abbaside e della civiltà islamica in generale vennero esportati nelle varie corti che nel frattempo erano sorte in tutto il mondo islamico, causando importanti ramificazioni culturali e religiose.

L’esistenza di centri di cultura a livello regionale (molti dei quali modellati sulla corte Abbaside) fece sì che nuove energie politiche potessero concentrarsi in regioni che nei secoli precedenti erano state troppo distanti per attirare l’attenzione dei Califfi.

La diffusione dell’Islam oltre i suoi confini tradizionali, nella Grande Zona Arida, fu resa possibile proprio dall’azione dei sovrani regionali:

  • i Fatimidi e i Berberi[13], che dal Nord Africa erano avanzati nell’Africa Subsahariana;
  • i Ghaznavidi, entrati in India grazie alle incursioni lanciate dal Sultano Mahmud.

Così, in Africa, India e nel Sud-Est asiatico si aprì la strada per una conversione delle popolazioni su larga scala.

Fu di cruciale importanza anche il periodo in cui i Sunniti e gli Sciiti si modellarono a vicenda nelle forme riconoscibili in cui essi esistono ancora oggi.

La rivalità tra gli Sciiti Buyidi e Fatimidi da una parte, e i Sunniti Selgiuchidi e Ghznavidi dall’altra, diede a questo fenomeno un taglio molto ideologico.

Entrambe le parti sostennero gli Ulama, costruirono biblioteche e scuole di legge e inviarono insegnanti e missionari in tutte le terre islamiche (e oltre).

Al suo apice, il Califfato Fatimida dominava su Hijaz, Siria, Yemen, Egitto, Nord Africa, Sicilia e una parte dell’Africa Orientale.

Lo sciismo divulgato dai Fatimidi era però diverso da quello dei Buyidi.

Tutti gli Sciiti individuano la guida della Umma in una “linea” (Imamato) che parte da Alì e prosegue attraverso i suoi figli e i suoi discendenti.

Dopo la morte del sesto Imam, Jafar, nel 765 d.c., il Movimento Sciita si era diviso in due gruppi:

  • Alcuni seguirono suo figlio Ismail (da cui il termine Ismaeliti)
  • Altri seguirono un altro suo figlio, Musa: questo gruppo continuò a seguire la linea degli Imam, fino a quando nel 874 d.c. il 12’ Imam (da cui il termine Duodecimani) morì.

Sotto l’egida dei Fatimidi, lo Sciismo Ismaelita (e, sotto quella dei Buyidi, lo Sciismo Duodecimano) venne compiutamente sistematizzato, e così i Fatimidi poterono sfidare i loro rivali Sunniti su qualunque fronte in Oriente.

La risposta Sunnita alla sfida degli Sciiti fu imponente: nel periodo 800-1100 vennero assemblate le sei più prestigiose collezioni di Hadith (tradizioni su Muhammad).

Gli orientamenti filosofici, teologici e mistici interni all’Islam vennero allineati al Sunnismo ortodosso: emersero così le quattro scuole del pensiero giuridico islamico (Madhhhab).

Si ritiene che nel 900 d.c. il Sunnismo si fosse ormai definitivamente cristallizzato: gli studiosi affermano che da quel momento in poi la porta dell’”interpretazione del diritto islamico” (Ijitihad) sia stata serrata.

Nel 1094, con la morte dell’ultimo Califfo Fatimida, il Movimento Fatimida si scisse in due gruppi, uno dei quali sarebbe divenuto noto in Europa come quello degli Assassini.

Gli Assassini sconfissero i loro nemici non sbaragliando eserciti, ma eliminando direttamente i leader avversari (il nome del movimento deriva dal sospetto che essi facessero uso di hashish per tenere sotto controllo i nervi dei propri agenti prima che questi si gettassero incontro a una morte quasi certa).

Una delle prime vittime degli Assassini fu il Visir Selgiuchide Nizam Al Mulik, il quale costituiva il perno intorno al quale girava il potere dei Selgiuchidi: dalla sua uccisione, i Fatimidi e i Selgiuchidi dell’Iran e dell’Iraq avrebbero iniziato un inesorabile declino.

A questo punto, tuttavia, il Sunnismo e lo Sciismo erano ormai avviati sulle loro rispettive strade, e dipendevano molto meno dal patrocinio statale rispetto a prima.

Inoltre, in questo periodo i musulmani avevano ormai superato come numero i non musulmani nei territori islamici: si può dire che l’Islam avesse così raggiunto la sua “maggiore età”, in tutti i sensi.

1100-1500

Spesso ci si riferisce ai primi due periodi della storia dell’Islam definendoli rispettivamente “periodo formativo” e “periodo classico”, e per la maggior parte dei musulmani questi sono i secoli più importanti.

Tuttavia, molti degli attuali musulmani sarebbero certamente ancora nel novero degli infedeli se non fosse stato per gli avvenimenti intercorsi nel periodo che va dal 1100 al 1500.

Per quanto i moderni islamisti (per i quali l’Islam è un sistema politico quanto lo è religioso) puntino i loro riflettori sull’epoca del Profeta e dei Califfi Rashidun, è in risposta agli eventi di questo periodo che sono nati i movimenti Islamisti.

Da una prospettiva europea, senza questo periodo la Turchia non avrebbe alcun titolo per essere inclusa nella UE (né avrebbe alcuna possibilità di chiamarsi proprio “Turchia”) e la Russia non avrebbe mai avuto problemi con i musulmani nel sud del proprio territorio.

Ecco cosa accadde.

Dopo aver dominato i propri vicini per secoli e aver dettato il corso della loro stessa storia, a partire dal ‘900 d.c. in poi i musulmani si trovarono spesso a dover rispondere alle azioni di altri popoli che vivevano oltre i confini del potere politico islamico.

Questi stranieri erano giunti nel mondo islamico sotto tre forme:

  • Come turchi musulmani
  • Come invasori non musulmani (cristiani a occidente, mongoli a oriente)
  • Come invasori musulmani (i Timur)

Nella seconda metà del ‘900 d.c. ondate di tribù turche continuarono a migrare verso Ovest, seguendo i pascoli da cui dipendevano attraverso l’Iran settentrionale fino all’Anatolia: da lì, esse condussero incursioni nei territori bizantini, provocando una reazione militare.

I turchi sbaragliarono le forze bizantine a Manzikert nel 1071, e nell’arco di due decenni si impossessarono di gran parte della Siria, della Palestina e dell’Anatolia.

Nel 1200 l’Anatolia aveva ormai una considerevole fetta di popolazione musulmana, e l’arrivo di ulteriori ondate di turchi contribuì alla de-ellenizzazione della regione.

Il potere turco in Anatolia era decentralizzato, controllato da dinastie in competizione tra loro, associate solo in modo blando ai Grandi Selgiuchidi dell’Iran.

Le continue incursioni turche nel territorio bizantino spinsero l’Imperatore bizantino a chiedere il soccorso dei cristiani occidentali, il che ci porta alla seconda forma di intervento straniero all’interno delle terre islamiche:  le Crociate.

Le Crociate non furono solamente una risposta dei cristiani alla richiesta di aiuto dei bizantini per fronteggiare i turchi: dal momento che coprirono tre continenti e cinque secoli, esse comportarono molto di più, e per molti più popoli.

Persino la Prima Crociata, indetta nel 1095, ebbe meno a che fare con gli scontri fra turchi e bizantini che con il più vasto contesto delle offensive cristiane contro l’Islam, e naturalmente con la riconquista cristiana di Gerusalemme e della Terra Santa.

Gli storici musulmani dell’epoca, nella misura in cui furono interessati alle Crociate (e molti di loro non lo furono affatto) le interpretarono nel contesto delle acquisizioni cristiane a danno dei musulmani nella Penisola Iberica, in Italia e altrove.

La Sicilia, che era stata governata come uno Stato islamico sin dalla metà del ‘900 d.c., venne riconquistata nel 1091 dai Normanni provenienti dall’Italia (anche se gli ultimi musulmani sarebbero stati espulsi solamente nel 1200).

L’Andalusia venne riconquistata in modo più graduale: dal momento che i cristiani locali, nel nord e nell’ovest della regione, avevano resistito strenuamente al dominio islamico sin dall’inizio, la Reconquista si svolse nell’arco di ben 800 anni, venendo completata solo quando Granada cadde nelle mani di Re Ferdinando II D’Aragona e Isabella di Castiglia nel 1492.

La Reconquista fu un processo lungo e difficile, che aveva ripreso slancio solo nel 1000 approfittando della disorganizzazione politica dei musulmani.

Nel 1031 con la fine del Califfato Umayyade, le terre che appartenevano in mano loro vennero frammentate in piccole città-stato regionali che combatterono costantemente tra di loro.

I sovrani musulmani, incapaci di resistere all’avanzata delle forze armate cristiane, chiamarono in loro soccorso gli Almoravidi, che governavano nel Nord Africa.

Gli Almoravidi erano dei berberi “puritani”, il cui scopo era quello di diffondere la propria visione di una rigorosa ortodossia islamica contro ciò che essi consideravano delle forme superficiali e corrotte dell’Islam praticato a quel tempo.

Essi governarono l’Andalusia dal 1086 al 1146, quando vennero sostituiti da un’altra dinastia berbera, quella degli Almohadi.

Le intransigenti dottrine religiose degli Almohadi li avevano resi invisi sia ai musulmani locali sia, ovviamente, alle forze della Reconquista: sotto il loro potere, i cristiani e gli ebrei indigeni vennero spesso costretti a scegliere tra la conversione, l’emigrazione (verso le regioni cristiane di Spagna e Portogallo) o la morte.

Gli Almohadi, tuttavia, a loro volta si ritirarono nel Nord Africa nel 1250, una volta che gran parte dell’Andalusia era stata ormai perduta a vantaggio dei cristiani (i quali avevano preso Cordova nel 1236 e Siviglia nel 1248).

Pur avendo in qualche misura innescato le Crociate, ai turchi debolmente associati ai Selgiuchidi deve venire riconosciuto il merito di avere resistito e avere avuto la meglio, alla fine.

I Grandi Selgiuchidi erano soliti affidare le loro province ai principi della famiglia, i quali erano però troppo giovani per governare autonomamente, e venivano perciò affiancati da tutori (Ataberg) che esercitavano il potere effettivo.

Uno di questi Ataberg fu Zangi, il quale riuscì a infliggere la prima seria sconfitta ai Crociati quando sottrasse loro Edessa nel 1146.

Suo figlio, Nur Al-Din, unificò la Siria, mentre uno dei suoi mercenari curdi conquistò l’Egitto, sottraendolo ai Fatimidi, nel 1169.

In seguito, un altro curdo sunnita, noto come Saladino, unificò l’Egitto e la Siria, mettendo fine alla dinastia sciita dei Fatimidi nel 1171 e riconquistando Gerusalemme a beneficio dei musulmani, sconfiggendo i Crociati ad Hattin nel 1187 (e acquisendo così una grande fama in Europa).

I successori di Saladino, della dinastia degli Ayubbidi da lui fondata (1174-1250) furono perennemente in lotta fra di loro, per cui dovettero spesso concludere tregue strategiche con i Crociati, e si contornarono di schiavi-soldato chiamati Mamluk (“Mamelucchi”).

I Mamelucchi scalzarono però dal trono gli Ayubbidi e arrivarono a dominare una vasta area che comprendeva l’Egitto, la Siria, e buona parte di Iraq, Arabia e Nord Africa.

Il loro attaccamento al sistema degli schiavi-soldato, che richiedeva l’importazione regolare di partite fresche di turchi, diede origine a una società forte e militarmente solida, capace di opporsi alle pressioni esterne.

Entro il 1291, i Mamelucchi scacciarono i Crociati dalla Palestina, dopo aver già sconfitto i Mongoli nel 1260: si trattava di due vittorie che mettevano definitivamente fine a questa doppia minaccia per i musulmani del Vicino Oriente.

Altrove, tuttavia, i musulmani non riuscirono a sfuggire alle conquiste mongole.

Come Muhammad, anche Tehmujin (1206-1277) aveva conquistato il potere unificando sotto il proprio comando numerose tribù nomadi, e si era ritrovato sotto i riflettori a 40 anni, quando venne rinominato Chinggis Khan (“comandante supremo”).

Inoltre, anche qui come Muhammad, Chinggis Khan non visse tanto a lungo da vedere il suo Stato espandersi in un “Impero globale”: al tempo in cui morì, i Mongoli avevano sì conquistato una vasta parte dell’Asia Centrale, ma dovevano ancora incorporare quelle parti di Cina, Corea, Europa Orientale, Caucaso e mondo islamico che avrebbero costituito il loro Impero.

Considerevoli porzioni dell’Asia Centrale islamica vennero conquistate con disastrose conseguenze: i resoconti della devastazione mongola sono agghiaccianti, pur con le iperboli narrative del caso.

Particolarmente devastante per i musulmani fu la conquista mongola dell’Iran e dell’Iraq intorno alla metà del 1200:

il delicato sistema di irrigazione che teneva in vita l’agricoltura venne distrutto, così come biblioteche, moschee e intere popolazioni nelle città e nei villaggi principali.

Ma ciò che incombe maggiormente nella memoria dei musulmani è il Sacco di Baghdad del 1258, che mise fine al Califfato Abbaside dopo 500 anni di esistenza.

I sovrani mongoli dell’Iran e dell’Iraq, gli Ilkhani (1265-1335) finirono per convertirsi all’Islam e cercarono di accattivarsi il favore dei musulmani locali patrocinando le arti, impiegando amministratori persiani e diminuendo la pressione fiscale:

ma, per il ruolo che ebbero nel mettere fine al dominio (ormai solo artificiale) degli Abbasidi, i Mongoli furono considerati un popolo crudele.

I Mamelucchi, d’altra parte, ne uscirono come eroi.

La logica sottostante all’impiego degli schiavi turhi nell’epoca Abbaside consisteva nel fatto che la loro condizione, appunto, di schiavitù impediva loro di avanzare pretese alla carica califfale.

Nonostante i Sultani Mamelucchi non richiedessero, effettivamente, di diventare Califfi, le loro origini servili restavano un problema: motivo per cui essi si presentarono come campioni del Jihad contro gli infedeli, trasferendo uno zio dell’ultimo Califfo Abbaside in Egitto, dove la sua presenza avrebbe conferito legittimità al potere Mamelucco.

I Sultani Mamelucchi, inoltre, patrocinarono gli Ulama e supportarono la presenza di fondazioni religiose e progetti edili; gli storici al loro soldo scrissero libri di storia nei quali venivano ritratti positivamente.

Nemmeno i Mamelucchi, però, difensori dell’Islam contro i Mongoli e i Crociati, furono in grado di resistere alla Peste Nera del 1340, che anzi essi aiutarono, innavertitamente, a far dilagare e dalla quale non si sarebbero mai più ripresi.

Da un punto di vista politico, verso la fine di questo periodo i territori islamici si trovavano in preda al caos.

Non solo i Mamelucchi si avviavano al declino, ma dal Nord-Est era stata lanciata una devastante campagna militare lungo le vie delle precedenti conquiste mongole, condotta dal sovrano turco-mongolo Timur (1336-1405) detto il “Tamerlano”.

Sebbene anche Timur fosse musulmano, la sua cultura e la sua identità erano consapevolmente mongole, e il suo obiettivo era unicamente quello di riconquistare le terre precedentemente possedute da Chinggis Khan e dai suoi successori.

Timur riuscì a sbaragliare le armate islamiche ad Aleppo, Damasco, Dehli e altrove nei primissimi anni del 1400, ma non creò un impero duraturo: subito dopo la sua morte, nel 1405, le sue terre vennero spartite fra i suoi quattro figli, nessuno dei quali era però altrettanto ambizioso militarmente.

Si racconta che Timur ottenne dalle sue conquiste un bottino particolarmente ricco in India, ed è proprio in India (e nelle regioni limitrofe) che la religione islamica avrebbe compiuto imponenti progressi negli anni seguenti.

L’India era stata puntata come obiettivo per la diffusione dell’Islam sin dai tempi dei Ghaznavidi, ma fu solo nel 1100 che i musulmani la governarono autonomamente, sotto le dinastie turche e afghane che includevano il Sultanato di Dehli (1206-1526).

Come è spesso accaduto nel corso della storia dell’Islam, accadde anche qui che uno schiavo-soldato di una certa dinastia si separò dai suoi signori e diede origine a sua volta ad un’altra dinastia: in questo caso si tratto di Aybeg, il quale conquistò Dehli nel 1206 e fondò uno “Stato Mamelucco” in India.

Anche se Aybeg morì cinque anni dopo, nel 1211, gli succedette uno dei suoi ghulam, creando così una dinastia di schiavi-soldato che sarebbe durata fino al 1290.

Nei due secoli successivi si diffuse nella regione indiana una cultura specificamente indo-islamica, permettendo all’Islam di espandersi nelle terre che saranno poi la Malesia e l’Indonesia.

Il declino e la caduta del Califfato Abbaside (nonché delle sue istituzioni) ebbero luogo insieme alla creazione di strutture politiche e sociali alternative all’interno delle società islamiche, in modo particolare quelle delle organizzazioni Sufi.

Il Sufismo, in quanto approccio mistico a Dio, è in un certo senso antico quanto lo stesso Islam, benché fu solo nell’800 d.c. che emersero le sue dottrine formali.

Le Confraternite sufiste (Tariqa), nate nel 1200, con le loro logge (ribat), i loro maestri (shaykh), e le loro cerimonie di iniziazione, potrebbero riportare alla nostra mente le immagini della massoneria:

ma, al contrario della massoneria, il Sufismo ebbe davvero una forte influenza sociale, politica e religiosa, e fu in larga parte grazie all’iniziativa dei leader Sufi che ampie regioni del Sud-Est asiatico, dell’Asia meridionale e dell’Africa Subsahariana vennero iniziate all’Islam.

In un primo momento, l’Islam guadagnò convertiti fra i popoli del Vicino Oriente che erano strettamente imparentati con il monoteismo semitico:

del resto, la distanza tra l’aramaico e l’arabo è breve (come tra “Abraham” e “Ibrahim”).

La relazione dell’Ebraismo e del Cristianesimo con l’Islam era così stretta che emerse nell’Islam la dottrina secondo cui queste religioni stesse erano in origine Islam, ma che fossero state corrotte nel tempo, motivo per cui Dio aveva dovuto rammentare al genere umano la Vera Alleanza, inviandogli Muhammad e il Corano.

Una simile dottrina non avrebbe potuto essere estesa razionalmente fino a includere l’Induismo, il Buddhismo o le religioni pagane dell’Africa e del Sud-Est asiatico: eppure i maestri Sufi ci riuscirono.

In poche parole, i missionari Sufi convinsero i pagani e i politeisti che essi fossero già essenzialmente musulmani, ma che le loro divinità e i loro rituali avevano nomi differenti nella lingua dell’Islam.

Affinché un tale approccio funzionasse, tuttavia, poteva essere divulgata solo una versione piuttosto superficiale dell’Islam, in modo che quegli elementi delle religioni pre-islamiche che non avevano equivalenti nell’Islam avessero una loro collocazione nella nuova religione dei convertiti (esattamente come San Valentino, Halloween e l’Albero di Natale hanno trovato un proprio posto nelle culture cristiane).

Tutto ciò avvenne senza ostacoli fra i convertiti monoteisti: infatti, le riscritture di storie bibliche si insinuarono, spesso inosservate, nella tradizione islamica.

Invece, nel caso dei pagani e dei politeisti, l’esito fu quello di un sincretismo[14] religioso che risultava profondamente offensivo per i musulmani “ortodossi”.

Gran parte dei movimenti islamisti moderni hanno origine proprio nei tentativi di purificare le società islamiche dalle forme sincretistiche (o altrimenti contaminate) della fede e del culto.

Nel 1300-1400, i movimenti Sufi erano attivi e influenti presso i turchi dell’Anatolia, dell’Azerbaihan e di altre regioni.

I vari elementi del Sunnismo, dello Sciismo, del Sufismo eterodosso e di altre concezioni, che si erano intrecciati insieme in queste zone, vennero progressivamente districati nel 1500, in modo da dare origine agli Ottomani sunniti e ai Safavidi sciiti: l’eredità e i discendenti dei cui imperi avrebbero contribuito a creare il Vicino Oriente moderno.

Dal 1500 ad oggi

Quando finisce la storia dell’Islam?

Sebbene in alcune parti del mondo la sua fine non sia neanche lontanamente ravvisabile, esistono tre ragioni importanti per cui si può dire che la storia dell’Islam si sia conclusa nel periodo che va dal 1500 ad oggi.

Infatti, quegli avvenimenti della storia che costituiscono il bagaglio comune di tutti i musulmani appartengono ai tre periodi descritti fino ad ora.

Nel periodo dal 1500 ad oggi, la storia che interessa l’Islam e i musulmani non è tanto una “storia dell’Islam”, quanto piuttosto una “storia mondiale” all’interno della quale l’Islam e i musulmani giocano una loro parte.

Poiché questo ruolo è molto spesso secondario, considerare gli sviluppi di questo periodo come parte della “storia dell’Islam” significa attribuire ai musulmani una capacità di controllo sui cambiamenti in atto che è quantomeno fuorviante.

Così, quando i francesi occuparono l’Egitto nel 1798, furono gli inglesi a cacciarli;gli egiziani, invece, non poterono fare altro che osservare dai margini.

Inoltre, il periodo dal 1500 ad oggi ha assistito all’erosione di molti dei tratti salienti delle società islamiche pre-moderne e della storia dell’Islam, inclusi:

  • la diffusa dipendenza dagli schiavi-soldato (e dalla cavalleria più in generale)
  • la distinzione giuridica tra musulmani e altri abitanti all’interno dei territori islamici
  • la centralità dell’Haji[15] per la coesione della Umma
  • il controllo da parte degli Ulama sull’autorità religiosa

Per tutti questi motivi, un’alta percentuale di musulmani di oggi discende da quanti si convertirono in quest’ultimo periodo.

Uno storico ha osservato che “nel 1500, un visitatore arrivato da Marte avrebbe pensato che l’intero mondo degli uomini fosse sul punto di diventare musulmano”.

L’ospite marziano sarebbe stato portato a una conclusione simile alla vista dell’esistenza contemporanea dei grandi imperi e delle civiltà cui diedero origine gli Ottomani (1300-1922), i Safavidi (1501-1722) e i Mughal (1526-1858).

Ecco uno sguardo su come si presentava questo mondo.

L’Impero Ottomano fu il primo super-Stato islamico a nascere in questo periodo e l’ultimo a cadere, conservandosi in una forma o nell’altra dall’inizio del 1300 al 1900.

L’Impero nacque quando, circa nel 1300, un ambizioso comandante dei soldati di frontiera turchi stanziati nell’Anatolia Occidentale riuscì a ritagliarsi uno Stato islamico indipendente nella regione.

Questo Stato, che prese il nome dal suo fondatore Osman (“ottomano” nella pronuncia europea) si estese rapidamente a spese dell’Impero Bizantino, finché nel 1453 gli Ottomani conquistarono Costantinopoli (“Instanbul” nella pronuncia turca).

Nel corso dei secoli successivi, gli Ottomani avrebbero sottratto Gerusalemme, Mecca e Medina al Sultanato Mamelucco (conquistato a sua volta nel 1517) e avrebbero sottratto anche Baghdad ai Safavidi nel 1534.

Parallelamente, gli Ottomani si espandettero in Europa verso Ovest, aggiungendo Belgrado e l’Ungheria ai loro possedimenti, e mettendo sotto assedio Vienna nel 1529.

I Sultani Ottomani erano pronti a fare tesoro delle loro acquisizioni in modo da ottenere ricchezza, potere e prestigio: denaro, biblioteche, archivi e gli stessi Ulama vennero trasferiti a Istanbul dai territori appena conquistati di Egitto e Siria, e i Sultani affermarono di avere ereditato l’autorità politica (insieme alle terre) dei sovrani sconfitti, chiamando sé stessi “Cesare”, “Califfo” o persino “Califfo di Dio”.

Prevedibilmente, i Sultani Ottomani assunsero poteri religiosi, emanando editti di carattere religioso e integrando gli Ulama nelle gerarchie al potere.

Il Sultano Sulayman (1520-1566), per i successi militari che ottenne in questo periodo, fu noto agli europei come “Il Magnifico”, mentre per la sua opera di integrazione del diritto consuetudinario all’interno della Shari’a[16], fu conosciuto presso i musulmani come “Il Legislatore”.

Entro la metà del 1500, gli Ottomani avevano creato un impero solido, centralizzato e cosmopolita, che includeva alcune delle più importanti città dell’Islam (e del mondo), con punti d’appoggio in Africa, Asia ed Europa.

Tuttavia, il cosmopolitismo risultò avere aspetti sia positivi che negativi:

1 Da un lato, il commercio e la cultura delle città ottomane diedero impulso all’assimilazione di decine di migliaia di rifugiati ebrei in fuga dall’Inquisizione spagnola.

Avendo ereditato i disparati gruppi di turcomanni che abitavano l’Anatolia, gli Ottomanni dominarono su una importante fetta di popolazione sciita e sufista, così come su diversi gruppi di cristiani.

La composizione dell’Impero non era meno variegata dal punto di vista etnico.

2 Dall’altro lato, prima della fine del 1800 sarebbe diventato chiaro che ci fosse davvero poco da fare per tenere unito questo mosaico di popoli.

Inoltre, benché fosse cosa buona e giusta assumere titoli religiosi, controllare gli Ulama e inorgoglirsi per la propria autorità sulle città sante, la verità è che, persino al culmine della sua grandezza, appena la metà scarsa dei sudditi dell’Impero era costituita da musulmani, e meno della metà dei musulmani del mondo era ottomana.

Un’unificazione della Umma come quella raggiunta (anche se solo politicamente) dai primi Califfi avrebbe avuto un valore di gran lunga maggiore per un sovrano musulmano rispetto al controllo politico sull’Albania e sulla Croazia.

Per di più, gli eventi che avevano una reale importanza per l’Islam e per i musulmani si stavano verificando altrove, nelle terre dei Safavidi e dei Mughal.

Infatti, più o meno al tempo in cui Osman stava creando il suo Stato in Anatolia, un uomo nativo dell’Azerbaihan di nome Safi Al Din (1252-1334) fondò ad Ardabil una confraternita Sufi, i cui membri divennero noti come Safavidi.

Sul finire del 1400, questa confraternita si era trasformata in un movimento militante sufi-sciita che considerava il proprio leader come Dio in persona.

Nei primi del 1500, il capo dell’ordine Safavide, un giovane di nome Ismail, venne allo scoperto e diede inizio alla conquista dell’Iran;

nel 1501, Ismail era già diventato Shah della regione, con capitale a Tabriz.

Tuttavia, nel 1514 le forze Safavidi vennero sconfitte dagli Ottomani (grazie al loro grande uso di polvere da sparo) presso Chaldiran, con una conseguenza importante: lì venne fissato l’attuale confine fra Turchia e Iran.

Negli anni successivi, le forze armate ottomane sconfinarono spesso nelle loro province occidentali: pertanto, gli Shah Safavidi spostarono la capitale sempre più a Est, stabilendola infine a Isfahan sotto il regno di Abbas I (1587-1629).

Nel dirigersi verso Est, i Safavidi si allontanarono man mano dalla loro originaria base di potere turkmena, finendo per piantare radici nel cuore dell’Iran.

Il carattere religioso dello Stato fu epurato delle concezioni più radicali, che furono sostituite da uno Sciismo Duodecimano ortodosso (mentre le élites turche vennero rimpiazzate da élites persiane).

Questa forma di Sciismo venne imposta con la forza a una popolazione che era in gran parte Sunnita: studiosi sciiti vennero importati dal Bahrein, dalla Siria e dall’Iraq nella città di Isfahan, dove fiorì una cultura sia religiosa che secolare.

Inoltre, Abbas I spostò a Isfahan gli abitanti delle città di provincia, accrescendone così le potenzialità di centro culturale ed economico.

Fu dunque sotto i Safavidi che si delinearono chiaramente i confini moderni e l’identità religiosa e culturale dell’Iran, in netto contrasto con la tollerante eterogeneità dell’Impero Ottomano.

La letteratura persiana raggiunse nuove vette, e, dal momento che sia gli Ottomani che i Mughal avevano adottato il persiano come lingua di alta cultura, i Safavidi si trovarono davvero al centro della civiltà islamica.

Tuttavia, dopo la morte di Abbas II (1642-1666), ebbe inizio un periodo di declino dei Safavidi: disastri naturali (carestie, terremoti e il dilagare di malattie) contribuirono a determinare, insieme all’inefficienza dei governatori, un vuoto di potere che fu riempito dagli Ulama Sciiti (o Mullah), i quali rafforzarono la presa dello Sciismo sulla società.

Ma imporre una religione con la forza non è mai il modo giusto per ingraziarsi amici ed esercitare influenza sul popolo: così i membri Sunniti delle tribù dell’Afghanistan, esacerbati, attaccarono i Safavidi nel 1722, mettendo fine al loro regno.

L’unità politica e lo Sciismo sarebbero tornati in Iran solo con i Qajar (1794-1925), che avrebbero accompagnato l’Iran verso la modernità.

Da qualche altro luogo dell’Afghanistan, all’inizio del 1500, un principe noto come Babur lanciò una campagna vittoriosa in India.

Poiché Babur si era dichiarato discendente sia di Chinggis Khan sia di Timur, era chiaro che avrebbe tentato di conquistare qualcosa:

così fece nel 1526, quando Babur con le sue armate sconfisse il Sultano di Dehli e fondò una dinastia in India.

Fu sotto il comando di suo nipote, Akbar (1556-1605), che venne creato l’Impero dei Mughal: per i due secoli e mezzo successivi, Akbar e i suoi discendenti prosperarono, espandendo i loro territori.

Al tempo del regno di Aurangzeb (1658-1707), i Mughal dominavano su quasi tutto il sub-continente indiano, così come su parti dell’Iran e dell’Asia Centrale, con una popolazione complessiva di circa 100 milioni di persone.

Sebbene la maggioranza schiacciante di questi sudditi non fosse musulmana, essi furono pienamente integrati nella società a tutti i livelli, godendo di una tolleranza senza precedenti.

I loro sudditi vennero esentati dal pagamento della tassa pro capite;

i sovrani Mughal sposarono donne indù;

il calendario lunare islamico venne abbandonato da Akbar in favore di uno solare.

La cultura Mughal fuse tradizioni islamiche con tradizioni indiane, dando vita a nuove forme e stabilendo nuovi canoni nella pittura, nella poesia e nell’architettura.

Oggi si può osservare l’eredità delle loro conquiste nella magnificenza del Taj Mahal[17] e nell’uso comune della parola “mogul” per indicare chi detiene potere e ricchezza.

Tuttavia, non tutte le idee di Akbar sarebbero state adotatte volentieri dai suoi successori.

Nel 1581 Akbar aveva fondato quella che lui chiamava la Din-I-Ilahi, la “religione divina”: un culto che mirava a ordinare le molte verità contenute in tutte le religioni all’interno di un unico sistema.

Neppure i missionari Sufi, però, potevano permettersi di sostenere un progetto simile: l’esperimento di Akbar non sopravvisse alla sua morte e gli eccessi di tolleranza offerti ai sudditi non musulmani finirono per portare a eccessi di intolleranza (Aurangzeb proclamò infatti un jihad contro gli induisti).

Con sempre più terre da governare e sempre meno abitanti disposti a collaborare, i Mughal iniziarono un rapido declino perdendo il potere effettivo nel 1725, anche se il loro Stato sarebbe rimasto in vita fino al 1857.

Nel 1803, con la regione ora ripartita fra gli induisti autoctoni e i dominatori inglesi, un influente Ulama di Dehli dichiarò che l’India non era più un paese musulmano.

Ma cosa ci facevano in Asia gli inglesi e gli altri europei?

La risposta più immediata è: compravano cose.

A partire dal 1500, piccole nazioni dotate di grandi imbarcazioni (Olanda e Portogallo) e più tardi grandi nazioni come Inghilterra e Francia, tentarono di acquisire il controllo delle rotte commerciali per l’Estremo Oriente, in modo che le spezie e le altre merci potessero essere importate senza mediazioni (e di conseguenza a prezzi più economici).

Per secoli interi, gli stati e le società dell’Islam avevano beneficiato della loro posizione strategica, servendo da ponte tra l’Europa e l’Asia.

Nell’età pre-moderna, la centralità geografica del mondo islamico si era ben combinata con la sua cultura superiore, l’organizzazione politica e la potenza militare: tutti elementi che avevano consentito ai musulmani di dominare su gran parte dell’Eurafrasia in un tempo in cui gli europei avevano appena cominciato a “scendere dagli alberi”.

Ma, nel 1600 e 1700, il declino dei grandi imperi islamici coincise con l’ascesa delle potenze europee.

In seguito alla Rivoluzione Industriale, gli europei acquisirono infatti importanti vantaggi nella capacità produttiva e nel campo delle comunicazioni.

Le Guerre Napoleoniche (1793-1815) incanalarono gli sforzi industriali verso obiettivi militari;

la Rivoluzione Francese mobilitò ampi settori di popolazione, stimolando il patriottismo e il concetto di “servizio pubblico”;

l’Illuminismo fornì una legittimazione scientifica all’esistenza di una gerarchia delle civiltà (al vertice della quale si trovavano, ovviamente, gli europei).

Dal momento che i tre grandi imperi islamici erano per lo più focalizzati sul controllo della terraferma, essi non sarebbero stati in grado di competere con le flotte europee.

I Mughal e i Safavidi persero così il loro potere all’inizio del 1700, mentre gli Ottomani riuscirono a sopravvivere solo riorganizzando il proprio impero secondo linee-guida europee.

Il fallito assedio di Vienna[18] del 1683 prima, e le umilianti sconfitte subite durante la Guerra Russo-Ottomana del 1768[19], posero fine all’illusione dei Sultani di essere militarmente superiori rispetto alle potenze europee.

La decentralizzazione dell’Impero Ottomano, le lotte di fazione all’interno della corte e vari motivi di instabilità interna contribuirono a dare l’impressione che questo impero fosse “il malato d’Europa”.

Come reazione, a partire dal regno di Selim III (1789-1807), i Sultani cercarono di riaffermare il proprio ruolo per mezzo di provvedimenti di politica interna che condussero poi alla “riorganizzazione dell’Impero” (Tanzimat) tra il 1839 e il 1876:

  • la legge secolare rimpiazzò la Shari’a
  • i non musulmani vennero equiparati ai musulmani
  • l’amministrazione ottomana venne modernizzata

Abdul Hamid II (1876-1909) introdusse inoltre un sistema ferroviario nell’Impero (le cui dimensioni si stavano ormai contraendo) e investì ampie somme di denaro in progetti di edilizia.

Significativamente, laddove i precedenti Sultani avevano promosso con orgoglio l’edificazione di moschee e altri edifici religiosi, i progetti di Hamid II furono quasi unicamente di natura secolare.

Tuttavia, la modernizzazione su larga scala era costosa: ragion per cui gli stati islamici si ritrovarono presto debitori di somme elevate nei confronti delle nazioni europee.

Gli europei si ritrovarono invece ad avere il controllo politico dei territori islamici.

Niente di tutto questo, ad ogni modo, era inevitabile, e in alcune parti del mondo islamico le cose presero una direzione completamente diversa.

Nel 1500, i beduini del Sahara si erano spostati verso il Nord Africa per prendere il controllo dell’entroterra marocchino, dando origine a una dinastia di Sharif (“coloro che reclamano una discendenza diretta dal Profeta”), i quali governarono da Marrakech.

Da quel momento, le dinastie di Sharif regnarono sul Marocco.

Gli Sharif del Marocco respinsero inoltre le armate spagnole e portoghesi nel 1578 e si opposero alle insidie degli Ottomani, mettendo inglesi e spagnoli gli uni contro gli altri: tutto ciò permise loro di rimanere uno Stato islamico permanente.

La dinastia Saadi riuscì ad attraversare quella che un tempo era ritenuta un’area del Sahara militarmente impenetrabile, conquistando l’Africa Occidentale e prendendo come capitale Timbuktu nel 1591.

Gli stati sceriffali riuscirono a tenere lontani gli europei fino alla fine del 1800: ma persino loro, alla fine, dovettero soccombere al colonialismo.

Nel 1912 i francesi istituirono un Protettorato sul Marocco, dal quale i marocchini si resero indipendenti solo nel 1956 sotto il regno di Muhammad V.

Gran parte delle società islamiche avevano già sperimentato il dominio straniero nel corso del millennio precedente, quando i turchi, i mongoli, i berberi e (in alcune regioni) gli arabi avevano governato come dominatori esterni, spesso mostrando poca sensibilità verso le tradizioni dei locali.

Furono tre circostanze però a rendere il colonialismo europeo particolarmente impopolare.

1 Anzitutto, così come i Crociati, le potenze coloniali non erano musulmane, ma erano anzi spesso in aperta competizione con i musulmani nel diffondere la propria fede.

Diversamente dai Crociati, però, esse erano onnipresenti e avevano un forte impatto su quasi tutti i musulmani.

2 In secondo luogo, le società islamiche scoprirono in questo periodo nuovi stratagemmi per resistere al colonialismo, nonché l’esistenza di alternative ad esso, oltre al Jihad imbracciato da alcuni.

In certi casi, il panislamismo, il panarabismo e il panturchismo seguirono le strade dei movimenti di liberazione nazionale, suscitando così nei musulmani l’aspettativa di poter sconfiggere la dominazione straniera.

3 In terzo luogo, grazie alla diffusione dei sistemi di comunicazione moderni, la forza dei due punti precedenti poté essere diramata in lungo e in largo.

A partire dal 1800 emersero in diverse aree del mondo islamico vari movimenti tesi alla riaffermazione e alla purificazione dell’Islam, che si proponevano di combattere sia forze esterne (il colonialismo), sia forze interne (le pratiche dell’Islam apparentemente superficiali e la secolarizzazione delle società islamiche e dei loro governanti).

Sebbene spesso i singoli movimenti si identificassero con un determinato motivo di rimostranza, nel tempo molti di questi gruppi (e la maggior parte dei loro seguaci) giunsero a fondere insieme svariati gridi di battaglia o a convogliare specifiche lamentele nel sentimento generale che le cose non sono come dovrebbero essere: un problema la cui soluzione fu quella di cambiare secondo linee religiose intransigenti.

Per questi gruppi era particolarmente irritante il fatto che la classe dirigente islamica sembrasse contribuire al problema piuttosto che alla soluzione.

Questi pensatori e attivisti tesero a chiamare sé stessi Mujaddid (“rinnovatori”), ma noi propendiamo a chiamarli “Islamisti”.

Benché le sue radici vengano spesso fatte risalire a Muhammad Al Wahhab (1703-1792), anche l’Islamismo subì una trasformazione nel corso del 1900, in seguito alla fondazione da parte di Hasan Al Banna della Fratellanza Musulmana in Egitto nel 1928 e a quella della Società Islamica da parte di Ala Mawdudi in India nel 1941.

La Fratellanza Musulmana prendeva di mira i colonialisti stranieri e i fautori del secolarismo interno;

la Società Islamica si concentrò contro gli inglesi e i loro alleati indù.

Questi movimenti si internazionalizzarono rapidamente, influenzandosi a vicenda e generando a loro volta numerose ramificazioni.

Le idee di Mawdudi ispirarono l’influente islamista egiziano Sayyid Qutb (1906-1966) che a sua volta apparteneva alla Fratellanza Musulmana (alcuni membri della quale avrebbero poi fondato Hamas nel 1987).

Sebbene si individui spesso nel colonialismo la chiave di lettura per comprendere le società islamiche del 1800, un fattore di grande importanza fu anche la diffusione della stampa nei territori islamici.

La stampa portò alla diffusione dei giornali, con la fondazione di periodici governativi in Egitto (1824), Turchia e altre province ottomane (1831), Iran (1837) e altrove negli anni seguenti.

Di cruciale importanza si rivelò il fatto che i principali riformisti musulmani iniziarono a dirigere questi giornali e a divulgare così le proprie idee.

Ideologi come Muhammad Abduh (1849-1905) e Jamal Al-Afghani (1837-1897) pubblicarono un giornale religioso gratuito dove trovarono voce idee islamiste e anti-britanniche, e che conquistò lettori in tutto il mondo (con eccezione di Egitto e India, dove gli inglesi ne vietarono la diffusione).

Un discepolo di Abduh, Rashid Rida (1865-1935) fu il direttore per più di 40 anni della rivista islamica Al-Manar, per mezzo della quale venne data ampia risonanza alle idee del suo mentore, insieme alle proposte dello stesso Rida per la creazione di un Califfato pan-islamico.

Ciò che la stampa promuoveva, inoltre, per quanto inconsapevolmente, era la democratizzazione dell’autorità religiosa.

Nel passato, l’insegnamento dell’Islam era stato propagato solo tramite l’interazione personale con gli Ulama o i maestri Sufi: solamente quelle guide rispettate che, in virtù della loro conoscenza della religione e della loro reputazione, erano in grado di attrarre a sé un seguito di allievi, avrebbero potuto esercitare una vera influenza.

Con la diffusione dei mezzi di comunicazione, invece, chiunque avesse accesso alla tecnologia necessaria poteva influenzare milioni di persone.

Le credenziali religiose e la reputazione locale non erano più tanto importanti, ormai, quanto lo erano gli strumenti di comunicazione.

Questo cambiamento però compromise spesso il delicato equilibrio raggiunto tra le autorità politiche e gli Ulama:

un equilibrio che era stato conservato fino ad allora controllando questi ultimi o dando supporto ai membri più compiacenti all’interno della loro classe, a spese dei Sufi.

Il quadro, pertanto, si complicò con l’affermarsi degli Islamisti, i quali mal sopportavano sia la maggioranza dei Sufi sia i politici musulmani “occidentalizzati” (o quegli Ulama che venivano accusati di essersi “venduti ai politici”).

Con questo si vuole dimostrare che, naturalmente, sarebbe semplicistico vedere nell’Islamismo solo una reazione di rifiuto verso l’Occidente e i suoi stili di vita.

Gli Islamisti sono stati ben contenti di acquisire e utilizzare tanto gli strumenti quanto i metodi della civiltà occidentale moderna per promuovere le proprie cause.

L’Ayatollah Khomeini ha diffuso efficacemente il suo messaggio rivoluzionario servendosi di audiocassette, e Al-Qaeda ha fatto pieno uso della tecnologia delle comunicazioni, rilasciando messaggi agli organi di stampa, comunicando via internet per mezzo delle chat room e sfruttando, ai fini del reclutamento, l’attenzione dei media che si accende attorno alle sue operazioni.

I messaggi di martirio e le raccapriccianti decapitazioni che si trovano sui siti di video sono ulteriori esempi del desiderio di trarre beneficio da questo tipo di tecnologie.

In termini di metodi, le idee occidentali sono state fatte proprie persino da quanti inseguono la liberazione dall’influenza dell’Occidente:

sebbene si possa dire che il Panislamismo[20] affondi le sue radici nell’età pre-moderna, i movimenti di liberazione nazionale, dalla Cecenia alla Palestina, sono invece di importazione occidentale.

Analogamente, le teorie antisemite ampiamente impugnate da quei musulmani che mirano a ribaltare gli effetti del colonialismo e dell’imperialismo (fenomeni di cui, stando a queste teorie, sono responsabili gli ebrei) costituiscono anch’esse un prodotto imperialista e occidentale.

Le società islamiche non conobbero niente di simile prima che gli arabi importassero tali idee nei territori islamici, nel 1800.

Da parte sua, anche la schiacciante maggioranza dei musulmani che rigettano le ideologie islamiste stanno adottando in misura crescente le tecnologie moderne e le idee occidentali, con esiti interessanti.

Alcuni hanno provato (in modo convincente) il ruolo dell’Islam nella nascita delle scienze, della medicina e delle tecnologie moderne;

altri hanno tentato di dimostrare (in modo meno convincente) che idee tanto “occidentali” come la democrazia, i diritti umani e l’egualitarismo possano in ultima analisi essere rintracciati nell’Islam delle origini.

Benché tutto questo suggerisca che i musulmani stiano diventando sempre più “occidentalizzati”, ciò dimostra anche con quanta facilità l’occidentalizzazione possa essere adattata all’Islam.

Conclusioni

E così, a grandi linee, questo è ciò che è accaduto.

Come ci si può aspettare da un qualsiasi studio che abbracci 1400 anni di storia e tre continenti, abbiamo incontrato la nostra buona parte di sovrani, battaglie, dati e nomi con suoni simili.

Ho provato a controbilanciare questo aspetto dando un’idea del mondo in cui l’Islam nel suo insieme si è sviluppato in ciascun periodo.

Ci limiteremo ora ad un’unica conclusione relativa agli sviluppi religiosi e politici.

Una volta fondato un Impero in seguito alle conquiste islamiche, la diffusione dell’Islam come religione non è sempre andata di pari passo con quella come potere politico.

In molti casi, infatti, l’Islam ha ottenuto grandi successi proprio mentre i sovrani musulmani ottenevano risultati particolarmente miseri.

Così, l’Islam ha avuto più convertiti durante il periodo del dominio coloniale europeo che in qualsiasi altro periodo, e nell’epoca post-coloniale anche la distribuzione geografica dei musulmani è aumentata enormemente.

Senza gli inglesi in India e i francesi in Nord Africa, si sarebbero avuti meno pakistani in Gran Bretagna e meno algerini in Francia.

E anche se il movimento dei Deobandi[21] iniziò come una reazione al dominio britannico in India, oggi una ramificazione missionaria di quel movimento controlla quasi metà delle moschee del Regno Unito, rappresenta più dei tre quarti dei religiosi musulmani in quello stesso paese e pianifica la costruzione della più grande moschea d’Europa accanto al sito delle Olimpiadi di Londra 2012.

Una conseguenza interessante di questo fatto è che, presupponendo che questa tendenza continui, anche se i tentativi di istituire un “Califfato globale” andassero a buon fine essi non si accompagnerebbero necessariamente a una corrispondente diffusione dell’Islam.

Viceversa, se il trend demografico e statistico restasse costante, in breve tempo (anche in assenza di un Califfato) un terzo dell’umanità potrebbe benissimo diventare musulmana.

[1] https://it.wikipedia.org/wiki/Ka%CA%BFba#Storia

[2] L’apostasìa  è l’abbandono formale e volontario della propria religione (in tale contesto si parlerà più propriamente di apostata della religione). All’apostasia può seguire sia l’adesione a un’altra religione (conversione) sia una scelta areligiosa (ateismo o agnosticismo).

[3] https://it.wikipedia.org/wiki/Impero_bizantino

[4] https://it.wikipedia.org/wiki/Sasanidi

[5] Il Punjab è la regione più popolosa del Pakistan (più della metà del totale) e la seconda più vasta (205.340 km²), situata a est del Paese, al confine con l’India, dove si trova uno Stato omonimo.

La divisione del 1947 fra India e Pakistan portò qui ad uno dei più massicci scambi di popolazione in base a una logica religiosa.

[6] Copto: antica lingua egiziana.

[7] https://it.wikipedia.org/wiki/Cupola_della_Roccia

[8] https://it.wikipedia.org/wiki/Idrisidi

[9] https://it.wikipedia.org/wiki/Aghlabidi

[10] https://it.wikipedia.org/wiki/Storia_dell%27Egitto_tulunide

[11] https://it.wikipedia.org/wiki/Fatimidi

[12] https://it.wikipedia.org/wiki/Ghaznavidi

[13] https://it.wikipedia.org/wiki/Berberi

[14] Sincretismo può essere considerata un’unione e fusione di elementi ideologici già inconciliabili, attuata in vista di esigenze pratiche di carattere culturale, filosofico o religioso, appartenenti a due o più culture o dottrine diverse.

Il termine è applicato soprattutto nella scienza e storia delle religioni, in cui indica quel complesso di fenomeni e concezioni costituite dall’incontro di forme religiose differenti.

[15]Haji è un titolo originariamente dato a una persona musulmana che ha completato con successo l’Ḥajj (pellegrinaggio alla Mecca Il termine è anche usato spesso per riferirsi a un anziano, in quanto può richiedere tempo per accumulare la ricchezza per finanziare il viaggio e in molte società musulmane come titolo onorifico per un uomo rispettato. Il titolo viene posto prima del nome di una persona; Per esempio Saif Gani diventa Hajji Saif Gani.

[16] https://it.wikipedia.org/wiki/Shari%27a

[17] Il Taj Mahal situato ad Agra, nell’India settentrionale (stato di Uttar Pradesh), è un mausoleo fatto costruire nel 1632 dall’imperatore moghul Shah Jahan in memoria della moglie preferita Arjumand Banu Begum, meglio conosciuta come Mumtaz Mahal. Nonostante vi siano molti dubbi riguardo al nome dell’architetto che lo progettò, generalmente si tende a considerare Ustad Ahmad Lahauri il padre dell’opera.

È da sempre considerata una delle più notevoli bellezze dell’architettura musulmana in India ed è tra i patrimoni dell’umanità dell’UNESCO dal 9 dicembre 1983.

È stato inserito nel 2007 fra le nuove sette meraviglie del mondo

[18] http://www.viaggio-in-austria.it/turchi-in-austria2.html

[19] https://it.wikipedia.org/wiki/Guerra_russo-turca_(1768-1774)

[20] Il panislamismo è un pensiero politico e religioso che auspica l’unione politica di tutti i popoli islamici in un’unica istituzione statale, cioè la Dār al-Islām.

La forma di stato più proposta è il Califfato, ma si propone anche l’Organizzazione della cooperazione islamica (almeno nei territori non russi o cinesi).

Il movimento nasce come reazione all’espansionismo occidentale e rivendica di essere una difesa antimperialista e anticolonialista. Difeso dai sultani ottomani, il pensiero panislamista iniziò ad acquistare peso dopo la I Guerra Mondiale, influenzando il programma politico del primo movimento islamista della storia moderna dell’Islam, i Fratelli Musulmani.

[21] https://it.wikipedia.org/wiki/Deobandi