Il viaggio

Nel primo momento pensò di non cambiare nulla nella sua vita, guardò fuori dalla finestra che tempo facesse, poi prese a correre verso la stazione senza l’impermeabile, sotto la pioggia fastidiosa di Maggio.

In tabaccheria comprò un biglietto di sola andata e rimase per un attimo distratto alla cassa contemplandosi in mano lo scontrino.

– desidera altro signore? –

Decise di acquistare anche tabacco sfuso Drum e delle cartine smoking lunghe solo perché il biglietto ricoprisse il ruolo di filtro.

La filodiffusione annunciò l’arrivo del treno, tuttavia lui rimase seduto su una panchina, frastornato, senza voler riflettere troppo sulla motivazione del perché aspettare il successivo.

Rifiutò di interrogarsi sulla forza che l’ebbe trattenuto un’ora ancora, ma lascio spazio ad un solo pensiero: si chiese se mai fosse dovuto tornare indietro… ancora una volta, indietro… indietro da lei…
Quarantacinque minuti più tardi si trovò in viaggio… in viaggio in un vagone vuoto. In viaggio senza compagnia alcuna, in un viaggio solitario, in un viaggio lungo e senza più un ritorno.

Da quel giorno, per più di un anno, non scrisse più.
Da quel giorno non amò mai più.

autoscatto di spalle

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Marina

C’erano brandelli di cartone che volavano sull’asfalto, c’era il sole, c’era il tuo mare, c’era il vento originale, automobili che inghiottivano decine di metri al secondo e indicazioni verdi che mi passavano di lato, c’era il Vesuvio, uno schizzo d’acqua, un camion della Shell, una curva acuta, un discesa folle, c’era un malessere, eppure prima c’era anche lei; quanti minuti erano passati?

Sì, un’ora fa era lì in viaggio con me.

Poi c’era una fotografia, una tra le tante che mi aveva convinto; non era quella del maschio, né quella di Santa Chiara, non era Spacca Napoli, né quell’immigrato che mi chiedeva una sigaretta – non ti fermare, continua a camminare – mi diceva. E non era il babbà tagliato in due o il cameriere che ci esortava ad uscire per serrare il locale, né i suoi tacchi che inciampavano tra i vicoli rotti, non era la venticinque, né il caldo che sentiva, non era il vento, non era il porto, non era il mare…

Nell’istante in cui l’avevo lasciata, appena discese le scale, proprio nell’ultimo istante prima che voltasse l’angolo, un attimo dopo che ingranassi la seconda, si era voltata a cercarmi ancora una volta.

Il suo sguardo si dirigeva diretto verso di me, ed io, non so bene ancora oggi, e non saprò mai se fosse mai riuscita chiaramente a scorgermi tra il lampione e quel pedone, successivamente, due secondi più tardi, oltre il cassonetto colmo degli avanzi di Salerno, tra un camion ed altri vari intralci, mentre ero in movimento ricercando un varco per guardarla ancora una volta.

E’ stato in quel momento che ho capito che volevamo entrambi stringerci ancora in un attimo, un attimo che riassumeva tutte le nostre ore trascorse, l’ultimo attimo di noi due…

L’ultimo attimo, così definitivo… così conclusivo…

marlene marina

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André

Andrea non lo vedevo da quattro anni.

Attraverso i traslochi ho sempre custodito il suo scatolone di videocassette sul corso di chitarra; lui è un musicista, io ho sempre cercato di mettere insieme qualche nota.

Trovo finalmente l’occasione di sentirlo, proponendo lui di rivederci e restituirgli quanto prestato. Mi dà un nuovo indirizzo; si è spostato da un anno in una nuova zona del pavese. Decido di raggiungerlo.

Parcheggio su una piazzetta tra case nuove e case della vecchia Pavia. Andrea mi viene incontro alla portiera. Lasciamo lo scatolone nel porta bagagli e ci avviamo verso un ristorante che si chiama “Bella lì”

Andrea mi presenta la sua nuova fidanzata: Nella, che deriva da Antonella. E’ sempre stato taciturno Andrea, Nella è il suo opposto.
Vengo pertanto a sapere quanto accaduto ad Andrea negli ultimi quattro anni da Nella; Andrea si limita ad annuire con il viso, lanciando qualche espressione con gli occhi che talune volte mirano verso di me e Nella, altre volte questi si alzano distratti sopra di noi in direzione dello schermo che trasmette una replica di qualche mondiale di calcio.

Ha conosciuto Nella in protezione civile, ma da due anni lei non va più in protezione per problemi ad un menisco; mi accorgo difatti che Nella vacilla un pochino mentre cammina, in compenso fa ora l’infermiera in ortopedia al policlinico – strana ambiguità? Andrea è già il secondo anno di cassa integrazione, ha dovuto lasciare la casa, facendosi aiutare da suo zio che ha offerto loro un piccolo bilocale in questo borgo dimenticato.

– Qui sto bene, ho ritrovato tutti i miei amici d’infanzia… arriva un momento nella tua vita che hai voglia di tornare alle origini, e costruire una stabilità – Mi confida, pertinente all’istante in cui mi sto rendono conto che la pizzeria è luogo d’incontro per l’intero quartiere, ha un aspetto alla buona, ogni persona che ne fa ingresso viene salutata da altri… si conoscono tutti.
– La mia vita è diversa – vorrei dirgli – di un diregente tra affermazione e solitudine, ma alla fine finisco poco per parlare di me, cosa potrei mai dirgli? Che ho raggiunto il mio successo, ma che in fin dei conti non ho trovato quell’equilibrio che ha invece trovato lui senza avere nulla? Riesco solo a dirgli che è morto mio Padre.

Usciamo, Andrea e Nella si accendono una Marlboro di compagnia.

– Fumi ancora? –
– Non ho mai cominciato – rispondo ad Andrea, pensando che la prima sigaretta, sei anni fa me la offrì lui, seduti al tavolino nel bar di piazza Tevere. Era una MF (multifilter), ora non le fanno più.
Mentre bevo un Brancamenta, mi viene in mente Pasolini, e di come lui cercava di entrare nelle classi sociali differenti e da come ne se ne affascinava su ogni particolarità lontana dalla sua vita. A queste persone sembra che non manchi nulla, ma forse è solo apparenza?

Arriva Cele, lo zio di Andrea.
Un uomo sui sessanta ben portati, brizzolato con gli occhi azzurri. Lo chiamano così perché canta come Celentano.
Qui tutti hanno un soprannome, c’è Vicio, Camin, Blund, Sgagna…
Provo a sforzarmi di comprenderne il significato, ma mi rendo conto che riguardano delle parole dialettali pavesi che da romano non conosco; alla fine Nella mi fornisce spiegazione: biondo, camino, mangia… e difatti mi rendo conto che Camin ha già spento una decina di sigarette nel suo posacenere.

Andrea lo chiamano André

– Io una canzone me la faccio, andiamo giù? – dice André, riferendosi al karaoke che si sente in sottofondo provenire dallo scantinato. All’apertura della porta in fondo alla scala, arriva un timbro musicale come una brezza improvvisa sul viso. Si apre un’estensione nascosta del locale con dei salottini rammendati e sparsi ai lati delle pareti e uno spazio che lascia libera una coppia a ballare – stretti in un valzer.

Il primo a cantare è Cele, che canta ‘è l’ora dell’amore’. Mentre suona la sua canzone, ha gli occhi lucidi e Nella mi confida che è rimasto vedovo da due anni.

Quando viene il turno di André, la musica intona la canzone ‘vita tranquilla’ di cui non avevo affatto conoscenza.

Scopro così che André ha un’intonazione quasi perfetta. La musica e la voce di André si diffonde attraverso i tavoli fino a raggiungere il coro delle altre persone che lo seguono nel ritornello. Guardo i visi delle persone e il viso di André, per un attimo ho impressione che queste persone, mentre cantino, indirizzino il viso verso di me … “voglio una vita tranquilla” dicono… e questo messaggio sembra arrivare come mi fosse destinato; ho un’immagine inaspettata tra la lirica e l’onirica, beffa del brancamenta? Poi questa visione si attenua e le persone del locale sembrano riprendere le normali visuali.

Poco dopo risaliamo e per me è venuta l’ora di andare.
Chiudo il baule della mia automobile.

– Ciao André – lo saluto con il suo soprannome e lui sorride. – Non aspettiamo altri quattro anni per rivederci – mi dice. Saluto Nella, c’è ancora la musica che si sente uscire dal locale. Nella e André si allontanano verso casa con lo scatolone di VHS in mano.

– Non ho mai imparato a suonare la chitarra André – dico tra me e lui, pur sapendo che sono ormai troppi i metri che ci separano per permettere lui di sentirmi, così rimane una frase pronunciata nel vuoto di quella piazzetta, tra me è nessun altro.

Salgo in auto, mi avvio sulla strada del rientro.
Accendo la radio, sorte della fatalità – risuona la medesima canzone di André – e mi commuovo, ma non so bene neppure il perchè.

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Rewind

Non esistono delle stagioni, il tepore metropolitano è quasi sempre lo stesso durante tutto l’anno. Una luce pallida, artificiale, evidenzia le tinte della rete di Milano: la gialla, la rossa, la verde. Le musiche sono sempre le stesse, fisarmoniche o violini, timbri che riconducono alle melodie polacche di Bregovic.

E torna come un rewind quel breve racconto, un disco in vinile che continua a suonare non annoiando mai nessun ascoltatore. Lo hanno udito, lo hanno immaginato, lo hanno invidiato… lo hanno persino copiato; e noi lo abbiamo lasciato fare, perché eravamo soltanto noi ad averlo davvero vissuto.

Lui aveva trent’anni, una macchina fotografica, un treno da perdere. Lei di anni ne aveva trentotto, il treno lo aveva già perso, ma non lo sapeva ancora.
Lui scendeva le scale della metropolitana.
Lei le saliva. Lui la vide, lei lo vide… Milano si fermò.
Lui accarezzò con lo sguardo i quindici denari di lucido nylon autoreggente che salivano al piano superiore.
Scavalcò il mancorrente.
Lei insieme alla testa e al treno perse le chiavi di casa. Non si presentò mai all’appuntamento.
I loro pensieri trovarono l’intreccio in un angolo di sotterraneo, i loro passi salirono… salirono su in superficie, fino a lasciare impronte parallele e indelebili nella neve di un parco.
Per un anno non uscirono dalla mansarda del suo Atelier, ma non ce se accorsero mai.
Faceva freddo e faceva anche molto bohémien.
Sotto ordinazioni qualcuno portava piatti da mangiare e libri da leggere. Nonostante tutto mangiavano e con molto appetito.
E tra un delicato amplesso e un fotografare d’istinto, sfiniti di piacere, si leggevano a vicenda qualcosa, a volte persino durante, a riprova che le due cose non erano poi del tutto incompatibili.

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Guida Turistica

Lo stesso vento ora attraversava gli alberi dell’Aventino complottando con i rami, sfogliando un quotidiano lasciato su una panchina da qualche turista. Oltre le grate del giardino degli aranci si ascoltava uno spettacolo di stornelli romani e poco più vicino alla nostra automobile, una guida turistica riferiva ad un gruppo di connazionali l’origine della basilica di Santa Sabina.
Aveva una voce femminile, con un accento francese, muovevo il retrovisore per riuscire ad individuarla nel gruppo… una targhetta attaccata alla sua camicetta, la distanza non mi permetteva di poterne leggerne la scritta.
– Perché temi l’emotività? – Mi domandava Angela mentre io camuffavo il mio distacco con l’interesse verso l’affascinante guida turistica…
Proseguiva a dare informazioni sulla spiritualità del paleocristianesimo e qualcosa di inerente sul paganesimo, nel frattempo io ragionavo su quanto mi sentissi profano.

Un attimo di silenzio per poi riprendere a parlare ad alta voce trasferendosi dal centro della piazza all’ingresso della basilica; la nostra Fiat era senza intenzione parcheggiata proprio lì di fronte, in un attimo ci ritrovammo circondati dai turisti presenti, noi moderatamente spettatori della loro serata educativa, loro curiosamente testimoni del nostro diverbio.

– Le forme dell’arte paleocristiana significative solo in senso psicologico e non metafisico: sono espressionistiche, non divinatorie… –

– Temo perché in qualche modo mi ha fatto male –

Rispondevo evitando di distogliere lo sguardo che era corrisposto dalla guida, pensavo ricercasse la mia attenzione, come a spiegarmi qualche segreto che non riuscivo a carpire, in qualche modo la sentivo partecipe della mia inquietudine.
Mi guardava, in alcuni istanti con un’insistenza maggiore forse a sottolineare dei concetti più significativi che in qualche maniera fossero pertinenti al mio disagio.

– I grandi occhi sbarrati dei tardi ritratti romani esprimono una vita psichica intensa, intellettuale e affettiva; ma questa vita psichica è senza sfondo metafisico e in sé non manifesta ancora la nuova religione dello spirito… –

Alla fine, potevo scorgere la scritta sulla targhetta attaccata da una spilla sulla camicetta; riportava il nome Christine.

 

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Imprinting

Sono cresciuto all’interno di un negozio di parrucchiere per signora, viale delle Formaci, Roma. Ricordo le donne in camice rosa, gli odori delle lacche, il rumore del fono e i colori dei bigodini con cui giocavo.

Ricordo quando tiravo loro il grembiule, le voci che chiamavano per il mio nome, al diminutivo… e le clienti che mi sollevavano di peso per sorridermi con quei visi incipriati e manicure appena fatte – stili di inizi anni settanta.
Il mondo femminile mi ha sempre affascinato, trattiene in se tutti i particolari che visivamente mi compiace accogliere.
E’ un mondo accattivante e ne vale sempre il desiderio di esplorarlo – che male c’è?
Lo faccio comunque con distacco, con una separazione emotiva che non sempre viene compresa ed accettata; le pulsioni attrattive di questo universo sull’uomo si fanno pungenti, colgono e mettono in tensione sempre il nervo più libidinoso, diversamente il pieno controllo di un distacco, mi permette di anatomizzare questo universo, cogliendone sfumature, suoni e anche piaceri.

Da adolescente, mia madre trasferì il suo negozio da parrucchiera sotto la nostra abitazione; le sue clienti attraversavano un cortile per recarsi dall’ingresso, pochi passi dal giardino al negozio.

Le conoscevo quasi tutte, erano più di quattrocento, ma nella quantità a me piacevano in particolare quattro.

Entravo di nascosto in negozio verso l’ora di mezzodì, tutti erano in pausa. Consultavo l’agenda degli appuntamenti settimanali per annotare alla mente in quale giorno e a quale ora fossero passate. La signora Saveria, Rita Vespa, Anna e quella che chiamavano ‘la Professoressa, era anche il sopranome riportato settimanalmente in agenda.
In cantina, lungo l’intercapedine umida, una piccola finestra dava sul terreno del cortile e da quel nascondiglio, per il breve tratto di strada, potevo osservare le gambe di queste clienti transitare verso l’ingresso del negozio. Era un percorso breve, cinque forse sei passi prima che una di loro salisse i tre gradini.

Proprio in quell’ultimo istante la posizione poteva essere ancora più ottimale, ma la frazione di secondo era minima. Solo alcune volte sono riuscito a scorgere l’accenno di un ricamo sull’orlo della Professoressa.

Non ricordo quando ho smesso questo rito, forse quando ho iniziato ad avere maggiori possibilità di osservazioni dirette sulle donne.
Ma il ricordo di quel diversivo mi riempie di simpatia, leggerezza e di nostalgia.

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Justine Fober

Qualche volta la si intravede ancora, la sera, è un’espressione a ravvisarla, una movenza a distinguerla. Una luna piena o le pieghe di un abito che ha scelto lui stesso nel suo armadio e che lei indossa da quando egli disse: “ti amo”.

Un calice di vino rosso ondeggia in mano al cospetto di un mondo decisamente lontano, un dettaglio minimo del tutto, a molti estraneo, ma comune – maestoso – solo a loro.

E’ Justine Fober, nostalgica su un molo, nel cuore d’un agosto che sognava diverso; la riconosco è proprio lei, quando le brillano gli occhi e non cede più ad un sorriso beffardo. Lei che scruta gli uomini poi sfugge al loro sguardo per non invitarli ulteriormente. Lei che ci somigliava, che passeggia lentamente, guardandosi intorno e trascinando in terra un fazzoletto estivo, forse un foulard bianco con una maglia a grana di riso.
Fober.. di un etimo incerto, un noema semplice, di una grafia emotiva ed un tratto fragile tracciato su una superficie di velluto grigio, una grammatura consistente che poteva anche reggere il disegno… ed un epilogo disfatto per mano della mia stupida incertezza di uomo.

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Genesi

Lui era il tuo datore di lavoro, aveva quarantadue anni in quel periodo. Era titolare di un negozio di parrucchiere a viale delle Fornaci, cento metri circa dalla Basilica di San Pietro. Uomo pulito, classico, vissuto. Entrava sempre in giacca e cravatta, gli calzava come un modello, sembrava un attore. Era gentile con tutte le clienti e severo con le dipendenti al momento giusto, e nella giusta maniera.

Tu eri diventata la sua sciampista, ne avevi soli ventidue di anni. Eri partita dalla Sardegna a diciannove per vivere con tua zia Efisia e diventare una parrucchiera.
Era il tuo sogno, sogni semplici, essenziali i tuoi.

Non ne potevi più della solitudine di una Barbagia, degli obblighi familiari di tua madre e le botte di tuo padre. Sei scappata via da Gesturi, quel piccolo paese al centro dell’isola, ai piedi del monte La Giara. Un paesino di un migliaio di abitanti, persiane chiuse, donne vestite di nero nell’assolata campagna, odore di fieno, carretti trainati da asini, diffidenza, pregiudizi, isolamento.

Eppure sapevi che di donne ne aveva avute, ne aveva ancora una in quel periodo: Elvi. Ti aveva parlato di lei, ti aveva avvisato, è sempre stato schietto. Ma il tuo amore era incondizionato.

Ti sei lasciata portare via da lui, in quei due giorni festivi. Adulto, conoscitore dei sensi, infallibile. Ti ha portato nel suo paese: Castellamare di Stabbia. Ti ha fatto gustare il sapore del mare, delle terme, le affinità partenopee. Ti raccontava di quando da ragazzino, rastrellava le cozze e le mangiava crude. Aveva gli occhi lucidi nei suoi racconti, sembrava quasi piangesse.

Poi ti ha portato a fare all’amore. Ti ha cantato: “Voglio amarti così…”. Ha lasciato tutto e soprattutto tutte.
Ti ha sposato e ti ha promesso di amarti per tutta la vita.

E’ così ha fatto.

fotografie ritrovate

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