Madre

40 Immagini estetiche creative del mondo

Ritengo che non sia più rinviabile provare a dedicarle un pensiero, quindi lo faccio adesso, prima che il tramonto mi riconsegni all’abituale stato di inerzia durante il quale l’incursione pressoché costante dei ricordi dolorosi ridesta il rimorso per giorni che avrebbero potuto e dovuto essere edificanti e che invece, per colpa mia, si sono risolti in risvolti di sordido menefreghismo.

È un anno esatto che mia madre manca dalla sua casa, dove tuttavia non è stata dimenticata; al contrario, come succede spesso con i defunti, è diventata figura insistita di un corollario di rimandi tra i quali il meno attendibile è il più emotivamente coinvolgente. Il dramma vissuto in solitudine, giacché non trova udienza negli altri, è il prezzo che pago per essere stata una figlia discutibile, di sfaccendata ricercatezza e inutile quotidianità.

Ti ho voluto bene, mamma.

Talor m’assido in solitaria parte,
Sovra un rialto, al margine d’un lago
Di taciturne piante incoronato.
Ivi, quando il meriggio in ciel si volve,
La sua tranquilla imago il Sol dipinge,
Ed erba o foglia non si crolla al vento,
E non onda incresparsi, e non cicala
Strider, nè batter penna augello in ramo,
Nè farfalla ronzar, nè voce o moto
Da presso nè da lunge odi nè vedi.
Tien quelle rive altissima quiete;
Ond’io quasi me stesso e il mondo obblio
Sedendo immoto; e già mi par che sciolte
Giaccian le membra mie, nè spirto o senso
Più le commova, e lor quiete antica
Co’ silenzi del loco si confonda.

Giacomo Leopardi, La vita solitaria

Manteniamo le distanze

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E ora che le cene all’aperto non le puoi più fare, quanta gente inviterai il sabato sera, mia cara?

Non lo so, questa storia dell’isolamento mascherato da distanziamento mi fa impazzire. Ma che vita stiamo vivendo, Eryn?

Di certo non una vita a misura d’uomo; però dobbiamo proteggerci, anche a costo di isolarci. Non abbiamo scelta.

Ma brava, la fai facile, tu! La tua casa non è mai stata un porto di mare, ma un eremo per pochi eletti.

Che sciocca che sei, concedo udienza anch’io, è solo che mi centellino un po’. Tuttavia stavamo parlando di te. Insomma, come ti regolerai d’ora in avanti?

Non inviterò nessuno, ecco quello che farò. Poi si vedrà.

Da qualunque lato la si voglia guardare, la condizione attuale finisce con l’essere straniante, è come ingerire un veleno a rilascio prolungato, fingendo sia un toccasana. Sentirsi defraudati degli altri, chi l’avrebbe mai immaginato? Non ci resta che attendere le prime esibizioni muscolari dell’inverno. Sarà più facile darsela a bere.

Quel giorno, tra Zeus ed Era

Quel giorno, tra Zeus ed Era

La prima scena di seduzione della letteratura occidentale viene descritta, con tutta la potenza narrativa di cui Omero è capace, nel XIV canto dell’IliadeQuesto il contesto: privi della loro punta di diamante Achille – che da tempo ha rinunciato a combattere perché adirato con il capo della spedizione, Agamennone –, gli Achei si trovano in situazione di gravissima difficoltà. I Troiani imperversano sul campo di battaglia, e sono arrivati al punto di abbattere il muro di protezione dell’accampamento nemico. Disperati, i capi degli Achei si riuniscono per decidere il da farsi; ad Agamennone che addirittura propone di tagliare la corda, mettendo in mare le navi nell’oscurità della notte, Ulisse e Diomede rispondono, indignati, che un simile comportamento non è da uomini valorosi: bisogna continuare a combattere. Per vincere, tuttavia, non bastano il coraggio e la forza dei mortali; è necessario un intervento divino.

È qui che entra in gioco Era, avversaria dei Troiani sin da prima della guerra, dal tempo che Paride la giudicò meno bella di Afrodite (ma questa è una storia che racconteremo più in là). Per favorire gli Achei suoi protetti, Era deve fare in modo che si allenti il controllo che suo marito Zeus esercita sul campo di battaglia. Sa bene, la dea, che convincerlo soltanto con le parole non può; c’è bisogno di altro, di un piano astuto e molto ben architettato. È così che si reca nelle sue stanze e inizia un’accuratissima toilette: si lava, si unge di un olio inebriante, si pettina, si veste e si ingioiella. Quindi si reca da Afrodite.

Tra le due non corre buon sangue, visto che Afrodite, riconoscente a Paride che la aveva preferita a Era giudicandola come la più bella delle dee, parteggia per i Troiani. Ma Era è scaltra abbastanza da farsela amica, in questa circostanza: il suo aiuto le è indispensabile. E allora la suborna con una credibile menzogna: le dice che vuole far da paciera tra altre due divinità, Oceano e Teti, che da tempo litigano e non godono delle gioie del letto; può Afrodite darle amore e desiderio, in modo che lei possa riuscire nell’impresa? Naturalmente, Afrodite accondiscende di buon grado, cadendo nel tranello; e, dopo esserselo sciolto dal petto, le mette in mano l’oggetto che racchiude il potere invincibile della seduzione e della brama erotica: la cinta ricamata, di vario colore, dove erano posti tutti gli incantamenti; lì c’è amore, lì desiderio, lì incontro e seduzione, che toglie la mente anche ai savi.

La dea Era prende la cinta di Afrodite, la indossa, e con essa si mostra a Zeus, che subito è colto da un fortissimo desiderio di lei, «come quando la prima volta si unirono in amore»; la sua consorte, però, è sfuggente, e ripete anche a lui la bugia che deve recarsi al più presto da Oceano e Teti, per riappacificarli. Zeus, però, insiste: Era, laggiù puoi ben andare più tardi: vieni ora, stendiamoci e diamoci all’amore. Mai così desiderio di dea o di donna mortale mi vinse, spandendosi dappertutto nel petto.

E, senza imbarazzo alcuno, prosegue snocciolando un lungo elenco di amanti – una specie di catalogo di Leporello ante litteram – alle quali in passato non aveva saputo resistere. Una cosa che alle nostre orecchie  suona ben poco elegante, anche se poi non doveva essere fuori luogo per la mentalità del tempo: era normale che l’uomo non provasse per la moglie quella pulsione erotica che invece lo accendeva nelle relazioni adulterine, di cui peraltro non faceva mai troppo mistero.

Comunque sia, Era – nota per essere molto gelosa delle ripetute scappatelle di Zeus – qui sembra non fare caso alla lunga lista di conquiste extraconiugali del marito e alla sua caduta di stile nel ricordarle, determinata com’è a portare a termine il suo piano. Di nuovo però si mostra ritrosa, finge pudicizia: non può giacere con lui, perché è pieno giorno. Qualcuno degli dei potrebbe vederla, e per lei sarebbe una vergogna. Ma Zeus la rassicura: verserà tutt’intorno una nebbia così fitta che nessuno potrà sorprenderli mentre si abbandonano all’amore. È così che Era, infine, capitola – o meglio, fa finta di capitolare – e che Zeus si illude di sedurla, anche se in realtà ottiene quello che lei aveva già deciso di concedergli.

I due si abbandonano dunque all’amore, stendendosi su un prato fiorito – dettaglio importante questo, su cui torneremo –. Al termine dell’amplesso, Era completa il suo piano facendo addormentare Zeus con l’aiuto di Hypnos, il Sonno; e mentre il padre degli dei dorme placido e appagato, la dea può consentire agli Achei di recuperare forza sul campo di battaglia.

Il gustoso episodio appena rievocato ridimensiona, e non poco, la fama di seduttore che a Zeus tradizionalmente si attribuisce, e che lui è il primo ad alimentare, come la sopra ricordata lista di partner facilmente dimostra. Del seduttore, in effetti, Zeus non ha nulla: posto che la seduzione passa dalla capacità di ammaliare, di condurre un gioco sottile di sguardi, di parole e di silenzi, di movimenti del corpo che dicono più di quanto appare, ebbene, il re degli dei non possiede nessuna di queste doti. Se la preda su cui ha messo gli occhi cede subito, tanto meglio; altrimenti, egli ricorre ai sotterfugi, alle mutazioni zoomorfe, alla forza per possedere chi gli fa resistenza. Un esempio per tutti? Quello di Europa, la fanciulla fenicia della quale un giorno Zeus si invaghì, vedendola giocare insieme alle amiche. Per attrarre la sua attenzione, il dio si trasformò in un toro bianchissimo: e, non appena la ragazza gli si avvicinò per accarezzarlo, egli la rapì, portandola lontano sulla sua groppa per potersi unire a lei senza che nessuno disturbasse l’amplessoZeus non è un seduttore: è – come lo ha definito Eva Cantarella con immagine icastica – un «molestatore seriale».

Del resto, nel mito greco si cercherebbe invano un dio o un eroe seduttore: per i Greci, la seduzione non può che essere donna.

Laura Pepe, La voce delle sirene

L’educazione sentimentale dei giovani, e più in generale di tutti i maschi idioti, potrebbe cominciare da qui, dalla mitologia greca. Ora, se ai teneri virgulti riservo il necessario beneficio del dubbio, per gli adulti che somigliano a Zeus non provo neppure compassione. Ne ho incrociati così tanti di ominicchi che preferisco riconoscermi nella consuetudine alla solitudine, pur di non correre il rischio di doverne protocollare un altro.

Dare l’acqua ai fiori

“Se cerchi un tesoro/Non cercarlo nelle parole della gente, devi cercarlo nei posti meno visibili,/Cercarlo in fondo all'anima di chi troveresti solo vento …” ( Alda Merini-"Sa parlare con soli silenzi ")| Il mio vivere in poesia

È da tempo immemorabile che trovo nella natura un’ineludibile fonte di ispirazione; benché capiti che il solo osservarla conduca i pensieri in un’unica direzione – la caducità del tutto, ma pure, magra consolazione, l’eterno perpetuarsi della vita -, non c’è città, evento, o posto alla moda che mi si confaccia meglio di una passeggiata nel sole.

Ho letto dunque con bieco compiacimento una breve dichiarazione di Valérie Perrin, l’autrice di Cambiare l’acqua ai fiori; in buona sostanza la scrittrice francese elogiava “i valori essenziali” che “risiedono in chi amiamo, nelle piante, ma anche nella calma e nel raccoglimento”.

Ecco, ho pensato, a me non è stato necessario cambiare l’acqua ai fiori per capire, ma in pochi mi hanno dato credito. Forse non sono chic quanto Valérie?

Ogni volta che ti picchio

I ritratti misteriosi di Andrea Torres Balaguer | Collater.al

 

Mia madre non la smette più di parlarne. 
Sono passati cinque anni, e ogni anno la sua storia si è modificata e trasformata, i dettagli sono andati in gran parte perduti, l’ordine degli eventi, la data del mese, il giorno della settimana, il periodo dell’anno, gli eccetera e i così via, finché sono rimasti soltanto i particolari più assurdi.

Così, quando inizia a raccontare della volta in cui sono fuggita da casa di mio marito perché venivo regolarmente picchiata e per me era ormai diventato insostenibile e intollerabile continuare a interpretare la parte della brava moglie indiana, mia madre non parla di quel mostro che era mio marito, non parla della violenza, non parla neppure della serie di eventi che ha portato alla mia fuga. Non è il genere di storia che sentirete mai da mia madre, perché mia madre è un’insegnante, e un’insegnante sa che non c’è motivo di affermare l’ovvio. Come insegnante, sa anche che affermare l’ovvio è un segno certo di stupidità.

Quando racconta la storia della mia fuga parla dei miei piedi. (Persino quando io sono presente. Persino quando i miei piedi sono sotto gli occhi dell’ascoltatore di turno. Persino quando, per la vergogna, arriccio le dita dei piedi in questione. Persino quando la verità è che i miei piedi non hanno avuto alcun ruolo nella mia fuga, se non quello di condurmi al più vicino autorisciò, per un centinaio di metri al massimo. Mia madre sembra non accorgersi del mio imbarazzo. In realtà, sospetto che si goda parecchio lo spettacolo).

Meena Kandasamy, Ogni volta che ti picchio

Abissi di violenza subiti perlopiù in solitudine, perché anche chi vede, sceglie di non vedere.

Tutte le donne, anche quelle che riescono a mettersi in salvo, prima di farlo cercano di giustificare le asimmetrie mentali del compagno, ostinandosi a indagare i motivi di quella violenza. La verità è che la sensibilità femminile è portata a scandagliare i recessi più sordidi dell’altro, ma ha premura di vestirsi di riserbo pudico, come da vecchi retaggi. Tuttavia qualcosa sta cambiando, e prima o poi la patetica presunzione dell’uomo di sentirsi superiore alla donna sarà spazzata via.

 

 

La lotta inestinguibile fra Eros e Thanatos

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Sabah dà giovinezza alla mia vecchiaia, poiché l’amore e la tenerezza sono acque di giovinezza migliori della pappa reale o del ginseng. (…) Invecchio con la fatica e ringiovanisco quando mi coglie l’ardore. Tutto si restringe, ma nel mio essere abita il fuoco intenso alimentato dall’amata. Ho sempre la curiosità e il gusto infantile del gioco, le aspirazioni adolescenziali, pur avendo perduto ogni illusione. Sono posseduto dal mondo, posseduto dalla specie umana, posseduto dall’amore, posseduto dal mistero, posseduto dalla meraviglia, posseduto dalla rivolta, posseduto dal mio daimon. (…)

Quando guardo al mio passato mi riconforto ricordando le oasi di vita temporanee, le estasi personali e collettive in cui mi sono ritrovato perdendomi. (…) Dall’origine dell’universo, Eros, durante lo scatenarsi delle forze di associazione, di unione, di fusione, ha agito inseparabilmente da Thanatos che incarna le forze di disperazione, di conflitto, di distruzione, di disintegrazione, di morte. E ciò fu e continuerà per miliardi di anni e per miliardi e miliardi di esseri fisici, atomi, stelle, galassie. E ciò fu, continua e continuerà nella non meno incredibile avventura della vita in cui solidarietà, parassitismi, conflittualità, predazioni sono inseparabilmente legati. (…)

Ciò che so è che la lotta inestinguibile fra Eros e Thanatos non si fermerà e che Eros, talvolta accecato, può operare senza saperlo al servizio di Thanatos. So che tutto è incerto, ma anche che Thanatos non sarà mai interamente vincitore se non alla fine di tutti i tempi, vale a dire dell’universo. E so che nel più profondo di me stesso, e definitivamente, devo non solo scegliere il partito di Eros senza illudermi, consapevole che non scacceremo mai le tenebre e che la torcia che ci illumina ci rivelerà inevitabilmente  l’immensità dell’ombra e della notte.

Ah, se ciascuno sentisse, sapesse che ogni momento della sua esistenza è un monumento, certo infinitesimale ma reale, nel cuore di un’epopea in cui dobbiamo alimentare la fiamma d’amore che dà la vita e la consuma.

Edgar Morin, I ricordi mi vengono incontro

Una vita appagata, e tale m’appare quella di Morin, è più propensa alla chiarità, alla confidenza con la pacatezza dei toni ma non dei colori che anzi rifulgono. Diverso il discorso per chi ha abbracciato la notte e vede i giorni isterilirsi, restando tuttavia aggrappato al lembo estremo di ciò che s’ostina a chiamare vita.

Il diavolo lotta con Dio e il campo di battaglia è il cuore dell’uomo

(981) Life: What is something every person should experience at least once in a lifetime? - Quora

Per una qualche predestinazione fatta prima che il tempo avesse inizio, io sono costretto a negare, mi hanno scelto come capro espiatorio. Per me chiedo semplicemente l’annientamento. No, vivi, mi dicono, perché  senza di te non ci sarebbe niente. Se sulla terra tutto fosse sensato, allora non succederebbe un bel nulla. Perché la sofferenza è vita e senza di te non ci sarebbero avvenimenti, e invece è necessario che ce ne siano. E così io presto il mio servizio a malincuore affinché ci siano avvenimenti, e su ordinazione creo l’insensato.

Fëdor Dostoevskij

Tutte le pagine di Dostoevskij costringono il lettore a un continuo slittamento di significato, dal momento che le tante voci che animano i suoi romanzi sono così contraddittorie da risolversi in un gioco di specchi in cui è valido tutto e il suo contrario.

Quando parliamo del Male, cercando una spiegazione alla sua assolutezza, paradossalmente compiamo un atto sacrilego, perché lo contrapponiamo al bene, certi che a dividerli ci sia un confine netto. E invece tutto è doppio. Ma non amiamo presentirlo.

Sulla morte

"Nella vita ci sono cose che ti cerchi e altre che ti vengono a cercare..."

Nulla è più evidente del fatto che i decadimenti dell’età debbano concludersi con la morte; eppure non esiste uomo, dice Tully, che non creda di poter vivere ancora un anno; e non c’è nessuno che, sulla base del medesimo principio, non speri in un altro anno per un genitore o un amico; ma la fallacia verrà messa a nudo dal tempo; l’ultimo anno, l’ultimo giorno devono per forza di cose arrivare.  È venuta ed è passata. La vita che ha reso piacevole la mia esistenza volge al termine e le porte della morte si chiudono davanti alle mie speranze.

La perdita di un amico al quale il cuore era affezionato, verso il quale erano rivolti ogni desiderio e sforzo, è uno stato di desolazione nel quale la mente si guarda intorno, insofferente, e non trova altro che vuoto e orrore. La vita senza macchia, l’ingenua tenerezza, la devota semplicità, la modesta rassegnazione, la paziente malattia e la placida morte, si ricordano solo per aggiungere valore alla perdita, per inasprire il rimpianto per ciò che non si può cambiare, per acuire il dolore per ciò che non può tornare.

Queste sono sciagure tramite le quali la Provvidenza ci allontana gradualmente dall’amore per la vita. Altre avversità la forza d’animo è in grado di contrastare, o la speranza di mitigare; ma l’irreparabile privazione non lascia modo di praticare la fermezza o accarezzare l’aspettativa. L’estinto non può tornare e a noi non restano altro che illanguidimento e cordoglio.

Eppure, siffatto è il corso della natura, che chiunque viva a lungo sopravvive a coloro che ama e rispetta. Tale è la condizione della nostra attuale esistenza, che la vita deve una volta perdere i suoi legami, e ogni abitante della terra deve scendere nella tomba da solo e negletto, senza un compagno nella gioia o nel dolore, senza testimoni interessati alle sue sventure o al suo successo.

Afflizione, certo, potrà sentire, poiché dov’è il fondo dell’infelicità umana? Ma cos’è il successo per colui che non ha nessuno per goderne. La felicità non si trova nell’autocontemplazione; si percepisce solo quando viene riflessa dall’altro.

Sappiamo poco delle anime dipartite, poiché questo sapere non è necessario a una buona vita. La ragione ci abbandona sul ciglio del sepolcro e la comprensione viene meno. La rivelazione non è del tutto silenziosa. “C’è gioia negli Angeli del Paradiso per un peccatore che si pente”, e di certo questa gioia non è incomunicabile alle anime districate dal corpo e rese come Angeli.

Lasciamo perciò che la speranza detti, ciò che la rivelazione non confuta, che l’unione di anime possa ancora permanere; e che noi, che ci dibattiamo con il peccato, il dolore e le infermità, possiamo avere la nostra parte di attenzione e gentilezza da coloro che hanno concluso il loro corso, e che adesso stanno ricevendo la loro ricompensa.

Samuel Johnson, The Idler, numero 41

Benché scritto da un credente, questo lamento funebre è fruibile da chiunque sia in lutto per la morte di un amico o di un famigliare; e per restare in tema di addii, non posso non citare un sonetto di Keats, Fulgida stella, ricordando che il poeta espresse in questi versi il rammarico per la fine che sapeva imminente. Morì di tubercolosi all’età di venticinque anni.

Fulgida stella, come tu lo sei
fermo foss’io, però non in solingo
splendore alto sospeso nella notte
con rimosse le palpebre in eterno
a sorvegliare come paziente
ed insonne Romito di natura
le mobili acque in loro puro ufficio
sacerdotale di lavacro intorno
ai lidi umani della terra, oppure
guardar la molle maschera di neve
quando appena coprì monti e pianure.
No, – eppure sempre fermo, sempre senza
mutamento sul vago seno in fiore
dell’amor mio, come guanciale; sempre
sentirne il su e giù soave d’onda, sempre
desto in un dolce eccitamento
a udire sempre sempre il suo respiro
attenuato, e così viver sempre,
– o se no, venir meno nella morte.

Tu che ami i biancospini

Nunca te sientas culpable por comenzar de nuevo

“Tu che ami i biancospini, guarda un po’ quello spino rosa: non è una meraviglia?”. In effetti era uno spino, ma rosa, ancora più bello di quelli bianchi. Era, anch’esso, agghindato a festa – di quelle sole vere feste che sono le feste religiose, giacché nessun capriccio contingente le applica, come le feste mondane, a un giorno qualsiasi, che non è specificamente destinato a loro e che non ha nulla  di essenzialmente festivo -, ma in un modo ancora più ricco, dal momento che i fiori, attaccati al ramo uno sopra l’altro così da non lasciare il minimo spazio privo di ornamento, come una cascata di fiocchi su una mazza rococò, erano “colorati” e quindi di una qualità superiore secondo l’estetica di Combray, almeno a voler giudicare dalla graduatoria dei prezzi nell'”emporio” della Piazza o da Camus, dove i biscotti rosa erano più cari. Io stesso apprezzavo di più il formaggio alla crema se era rosa, cioè se mi avevano permesso di schiacciarci sopra delle fragole. E quei fiori avevano scelto appunto una di quelle tinte di cosa mangereccia, o di tenero abbellimento d’una toilette per una festa grande, che sono, nella misura in cui manifestano la ragione della loro superiorità, quelle che appaiono più evidentemente belle agli occhi dei fanciulli e, di conseguenza, avranno sempre per loro qualcosa di più vivo e di più naturale di qualsiasi altra tinta, anche quando sarà ormai chiaro che non promettevano nulla alla loro gola e che non era stata la sarta a sceglierle. E io, certo, l’avevo sentito subito – come davanti agli spini bianchi ma con più meraviglia – che non in modo fittizio, attraverso un’artificiosa confezione umana, s’era tradotta nei fiori l’intenzione di festa, ma era stata la natura stessa a esprimerla spontaneamente, con l’ingenuità di una merciaia di paese che addobba un repositorio, sovraccaricando l’arbusto di quelle rosette dal tono troppo tenero e di un pompadour provinciale.

Marcel Proust, Dalla parte di Swann

The First Night of Fall and Falling Rain

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La pioggia comune è tornata

Obliqua e incolore, pallida e anonima,

Flebile cade nella prima sera

Al primo accenno del vero autunno,

La lunga e tarda luce si era lentamente raccolta

Un fuligginoso bosco di nuvoloso cielo, smorzato e distante    sempre più

Fino a che, come l’imbrunire, il senso stesso dell’individualità è svanito,

Una debolezza che niente ha arrestato, diminuito o negato o messo da parte

Né il tè né, dopo un’ora, il whisky,

Ghiaccio e poi un piacevole chiarore, un bruciore,

E le prime lingue di fuoco che saltano

Sin da una fredda notte di maggio, troppo tempo fa per non essere

Che un freddo e vivido ricordo.

Lo sguardo fisso, vuoto e senza pensiero

Oltre le nebbie dell’emozione della tristezza immotivata,

All’improvviso tutta la coscienza si è tramutata in spontanea contentezza;

Sapendo senza pensare come la pioggia che cade (fuori, dappertutto)

In una lenta sostenuta costante vibrazione dappertutto all’esterno

Picchiettando sulla finestra, rigando il tetto, scorrendo nel canale di scolo

E risvegliando il senso, ancora una volta, di tutto ciò che viveva fuori da noi,

Al di là dell’emozione, al di là delle gonfie ombre distorte e delle luci

Della città giocattolo e della fiera delle vanità della vigile coscienza!

Delmore Schwartz, The First Night of Fall and Falling Rain

Tutte le volte che viene a piovere, quel suono schiude alla figura di un desiderio sublimato dalla distanza. Il retrogusto del passato, particolarmente caro a chi opera un’esplorazione cognitiva del presente solo per dovere, vive di due momenti antitetici: rimozione e ricordo. Il  primo è figlio di una distorsione, il secondo di una nostalgia che si stempera in una gnosi perduta.