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Ascari: I Leoni d' Eritrea. Coraggio, Fedeltà, Onore. Tributo al Valore degli Ascari Eritrei.

 

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L'Ascaro del cimitero d'Asmara.

Sessant’anni fa gli avevano dato una divisa kaki, il moschetto ‘91, un tarbush rosso fiammante calcato in testa, tanto poco marziale da sembrare uscito dal magazzino di un trovarobe.
Ha giurato in nome di un’Italia che non esiste più, per un re che è ormai da un pezzo sui libri di storia. Ma non importa: perché la fedeltà è un nodo strano, contorto, indecifrabile. Adesso il vecchio Ghelssechidam è curvato dalla mano del tempo......

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Seconda Guerra Mondiale. Guerra in Africa Orientale. Parte Terza.

Post n°206 pubblicato il 26 Gennaio 2009 da wrnzla

Seconda Guerra Mondiale. Guerra in Africa Orientale. Parte Terza.

Sulla destra la 9ª brigata di fanteria della 5ª divisione indiana approfittando del momento in cui gli italiani erano preoccupati per l'esito dei combattimenti in atto sulla sinistra cominciò ad avanzare verso Dologorodoc ma si trovò quasi subito sotto il micidiale tiro incrociato dei difensori, fino a quando riuscì ad avanzare furtivamente nell'oscurità e ad assicurarsi un punto d'appoggio a Dologorodoc. Alle prime luci dell'alba il forte fu preso d'assalto conquistato e tenuto nonostante i ripetuti contrattacchi. La battaglia continuò a infuriare tutto il giorno del 16 marzo senza che le truppe britanniche riuscissero ad avanzare ma non perdettero terreno.

Prima ancora che l'occupazione della Somalia da parte degli inglesi fosse completa, il generale Cunningham decise di cominciare l'avanzata in Etiopia. Tre ragioni imponevano rapidità all'azione.

La prima era che non sapeva di preciso quando avrebbe dovuto cedere una parte degli uomini alle sue dipendenze, né quanti, perché la loro presenza era assolutamente necessaria nel Medio Oriente.

La seconda era che il crollo della Somalia aveva parzialmente indebolito l'avversario, ma se avesse temporeggiato gli avrebbe offerto la possibilità di riorganizzarsi e di riprendere animo.

La terza era che alla fine di aprile o agl'inizi di maggio in Etiopia sarebbero incominciate le grandi piogge, rendendo praticamente impossibile ogni movimento.

Un sondaggio precedente effettuato sul confine meridionale etiopico attraverso il deserto di lava di Chelbi, da due brigate della 1ª divisione sudafricana partite da Marsabit nella provincia settentrionale del Kenya, aveva dimostrato che il tentativo italiano di un'invasione dal sud era irrealizzabile. Un secondo tentativo sperimentale di penetrare in Etiopia dal Kenya era stato intrapreso soltanto dopo che la caduta di Chisimaio aveva rivelato la debolezza degli italiani. Due brigate sudafricane le quali, dopo aver attraversato la frontiera a nord di Marsabit, si erano dirette verso Mega, una città etiopica dell'interno attaccandola il 18 febbraio e trovando scarsa resistenza, tanto che il presidio italiano si arrese dopo poche ore. Furono catturati 26 ufficiali, 972 fra sottufficiali graduati e soldati, nonché 7 cannoni.

A quel punto si arrivò alla decisione definitiva di un'invasione dall'Etiopia meridionale, ma l'unica strada transitabile che portava da Mega verso nord si svolgeva lungo una pista tortuosa in mezzo alle montagne, mentre l'inattesa e imminente caduta di Mogadiscio in Somalia offriva la possibilità di un percorso molto più agevole, perciò il peso dell'azione fu spostato da Mega e le truppe si lanciarono all'inseguimento degli italiani che si ritiravano dalla Somalia.

Il duca d'Aosta tentando di prevenire una probabile avanzata delle truppe sudafricane ordinò al generale de Simone che si stava ritirando da Mogadiscio, di inviare una divisione 720 km a sud ovest di Neghelli, a cavallo dell'unica strada transitabile proveniente da Mega. In considerazione che gli inglesi avevano spostato da Mega la loro direttrice dell'attacco questa manovra provocò l'indebolimento delle forze italiane sulla direttrice dell'avanzata britannica dalla Somalia.

Il compito d'inseguire le truppe del generale de Simone fu affidato all'11ª divisione africana del maggiore generale Wetherall, alla quale furono aggregati il 1°, raggruppamento di brigata sudafricano e la 22" brigata dell'Africa Orientale. L'ala divisione comprendeva inoltre la 23ª brigata nigeriana e alcuni reparti sudafricani di artiglieria da campagna e pesante e per di più durante quest'azione avrebbe potuto contare su un massiccio appoggio aereo.

La strada che porta da Mogadiscio a Giggiga, la linea di ritirata italiana, corre per 640 km attraverso le pianure somale, quindi, a circa 320 km oltre il confine, in territorio etiopico, raggiunge i contrafforti montuosi dell'interno e si arrampica ripida verso Giggiga da dove continua, superando i 3.000 m di altitudine. L'11ª divisione africana incalzava la ritirata a un ritmo cosi serrato che gli italiani non accennarono neppure a un tentativo di resistenza finché non ebbero oltrepassato Giggiga che fu abbandonata il 17 marzo.

A più di una trentina di chilometri a ovest di Giggiga la strada che porta a Harrar, attraversa una stretta gola, il passo di Marda, e 96 km più avanti, in direzione ovest, passa attraverso un'altra strozzatura, il passo di Babile. Entrambi questi passi si prestavano ottimamente alla difesa in quanto non consentivano l'accerchiamento, ed entrambi furono scelti dagli italiani per attestarsi.

Il 21 marzo, l'artiglieria sudafricana diresse un pesante tiro di preparazione contro le posizioni italiane di passo Marda. A mezzogiorno i nigeriani avanzarono sul terreno scoperto, sotto un fuoco intenso ma poco preciso che servi a rallentare l'avanzata e alla sera un distaccamento aveva raggiunto una posizione dominante sul lato destro della strada, dalla quale si poteva dare l'assalto alla cresta. Il piccolo gruppo ricevette rinforzi nel corso della notte, in attesa di espugnare la cima il mattino successivo. Ma alle prime luci dell'alba gli attaccanti si accorsero che le difese erano state abbandonate: durante la notte gli italiani si erano ritirati per opporre resistenza al passo Babile.

L'inseguimento fu ripreso immediatamente e a metà pomeriggio i nigeriani avevano già coperto 96 km. La velocità dell'attacco colse gli italiani impreparati: infatti, le posizioni difensive del passo Babile non erano ancora state presidiate. Dopo una vivace azione di retroguardia gli italiani arretrarono di altri 16 km, fino alle rive del Bisidimo, ma i nigeriani li raggiunsero prima che avessero potuto organizzare la difesa. Si ritirarono di nuovo dopo una breve azione diversiva, allo scopo di guadagnare tempo. Harrar, a soli 19 km di distanza, era presidiata da tre brigate italiane, sicché gli inseguitori si attendevano una forte resistenza; ma mentre i nigeriani si trovavano ancora sul fiume Bisidimo gli italiani, non si sa per quale inesplicabile motivo, dichiararono Harrar città aperta.

A 80 km da Harrar, in direzione nord ovest, si trova Dire Daua, un importante centro amministrativo dove risiedeva una numerosa comunità italiana. Le truppe britanniche si trovavano ancora a grande distanza dalla località, quando incontrarono un gruppo di italiani appartenenti alla polizia civile, latori di un appello urgente rivolto al generale Wetherall affinché accelerasse l'entrata delle sue truppe nella città. Il presidio militare si era ritirato e bande di etiopi composte in maggioranza di disertori armati si erano scatenate contro la popolazione civile indifesa commettendo saccheggi e stupri, assassinando e mutilando.

Le strade non erano transitabili ai veicoli poiché gli italiani le avevano parzialmente distrutte, , ma un reparto di truppe sudafricane avanzò a piedi e arrivò a Dire Daua dove si dovette impegnare in combattimento per le vie di una città. Gli etiopi erano ben armati e i sudafricani impiegarono un giorno e una notte per instaurare una parvenza d'ordine.

Sia l'alto comando inglese sia quello italiano erano rimasti profondamente colpiti dalle atrocità commesse dagli etiopi, tanto che i fatti di Dire Daua ebbero un peso determinante nelle successive decisioni circa il destino di Addis Abeba.

Il presidio che si era ritirato da Dire Daua tentava intanto di aprirsi un varco a sud ovest, attraverso i sentieri di montagna, dirigendosi verso il fiume Auasc, distante 250 km e a metà strada da Addis Abeba, con la speranza di non venire scoperto poiché riteneva che le ostruzioni stradali avrebbero rallentato considerevolmente l'avanzata britannica. Auasc è uno dei più grandi fiumi etiopici e sulla sua riva sinistra gli italiani stavano costruendo opere difensive in posizione tatticamente vantaggiosa.

Tuttavia il 1° raggruppamento di brigata sudafricano che si trovava adesso all'avanguardia, si spinse avanti per 160 km lungo la strada e mentre gli italiani che si erano ritirati da Dire Daua stavano ancora avanzando fra le montagne, era arrivato in prossimità dell'Auasc. La 22ª brigata britannica dell'Africa Orientale oltrepassò il gruppo sudafricano e raggiunse il fiume prima della guarnigione italiana di Dire Daua e prima ancora che fossero state approntate le difese. Senza indugi ne risali il corso e, sotto la protezione del tiro dell'artiglieria, gli uomini si diedero da fare per stabilire una piccola testa di ponte sulla riva opposta, Addis Abeba si trovava a soli 240 chilometri. A questo punto il duca d'Aosta decise di rinunciare alla difesa della capitale, comunicò a Mussolini che la sua unica speranza per riuscire in questo intento era di resistere in una o più località inespugnabili, abbandonando tutti i settori esposti. Per alleggerire la propria situazione e per il bene della stessa comunità dei connazionali sarebbe stato opportuno che questa passasse al più presto sotto la protezione militare inglese, soprattutto per evitare che in Addis Abeba si ripetesse quanto era avvenuto a Dire Daua. Perciò il duca ordinò di sgombrare la strada per non ostacolare l'ingresso delle truppe britanniche e diede disposizioni di lasciare sul posto scorte di viveri e un gruppo di funzionari civili affinché gli occupanti potessero mantenere in efficienza i servizi essenziali Le forze inglesi attestate sul fiume Auasc non erano a conoscenza della decisione presa dal viceré però furono informate che gli italiani in ritirata, anziché ripiegare su Addis Abeba, si stavano dirigendo a sud ovest verso l'inospitale regione di Neghelli, lontano dalla loro direttrice d'avanzata.

Nelle prime ore del 5 aprile un messaggero della polizia italiana giunse tutto affannato davanti alle prime linee degli inglesi, recando un appello urgente che li sollecitava a entrare senza indugio in Addis Abeba. Il presidio italiano si era ritirato al completo e gli etiopi si stavano sfrenando selvaggiamente, come era avvenuto a Dire Daua. Erano in pericolo soprattutto le donne e i bambini. Perciò il mattino seguente un nucleo misto formato da reparti delle tre brigate che avevano preso parte all'inseguimento entrò in città.

In otto settimane gli inglesi avevano percorso 2.700 km su un terreno che in certi tratti era fra i più impervi dell'Africa. Non avevano dovuto sostenere combattimenti di gran rilievo e le loro perdite negli scontri erano state esigue soltanto 501 uomini. Gli italiani avevano perduto buona parte dell'armamento, dell'equipaggiamento e delle scorte di viveri, oltre a un gran numero di prigionieri, però in combattimento anche le loro perdite erano state relativamente leggere. Addis Abeba era stata occupata, ma vi era ancora un'armata italiana in perfetta efficienza cosa che al momento si adattava ai piani del duca d'Aosta, ma non spiegava la rinunzia completa a un impegno più deciso per la difesa della Somalia, dell'Etiopia sudorientale o di Addis Abeba. E' da notare che il viceré aveva impartito disposizioni precise affinché in certi punti chiave ad esempio sul Giuba, a Dire Daua sui due passi montani prima di Harrar, sulle rive dell'Auasc, tutte posizioni strategiche di prim'ordine gli italiani opponessero resistenza, ma non uno dei suoi ordini fu eseguito. Inoltre l'aviazione italiana, che in questa prima fase sarebbe stata ancora in grado di sostenere una parte di rilievo nelle operazioni, praticamente non l'ebbe mai.

Mentre l'offensiva sferrata a sud dal generale Cunningham otteneva ottimi risultati nella parte nordoccidentale dell'Etiopia era già in corso un'altra fase della campagna, alla quale partecipava l'imperatore Haile Selassié, ed era diretta dal maggior generale William Platt, comandante del Sudan, dove il maggiore O.C. Wingate, si distinse nella condotta di operazioni belliche effettuate con truppe irregolari. Tali truppe, denominate Gideon Force, la cui composizione numerica non superò mai i 50 ufficiali e i 20 sottufficiali inglesi, gli 800 soldati di truppa sudanesi e gli 800 volontari etiopici, tennero impegnate con l'appoggio sporadico di capitribù e di bande etiopiche locali sette brigate italiane e numerose bande indigene arruolate al servizio degli italiani.

L'anno precedente il generale Wavell aveva ordinato di prendere in esame la possibilità di fomentare una ribellione etiopica contro gli italiani, nel caso l'Italia fosse entrata in guerra. Il colonnello D. A. Sandford, che in passato era vissuto in Etiopia, fu aggregato allo stato maggiore del generale Platt a Khartoum, con l'incarico di studiare il progetto. Perciò, quando l'Italia dichiarò guerra, il colonnello Sandford fu inviato in Etiopia a capo di una piccola missione militare che doveva svolgere la sua opera fra i capitribù simpatizzanti. Due settimane dopo l'entrata in guerra dell'Italia, Haile Selassié si era trasferito in volo da Londra a Khartoum e uno dei compiti essenziali affidati alla missione del colonnello Sandford era quello di predisporre una base all'interno del paese dove l'imperatore si potesse stabilire.

La missione del colonnello Sandford entrò in Etiopia dal Sudan un mese dopo lo scoppio delle ostilità e in un mese percorsero circa 300 km tra le alte montagne a sud est del lago Tana riuscendo ad assicurarsi l'amicizia di parecchie tribù. Inoltre il colonnello Sandford riferì che la presenza in Etiopia di Haile Selassié sarebbe stata di grande importanza, uno dei risultati del suo rapporto fu la decisione di formare un reparto di soldati etiopici quale esercito personale di Haile Selassié composto da unità speciali con ufficiali e sottufficiali inglesi comandato dal maggiore Wingate. Un battaglione della Defence Force sudanese aveva il compito di aprire una strada per i rifornimenti tra il confine e la sede che nel frattempo il colonnello Sandford aveva scelto come la più adatta per il comando di Haile Selassié. La località era Balaia, una fortezza montuosa naturale e isolata all'interno dell'Etiopia, a 3.131 m sul livello del mare, a 112 km dal confine e a 128 km a sud ovest del lago Tana.

All'arrivo di Haile Selassié Sandford, che nel frattempo era stato promosso generale di brigata, fu nominato suo consigliere personale. Wingate, promosso tenente colonnello, sostituì Sandford come capo della missione. Le unità sudanesi ed etiopiche entrarono a far parte della missione che Wingate chiamò col nome di Gideon Force, Gli italiani si erano ormai accorti che stavano maturando eventi nuovi e importanti, ma il loro servizio informazioni riferì semplicemente che un forte contingente di truppe inglesi era penetrato dal Sudan in Etiopia. Tribù locali, istigate e rifornite di armi da Sandford, cominciarono anch'esse a far opera di disturbo a danno degli italiani, i quali decisero di riorganizzare e raggruppare le loro forze a sud del lago Tana. Concentrarono due brigate a Bahar Dar, sul lago Tana, e due brigate a Buriè, 190 km più a sud, lasciando libera la strada che correva in mezzo al fine di non avere uno spiegamento di forze troppo esteso. Wingate arrivò con la Gideon Force sul crinale da cui si dominava la strada di Danghila un villaggio a sud del lago Tana il 19 febbraio proprio mentre gli italiani si stavano riorganizzando su quelle posizioni. Wingate divise la Gideon Force in due gruppi. Ne mandò uno a disturbare il ripiegamento italiano verso Bahar Dare con l'altro si precipitò giù per la strada di montagna verso Buriè, per impegnare una seconda brigata che si stava ritirando in quella direzione.

Durante i quindici giorni che seguirono la Gideon Force condusse contro gli italiani una serie di attacchi diurni e notturni che ebbero l'effetto di scompaginare l'avversario e di infliggergli gravi perdite. Anche la Gideon Force aveva subito forti perdite specialmente fra gli etiopi, il 14 marzo l'imperatore Haile Selassié si stabili nella nuova sede di Buriè.

Però la situazione si rifece critica quasi immediatamente, un potente capo etiopico ostile all'imperatore, Ras Hailù si era unito agli italiani a Debra Marcos con parecchie migliaia dei suoi guerrieri. Incoraggiato da questo avvenimento e dopo aver scoperto che il suo servizio informazioni lo aveva mal ragguagliato, il tenente generale di divisione Nasi, comandante italiano del settore, ordinò di riprendere Buriè e alle due brigate attestate a Bahar Dar di fare una sortita per tagliare la via della fuga all'imperatore. Il peso dei combattimenti fu sostenuto dal battaglione sudanese al comando del tenente colonnello Boustead. Lottando senza interruzioni per dieci notti di seguito, a un'altitudine per loro inusitata, i sudanesi sferrarono una serie di attacchi abilmente condotti contro gli italiani che tentavano di avanzare da Debra Marcos. Gli abissini di Ras Hailù, non abituati alle operazioni notturne e comunque totalmente digiuni di disciplina abbandonarono il campo.Il 4 aprile gli italiani sospesero i combattimenti ed evacuarono Debra Marcos. Nel settore meridionale Addis Abeba fu occupata due giorni dopo dalle truppe del generale Cunningham e Haile Selassié si trasferì a Debra Marcos.

Il generale Platt affidò immediatamente alla Gideon Force un nuovo compito. Gli inglesi sospettavano che il duca d'Aosta dirigendosi a nord di Addis Abeba avrebbe cercato di raccogliere le sue forze per opporre resistenza in qualche località fra le montagne. Perciò Wingate ricevette l'ordine d'impedire ai reparti nemici che si trovavano nella regione del lago Tana sia di aggregarsi alle truppe del viceré sia di unirsi fra loro; e la Gideon Force suddivisa in parecchi piccoli gruppi si sparpagliò per operare in un vasto raggio. La strada che dal lago Tana andava verso est per esempio fu tagliata da un gruppo; un altro gruppo insistette nelle azioni di disturbo contro i reparti italiani che si trovavano a Bahar Dar fino al punto da costringerli a ritirarsi lungo la sponda orientale del lago Tana e di qui verso nord; un altro gruppo ancora sorvegliava continuamente le forze di ras Hailù se mai questi avesse voluto cambiare ancora una volta idea mentre una quarta frazione della Gideon Force attaccò un battaglione italiano che si trovava 96 km a sud est del lago Tana costringendolo alla resa.

Una parte del presidio italiano che si era ritirato da Debra Marcos e che non poteva ripiegare a sud verso Addis Abeba poiché la capitale era già stata occupata dal generale Cunningham aveva attraversato nel frattempo le montagne dirigendosi verso est. La sua forza corrispondeva più o meno a quella di una brigata. Un piccolo reparto di sudanesi e di etiopi si lanciò all'inseguimento e seguitarono ad attaccare senza tregua i reparti in ritirata. Gli italiani riuscirono a raggiungere Addis Derrà, un villaggio fortificato di montagna 145 km a est di Debra Marcos e ad oltre 3.000 m sul livello del mare. Resistettero li sino alla metà di maggio, quando la mancanza di viveri li costrinse a riprendere la ritirata. Intanto Wingate aveva assunto il comando del piccolo reparto inseguitore ed era riuscito a ottenere l'appoggio di alcune tribù del luogo. Con il loro aiuto una parte del gruppo fu ora in grado di portarsi davanti al nemico in ritirata per bloccargli la strada. Seguirono tre giorni di combattimenti, il quarto giorno Wingate informò il comandante avversario, colonnello Maraventano, di aver ricevuto l'ordine di trasferire altrove le sue truppe sicché gli italiani, se non si fossero decisi ad arrendersi senza indugio, sarebbero rimasti alla mercé delle numerose bande etiopiche che si stavano ammassando nella zona. Si trattava soltanto di uno stratagemma, ma il colonnello Maraventano sapeva bene cosa sarebbe successo ai suoi 8.100 uomini se fossero caduti nelle mani degli etiopi. Perciò decise di arrendersi e questa fu l'ultima azione della Gideon Force che complessivamente aveva fatto 15.600 prigionieri e catturato un forte quantitativo di armi. Questa fase della campagna era durata in tutto tre mesi esatti.

L'offensiva britannica in Eritrea ebbe un obiettivo limitato come tutte le altre offensive in questo teatro di guerra. Secondo il punto di vista britannico finché Cassala rimaneva in mano degli italiani sussisteva il pericolo di un'avanzata nemica nel Sudan. Per parare l'eventuale pericolo il generale Wavell fu costretto a rafforzare le truppe del generale Platt che presidiavano questa regione di confine a tutto scapito del Medio Oriente. Le forze italiane in Eritrea al comando del generale Frusci erano cospicue ed efficienti: a Cassala e nella zona circostante nonché in certi capisaldi lungo la frontiera si trovavano 17.000 uomini ben equipaggiati con carri armati leggeri e artiglierie. Nelle retrovie il generale Frusci disponeva di tre divisioni e di tre brigate autonome e inoltre poteva ricevere rinforzi dall'Etiopia settentrionale. Gli inglesi attribuivano molta importanza alla riconquista di Cassala perché in tal modo avrebbero privato il nemico di un'eventuale linea di avanzata nel Sudan.

Ma il generale Frusci non aveva alcuna intenzione di tentare un'avanzata. Il duca d'Aosta si attendeva un'avanzata inglese in Eritrea. Così per pura coincidenza proprio quando il generale Platt stava preparando un attacco contro Cassala il viceré ordinò l'evacuazione della città e degli altri punti di frontiera per un ripiegamento su posizioni più favorevoli all'interno dell'Eritrea. L'avanzata del generale Platt su Cassala doveva incominciare il 19 gennaio, il ripiegamento italiano su posizioni situate approssimativamente lungo il limite orientale dell'obiettivo inglese ebbe inizio il 18 gennaio. La 4ª divisione indiana del maggior generale Beresford Peirse e la 5ª divisione indiana del maggior generale Heath ebbero l'ordine d'inseguire gli italiani in ritirata. Il primo contatto si ebbe a Cherù un villaggio eritreo che si trova a 96 km a est di Cassala e a 64 km dal confine dove una brigata italiana avrebbe dovuto impegnare gli inglesi con un'azione di retroguardia. Ma le truppe britanniche accerchiarono il villaggio precludendo all'avversario ogni possibilità di ripiegamento; sebbene gli italiani avessero tentato di aprirsi un varco, il comandante e circa 900 uomini furono fatti prigionieri.

A 72 km da Cherù, in direzione sud est, si trova Barentù e a 112 km ad est Agordat si trattava di due cittadine montane situate in posizioni difensive naturali e presidiate ciascuna da una divisione. L'avanzata indiana si svolse simultaneamente lungo due strade puntando su entrambe le città. Agordat la più orientale delle due fu raggiunta per prima dalla 4ª divisione indiana a nove giorni dall'inizio dell'avanzata. Dopo un vivace combattimento fra i monti che durò tre giorni e nel quale furono impiegati i carri armati da fanteria, Beresford Peirse l'accerchiò tagliando la strada che portava verso est. Tuttavia buona parte degli italiani riuscì ad aprirsi un varco in questa direzione abbandonando però sul terreno materiale bellico compresi cannoni e carri armati. A Barentù raggiunta dalla 5ª divisone indiana che era stata ripetutamente ritardata nella marcia da azioni di retroguardia gli italiani opposero una strenua difesa ma solo fino a quando appresero che Agordat era caduta e che la ritirata verso est era quindi preclusa. Durante la notte si aprirono un varco verso sud ovest fra le montagne. Le truppe britanniche inviate all'inseguimento non riuscirono a raggiungerli.

Wavell ordinò al generale Platt di spingersi verso Cheren e l'Asmara perché improvvisamente si era reso conto non senza sorpresa che sarebbe stato possibile conquistare tutta questa regione eliminando cosi anche il pericolo costituito dalla base navale di Massaua. Ma l'Asmara era lontana più di 170 km a est e Cheren che si trovava circa a metà strada era una delle posizioni difensive naturali più fortemente presidiate ed era l'unica via d'accesso al capoluogo dell'Eritrea e a Massaua. Gli ultimi 4 km della strada che porta a Cheren corrono in una gola angusta e incassata e costituiscono l'unico passaggio attraverso quella che praticamente è una parete rocciosa sovrastata da undici cime alte 600 metri e più sopra il livello della strada ciascuna delle quali era stata trasformata in una posizione difensiva dominante l'imbocco della gola. La strada che l'attraversa era stata distrutta o ostruita.

Sette di queste cime che coprono complessivamente una superficie di circa 13 km2 denominate Cameron Ridge, Sanchill, Brigs Peak, Hog's Back, Saddle, Flat Top e Samanna sorgevano sulla sinistra della gola e della strada. Le quattro rimanenti sulla destra erano: Dologorodoc (con un fortino), Falestoh, Zeban e Zalale. Un pendio tra la cima Falestoh e la Zalale che saliva verso un basso crinale formava un valico: Aqua Col.

Una divisione italiana rinforzata da tre battaglioni dell'11° reggimento granatieri di Savoia presidiava le difese mentre due brigate avanzavano a marce forzate per unirsi a quella e altre quattro rimanevano di riserva. I primi tentativi inglesi di aprirsi un passaggio furono compiuti dalla 4ª, divisione indiana. Il 3 febbraio all'alba l'11ª brigata di fanteria attaccò Sanchill, Brigs Peak e Cameron Ridge le tre cime sulla sinistra più vicine all'accesso alla gola. La battaglia con l'appoggio di un nutrito fuoco d'artiglieria da entrambe le parti infuriò quattro giorni. Gli indiani raggiunsero la sommità delle tre cime ma furono ricacciati sia da Sanchill sia da Brigs Peak dai risoluti contrattacchi degli italiani che combattevano con una tenacia raramente riscontrata loro comandante era il generale Carnimeo alle dipendenze del generale Frusci.

Il 7 febbraio la 5ª brigata di fanteria indiana sferrò un attacco notturno in direzione di Aqua Col sulla destra. L'azione di avvicinamento si compiva su un terreno molto accidentato e malgrado tutte le difficoltà e il tiro micidiale degli italiani la sommità del passo fu raggiunta ma non fu possibile tenerla per effetto dei ben diretti contrattacchi delle truppe italiane.

Il 10 febbraio Beresford Peirse sferrò un nuovo attacco sulla sinistra e sulla destra: gli obiettivi erano gli stessi degli attacchi precedenti. L'11ª brigata di fanteria indiana s'impossessò un'altra volta di Brigs Peak e ne fu ricacciata di nuovo. Un secondo attacco ebbe lo stesso esito di quello precedente. Altrettanto avveniva nella lotta per il possesso dell'Aqua Col dove buona parte della sella cadde nelle mani della 5ª brigata di fanteria indiana che in tale azione si meritò la Victoria Cross, ma fu ripresa dagli italiani nei contrattacchi.

 
 
 
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- Perchè viva il ricordo degli Ascari d'Eritrea caduti per l'Italia in terra d'Africa.
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Medaglia d'oro al Valor Militare alla Memoria.

 

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A DETTA DEGLI ASCARI....

...Dunque tu vuoi essere ascari, o figlio, ed io ti dico che tutto, per l'ascari, è lo Zabet, l'ufficiale.
Lo zabet inglese sa il coraggio e la giustizia, non disturba le donne e ti tratta come un cavallo.
Lo zabet turco sa il coraggio, non sa la giustizia, disturba le donne e ti tratta come un somaro.
Lo zabet egiziano non sa il coraggio e neppure la giustizia, disturba le donne e ti tratta come un capretto da macello.
Lo zabet italiano sa il coraggio e la giustizia, qualche volta disturba le donne e ti tratta come un uomo...."

(da Ascari K7 - Paolo Caccia Dominioni)

 
 
 
 

 
 
 
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