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Semus totus pastores

Post n°913 pubblicato il 15 Maggio 2018 da asu1000

SEMUS TOTUS PASTORES - Prima parte -

Si morit su pastore, morit sa Sardigna intrea

Premessa

Questa mia riflessione sui Pastori e sul Pastoralismo (su pastoriu) muove da un’analisi né neutra né asettica: come se volesse prendere in esame i pastori e la cultura loro connessa, disponendoli come un cadavere da sezionare sopra un freddo tavolo di marmo. Sarà, di contro, sostenuta da un sentimento di forte empatia e simpatia nei loro confronti e tenterò quindi di unire –per utilizzare un apoftegma del filosofo, fisico e matematico francese, Blaise Pascal- “Le ragioni della mente a quelle del cuore. Così da vedere le cose con un solo sguardo”.

Il Movimento dei Pastori Sardi (MPS)

Organizzati con il MPS, da anni i pastori sardi sono al centro dell’attenzione dell’opinione pubblica e del dibattito politico, costringendo amministratori e regione sarda –in genere in tutt’altre faccende affaccendati- a fare i conti con una mobilitazione e una protesta vasta e ubiquitaria. Ripresa proprio nei giornbi scorsi dopo le grandi mobilitazioni degli anni 2010-2012 con la strategia dei blocchi degli aereoporti (l’espressione è di Felice Floris, il leader del Movimento) tra cui quello di Olbia, Alghero e Portorotondo; l’occupazione di strade e porti ma soprattutto con grandi manifestazioni di piazza a Cagliari con migliaia e migliaia di partecipanti e ben decine e decine di Assemblee con pastori di tutta la Sardegna.

A ben vedere abbiamo assistito a una vera e propria rivoluzione sociologica e persino antropologica: che smentisce i luoghi comuni sui pastori individualisti, restii alla collaborazione, isolati, soli e solitari nelle loro aziende e nei loro ovili. In centinaia, i rappresentanti di Comitati presenti in tutta l’Isola, si riuniscono periodicamente per discutere, concordare e decidere, collettivamente e democraticamente, obiettivi della vertenza, forme di lotta, iniziative. In migliaia scendono in piazza, organizzati ma senza avere dietro le potenti e burocratiche Associazioni storiche del mondo agro-pastorale (Coldiretti, CIA, Confagricoltura, Copagri). Coinvolgendo le proprie famiglie e i sindaci delle loro comunità, per intanto. E poi studenti e lavoratori di altri comparti: tanto che possiamo considerare la lotta dei pastori una vera e propria lotta di popolo e, dunque, non di una sola categoria. Questo, non a caso.

Pastori, civiltà e cultura sarda

Il pastore infatti non è solo una delle una delle tante figure sociali e la pastorizia non è solo un comparto economico: le sue produzioni certo costituiscono ancora il nucleo fondamentale del nostro prodotto interno lordo, ma il mondo pastorale in Sardegna ha prodotto ben altro che latte, formaggi, carne e lana: ha dato luogo al pastoralismo e ai codici e valori che esso sottende e che in buona sostanza costituiscono il nerbo della civiltà e dell’intera cultura sarda.

Per intanto però occorre sottolineare che la pastorizia, come comparto economico, nonostante crisi e difficoltà, nella storia ha sempre retto e i pastori, ancora oggi, non sono una sorta di tribù sopravvissuta alla storia (Ignazio Delogu). Nonostante i reiterati tentativi storici di interrarli, liquidandoli insieme alla loro cultura etnica resistenziale.

Dalla legge delle Chiudende all’industria di Ottana

Uno dei tentativi più brutali fu rappresentato dagli Editti delle Chiudende che –scrive il compianto Eliseo Spiga in La Sardità come utopia-Note di un cospiratore- – irruppero sulle comunità, implacabili come un castigo di dio. In un ciclonico turbinio di inaudite illegalità, sopraffazioni e violenze, di persecuzioni,assassini, carcerazioni e torture…furono chiusi migliaia di ettari dei migliori terreni privati e comunali, pascoli e seminativi, case, ovili e orti familiari, strade e ponti, abbeveratoi e fonti pubbliche.

I più danneggiati furono i pastori, abituati a pascolare le greggi in vasti spazi aperti e comuni ed ora costretti a pagare il fitto –spesso esosissimo- ai nuovi proprietari usurpatori: pastori che furono rovinosamente battuti e vinti. Ma non convinti, aggiungerebbe il nostro più grande poeta etnico, Cicitu Masala.

Un altro momento e snodo storico di attacco violento soprattutto alle condizioni di vita e di lavoro dei pastori fu rappresentato dalla guerra doganale dello Stato italiano con la Francia, culminata con la rottura dei Trattati doganali nel 1887. L’economia sarda fu colpita a morte. Fino a quel momento la spedizione verso i mercati francesi di alcuni fondamentali prodotti dell’economia sarda aveva, se non scongiurato, almeno contribuito ad allontanare la crisi che gli spiriti più consapevoli paventavano. Dopo i fatti del 1887 l’agro-pastorizia dell’Isola, privata d’un colpo dei suoi mercati tradizionali, precipitò al fondo di un baratro senza precedenti, costringendo i pastori a dipendere ancor di più dai proprietari dei pascoli, i printzipales, e dagli industriali caseari continentali ma soprattutto romani . Che Antonio Simon Mossa, il grande teorico dell’indipendentismo e del federalismo sardo chiama feudatari del latte, che si comportano da veri e propri strozzini, imponendo solo loro il prezzo. Tanto che uno degli obiettivi del neonato Partito sardo d’azione nel 1921 sarà proprio la battaglia contro sos meres continentales de su latte e la creazione di cooperative di pastori, per gestire loro, in prima persona, il prodotto del proprio lavoro.

Fallimento dell’industrializzazione

L’ultimo tentativo –che avrebbe dovuto essere anche quello decisivo per assestare il colpo definitivo e mortale all’esistenza stessa dei pastori -risale alla fine degli anni ’60 quando, soprattutto con l’industrializzazione di Ottana, con il pretesto della lotta al banditismo, si portarono le industrie a bocca di bandito (Antonello Satta): con esse si voleva trasformare la Sardegna in tanti Sesto San Giovanni, con il pastore che, liberato finalmente di gambali, mastruche e bertulas, avrebbe vestito la tuta dell’operaio. In realtà “lo scopo del Kolossal mistificatorio –scrive ancora Eliseo Spiga, nel saggio già citato, con la solita e affilata prosa – era di concorrere ad assestare un colpo definitivo alla cultura sarda e a quella barbaricina in particolare. Doveva concorrere a realizzare l’obiettivo finale dell’intervento economico dello Stato che, secondo il Ministro Taviani, in visita a Ottana, era quello di «eliminare quell’assetto tradizionale che si è consolidato con gli attuali rapporti di produzione al fine di distruggere definitivamente il malessere proprio della società e dell’etica pastorali, quel malessere cioè sul quale allignano i ben noti fenomeni criminali delle zone interne della Sardegna»”.

Conosciamo tutti com’è andata a finire. La cosiddetta Rinascita, tutta giocata sulle illusioni programmatorie e sull’industrializzazione –segnatamente quella petrolchimica- tradendo le aspirazioni e le speranze del popolo sardo, non solo si è evaporata, ma si è rovesciata nella realtà del sottosviluppo, della dipendenza e nella involuzione ai limiti della tolleranza. Sotto accusa deve essere messo soprattutto quel modello di sviluppo incentrato essenzialmente nella grande industria di stato e privata, specie –ripeto- quella petrolchimica, che ha devastato e depauperato il territorio: la nostra risorsa più pregiata; ha degradato e inquinato l’ambiente e il mare, con danni incalcolabili per il turismo e per la pesca; ha sconvolto gli equilibri e le vocazioni naturali; ha distrutto il tessuto economico tradizionale e quel minimo di industria e di imprenditorialità locale, attentando all’identità nazionale dei Sardi, con l’eliminazione delle specificità etno-linguistico-culturali. Senza peraltro creare occupazione e benessere. E ciò soprattutto perché si trattava di industrie ad alta intensità di capitale, a poca intensità di mano d’opera, senza stimoli per il mercato interno, senza creazione di indotto, proprio perché senza alcun rapporto e collegamento con il territorio e le risorse locali, Che dunque non crea sviluppo endogeno e autocentrato. Una industria che prevedeva solo le prime lavorazioni o comunque fasi limitate del ciclo produttivo. E dunque pochi profitti: che invece si produrranno e s’involeranno al Nord, dove avverranno le seconde e terze lavorazioni e, in specie, la chimica fine e farmaceutica. Così oggi, Stato e privati, ci lasciano un cimitero di ruderi, cassintegrati e disoccupati.

S’eredidade de Ottana

Ma anche una devastazione ambientale e persino antropologica: il pastore diventato operaio prima e cassintegrato dopo, con il licenziamento è furriadu a remitanu. Di qui il rimpianto per la sua vecchia vita, che lo tormenta e lo uccide, perché non è più nemmeno un’ervegarzu, anzi è costretto a bandidare. Leva quindi una maledizione contro i responsabili di tale sciagura: Siazis pro sa vida malaittos!

A “cantare” magistralmente la tragedia del pastore diventato operaio a Ottana, è Pinuccio Canu, brillante poeta in limba, di Buddusò, che ha al suo attivo due belle sillogi poetiche: Sa Rujada (2001) e Contos chena tempus (2002) editi da Domus de Janas. Ecco le sue quartine:

Bos fattat bonu proe, malaittos/ ca m’azis furriadu a remitanu./No fiant, tzertu, custos sos apittos/ da chi lassei tazos e cabbanu!/

Che istoccada torrat galu in mente/ su tempus ch’in su sartu fia mere./Tenia su rispettu de sa zente/ comente chi zuìghe innoghe essere./

No fiat nudda fatzile sa vida,/a gherra cun fiòcca e tempus malu!/ S’ammentu de proéndas e de sida,/ su tuddu mi nde ponet fintzas galu./

Pariant accabbados sos fastizos/a da chi che notzente nadu m’ana:/- Bogalie cabu a dudas e prammizos!/ Su monte lassa e beninde a Ottana!/

Move e non t’istes cue a bertulariu!/ Imbòlanche bonette cun cambales!/ Accudit cada mese su salariu/e pones fine a rajos e a males./

Lassei su cuìle e sos armentos/a ficcas fattas chena rimpiantu./Nd’aìa bidu a bunda de trummentos/ pro perder cussu “postu” de ispantu.

De esser gai bellu non creìa!/ A bidda recuia cada die./Non prus astràu, lampos o traschìa,/ e mancu isporamentos pro su nie./

Ponìa in su traballu med’afficcu /pro cant’in cussu logu fiagosu./Fattende non mi fia tzertu riccu/ ma siguresa aìa e meda gosu./

Ma pagu tempus sendenche coladu/ su fumuderra torrat a cadone./Su sambene in su corpus s’est gheladu/ ca postu m’ant in “cass’integrascione”./

Degh’annos m’ant lassadu pende pende/ e pustis imboladu a muntonarzu./Su rimpiantu como m’est bocchende/ca non so prus nemmancu un’ervegarzu./

A custu monte cada die pigo/cun coro che tittones in brajeris./ Sos pessamentos meos curro e sigo/ cun ranchidos ammentos de su deris./

Siazis pro sa vida malaittos/ca como so custrintu a bandidare./ Cun su fusile a pala e cannaittos/ mi toccat un’istranzu de tentare.

La “resistenza” del pastore

Pur con crisi e difficoltà immani, la pastorizia è stata storicamente l’unico comparto economico che ha sempre retto: anche a fronte degli Editti delle Chiudende, della la rottura dei Trattati doganali con la Francia con Crispi, della rovinosa e fallimentare industrializzazione, dello strozzinaggio delle banche, della lingua blu. Ha retto perché si tratta dell’unica industria, endogena e autocentrata, che verticalizza la materia prima -il latte soprattutto- e crea un indotto che nessuna altra industria nell’Isola ha mai creato. L’unica “industria” legata al territorio e ai saperi tradizionali, diffusa ubiquitariamente, al contrario dell’industria per “poli”. Che presiede, salvaguardia e difende l’ambiente, che è in forte simbiosi con la storia, la tradizione, la civiltà, la cultura e la lingua sarda.

La crisi odierna

Oggi corre un serio pericolo: se non di scomparsa, certo di drastico ridimensionamento che potrebbe ridurla ad attività marginale, sia dal punto di vista economico che occupazionale. C’è infatti da chiedersi quante delle 18.000 aziende pastorali oggi presenti in Sardegna potranno ancora “resistere” a fronte della gravissima crisi che attanaglia il comparto. Quanti occupati potranno ancora sopravvivere producendo “in perdita”. Una pluralità di motivi convergono infatti ad acuire la crisi: primo fra tutti il prezzo del latte pagato 60 centesimi al litro. Una infamia. Se solo pensiamo che i costi per produrlo assommano almeno a 80 centesimi. Che 20-25 anni fa veniva pagato 1000 lire: come oggi! A fronte dei mangimi che nel frattempo sono quadruplicati, insieme all’energia e al gasolio: di cui i pastori non possono più fare a meno. Il prezzo del latte –pur se fondamentale- è solo uno degli elementi della vertenza: dalla piattaforma del MPS emergono tutta una serie di richieste e di obiettivi finalizzati all’uscita dalla crisi. Di questi voglio sottolinearne uno: il contributo de Minimis di 15.000 euro per ogni azienda. Da parte di molti è stato obiettato che si trattava di puro assistenzialismo. Ecco la risposta del leader del Movimento Felice Floris a un giornalista che lo intervistava:”Mi spiega perché quando si dà una mano ai pastori e agli agricoltori si chiama assistenzialismo, quando invece si tratta dell’industria si chiama aiuto alla produzione?”. Difficile dargli torto: non è forse “assistenzialismo” infatti la rottamazione delle auto e dei motorini? Gli incentivi per elettrodomestici e computer? Il piano casa? La stessa cassa integrazione?

E che dire del miliardo e 6oo milioni di euro per pagare, da parte dello Stato, le multe per le quote latte inflitte ai produttori “padani”?

Rispetto alla Piattaforma del MPS -che voglio riportare integralmente – mi piace sottolineare il punto 2, sulla necessità di trovare mercati italiani ed esteri per il latte, per sfuggire allo strozzinaggio dei cartelli degli industriali e spuntare così prezzi più alti. A questo proposito condivido quanto sostenuto dal Presidente della Provincia di Cagliari, Graziano Milia, che ha scritto: “Occorre istituire un «Centro di raccolta del latte» con l’obiettivo immediato (basterebbe sottrarre all’attuale contrattazione il 10% del prodotto) di un notevole aumento del potere contrattuale dei pastori perché il prezzo sarebbe negoziato e quindi tutelato maggiormente, grazie a una sorta di supervisione pubblica” (L’Unità, 5 Novembre, 2010).

Rispetto alla piattaforma inoltre, se dovessi fare qualche appunto, osserverei che

non sottolinei adeguatamente la necessità di diversificare la produzione dei formaggi, anche per superare la sostanziale monocultura del pecorino romano, in cui l’industria è incastrata.

Verso la pastorizia “industrializzata”?

Ma il limite maggiore della Piattaforma –che pure risulta per molti versi, avveduta e articolata- a me pare essere un altro: non porsi neppure il problema della qualità della pastorizia e della produzione pastorale. A questo proposito, prenderei in seria considerazione alcune osservazioni fatte da Gavino Ledda (Intervista a La Nuova Sardegna, 29-10-2010): “La crisi si può sconfiggere solo con roba sana, senza i concimi e l’industria che hanno rovinato le campagne…Pastorizia e agricoltura sono state adulterate dai veleni… E così hanno lentamente distrutto Omero, i fiori, gli aromi, i sapori, tutto ciò che di buono c’è in natura. Neppure l’acqua è più santa…Le produzioni industriali non hanno senso, la pastorizia deve tornare a essere biologica, affidata con un’economia familiare a membri di uno stesso gruppo che a rotazione si occupino del foraggio, del pascolo, della caseificazione…”

Solo provocazioni o fantasie neoromantiche? No. Ledda ha messo il dito sulla piaga: vanno bene le proteste e le sacrosante rivendicazioni dei pastori, ma il futuro della pastorizia sarda, sarà in ogni caso nella produzione di “formaggi e latte dolci, puri, incontaminati”. Senza la nostra tipicità e tradizione di genuinità, unicità e “naturalità” a vincere sarà comunque la “moneta cattiva”: il latte dei concimi e dei mangimi,(acqua concimata, lo chiama Gavino Ledda) che scaccerà “la moneta buona”: il latte degli aromi e dei profumi della natura sarda.

Piattaforma del MPS

1)Ripristino immediato, per un periodo limitato di pochi anni, del meccanismo delle restituzioni comunitarie destinate al mercato Americano e Canadese, unico strumento possibile per svuotare i magazzini della nostra industria casearia senza creare buchi di bilancio. Se ciò non bastasse lo stato invece di dare i soldi ai paesi poveri (soldi che finiscono sempre nelle tasche dei loro affamatori) distribuisca alle popolazioni povere formaggi.

2)Progettare e costruire nel territorio regionale 5/6 centri di stoccaggio con possibilità di bonifica e refrigerazione del latte come unico strumento di forza per dare ai Pastori la possibilità di offrire all’occorrenza il latte nell’intero mercato Europeo, liberandoli così dal monopolio dei trasformatori locali che da sempre impongono le loro condizioni a prezzi da fame per i Pastori.

3)Abbattere i costi di trasporto applicando la continuità territoriale già riconosciuta dall’Unione Europa.

4)Impedire alla trasformazione privata o cooperativa di vendere il latte anziché trasformarlo.

5)Rimodulazione del P.S.R. (piano di sviluppo rurale) spostando le risorse dall’asse 1 all’asse 2 cioè dagli investimenti produttivi agli interventi delle misure Agro-Ambientali (indennità compensativa), questo per impedire che soldi destinati ai Pastori finiscano nelle tasche di venditori e progettisti.

6)Attuazione della norma “De Minimis” strumento finanziario previsto per erogare importi senza la necessità di notificare il provvedimento presso l’Unione Europea, portandola dagli attuali settemila a quindicimila come per il settore vaccino.

7)Inserimento dei comuni cosiddetti avvantaggiati nell’elenco dei comuni svantaggiati, per dare a questi la possibilità di beneficiare dei provvedimenti su menzionati.

8)Dare la possibilità alle aree irrigue di utilizzare l’acqua a costo zero per la coltivazione di foraggere per uso zootecnico (medicai etc.) condizione indispensabile per ridurre i costi di alimentazione del nostro bestiame.

9)Realizzare piccoli mattatoi comunali e zonali per valorizzare le nostre carni e togliere il monopolio a pochi commercianti che hanno azzerato il valore nelle nostre carni.

10)Utilizzare le energie rinnovabili non per costruire serre ma per dare energia a tutte le aziende Agro-Pastorali. Per fare questo è necessario che la Regione costituisca una società ad hoc con il compito di elettrificare tutte le aziende sarde. Se non si fa questo solo pochi potranno beneficiare di questa moderna tecnologia.

11)Moratoria per almeno due annualità dei contributi previdenziali come chiesto e ottenuto in Francia.

12)Ristrutturazione dei debiti scaduti e in scadenza di Agricoltori e Pastori e delle loro strutture di trasformazione in un lungo periodo 20/30 anni, dando così una possibilità concreta alle aziende in difficoltà di rimettersi alla pari con le altre imprese.

Pastorizia e Pastoralismo

Se muore il pastore e la pastorizia non muore solo una delle tante figure sociali o un comparto economico ma la Sardegna intera: il suo etnos, il suo universo culturale, artistico e rituale. Ad iniziare dall’immaginario simbolico rappresentato –fra l’altro- dalle maschere di carnevale; dall’immaginario musicale rappresentato soprattutto dal Canto a tenore, riconosciuto dall’Unesco, nel 2004, come patrimonio immateriale dell’Umanità: è il secondo riconoscimento alla Sardegna da parte dell’Unesco dopo il Nuraghe di Barumini; dallo stesso immaginario sportivo (con s’Istrumpa) e ludico (con la morra).

Ma c’è altro ancora: sottesi al pastoralismo vi sono codici e valori che storicamente hanno segnato e impregnato la civiltà sarda: il comunitarismo, i codici etici improntati sulla solidarietà e sul dono, i valori dell’individuo incentrati sulla valentia personale come coraggio e fedeltà alla parola e come via alla felicità, l’onore e tutti gli altri componenti della cultura pastorale. ”Un patrimonio secolare –scrive Bachisio Bandinu- che dall’età dei nuraghi, ha prodotto una cultura, un simbolo, una scuola di vita, un modo di essere, praticamente scomparso in Europa, che perdura ancora oggi, in Sardegna, pur nella sua forma attuale di civiltà: produzione economica, organizzazione sociale, coscienza culturale. Non come semplice revival etnologico-folklorico, come museo di tradizioni popolari, operazione di nostalgia o folklorizzazione turistica ma, pur attingendo a lingua e linguaggi, atteggiamenti e comportamenti, interessi e valori, riti e simboli del passato, pone la questione di un rapporto positivo tra locale e globale e si interroga se questa civiltà secolare sia capace di inserirsi nel processo di mondializzazione, elaborando alcuni caratteri distintivi della propria cultura per adattarsi alla nuove esigenze della contemporaneità”.

Sempre Bandinu, prosegue: ” L’oggetto-natura diventa segno-cultura, in esso c’è scritta la storia di greggi, di ovili, un mondo di sacrifici e di poesia. Il pastoralismo in Sardegna passando attraverso gli studi sulle maschere, il canto a tenore e il ballo costituisce un’ossatura dell’economia e un universo rituale. E soprattutto un modo di parlare, di organizzare il discorso nell’uso di tempi e modi verbali, segni molto profondi quando si parla di una cultura”.

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Questo blog, bilingue ( in Sardo e in Italiano) a disposizione, in modo particolare, di tutti i Sardi - residenti o comunque nati in Sardegna - pubblicherà soprattutto articoli, interventi, saggi sui problemi dell'Identità, ad iniziare da quelli riguardanti la Lingua, la Storia, la Cultura sarda.

Ecco il primo saggio sull'Identità, pubblicato recentemente (in Sardegna, university press, antropologia, Editore CUEC/ISRE, Cagliari 2007) e su Lingua e cultura sarda nella storia e oggi (pubblicato nel volume Pro un'iscola prus sarda, Ed. CUEC, Cagliari 2004). Seguirà la versione in Italiano della Monografia su Gramsci (di prossima pubblicazione) mentre quella in lingua sarda è stata pubblicata dall'Alfa editrice di Quartu nel 2006 (a firma mia e di Matteo Porru).

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