Creato da fattodiniente il 01/06/2007

Gloriosa spazzatura

31 canzoni più qualcuna

 

 

The Waterboys, "Too Close To Heaven"

Post n°48 pubblicato il 23 Marzo 2009 da fattodiniente

 

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La luce che arde col doppio di splendore brucia per metà tempo, come disse quell’altro. Ecco, i Waterboys hanno bruciato la loro candela da due parti. Una montagna di musica (“Big Music”, nella loro definizione), suonata e buttata là, sprecata, e pubblicata poi completamente a varie dosi solo molto più tardi, a tempo massimo ormai scaduto.
È anche per questo che li adoro. Per quel che cantano (e come lo cantano), e per la loro storia, fatta di entusiasmo bruciante, di un suonare furibondo, inarrestabile e incurante di opportunità, calcoli, convenienze.
Che devo dire? Riconosco quell’atteggiamento, si chiama passione. Una cosa che ti porta talvolta Too Close To Heaven, appunto, in altitudini dove ti bruci le ali. Posti in cui non bisognerebbe andare, poche storie, o almeno andarci il meno possibile e per lo stretto necessario. Loro, l’hanno imparato troppo tardi – ammesso che della cosa gli fregasse, del che dubito.
In effetti, la quasi totalità dei grandi musicisti che allietano e colorano la nostra esistenza, i loro bei calcoli li han saputo fare, e bene: non sarebbero diventati grandi musicisti altrimenti. Hanno saputo gestirsi bene se non addirittura benissimo, ecco; han saputo vendersi, e magari è anche questo che li rende così inarrivabili. Non è da tutti. Occorre saper piacere, questo è il fatto: a giuste dosi, e nel giusto modo; magari, senza dar mostra di far tanti calcoli.
Oppure, fai come i Waterboys. Nei loro verdi anni son convinto se la siano goduta – a sentirli, almeno, l’impressione è questa: seguivano l’istinto, suonando la passione che vivevano. Solo che poi – e questo è sicuro – han capito d’essersi bruciati le ali. Troppo poco inclini alle logiche commerciali: tutta quella musica, troppa musica; troppa passione, gente poco affidabile che non sai mai dove ti puoi ritrovare a stargli dietro. Belli, splendidi, nessun dubbio, persino fantastici. Dentro ci trovavi di tutto: divertimento, fantasia, grinta, cultura, emozioni, sogni, e tutto quanto d’altro potevi desiderare. Ma… ma del troppo è meglio diffidare. Tanto, prima o poi, la carica si esaurisce.

E tutto quel che resta, è malinconia, rimpianto per ciò che avrebbe potuto – dovuto? chissà – essere, e non è stato. Lacrime nella pioggia.
Nel caso dei Waterboys, almeno resta la musica. Ed è quello che resta anche a me, e tutto sommato va bene così.

 

 
 
 

John Martyn, "Solid Air"

Post n°47 pubblicato il 19 Marzo 2009 da fattodiniente

 

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Tornando al discorso, c’è una certa differenza tra un disco per i momenti di tristezza e un disco deprimente. Quantunque la prima categoria difficilmente possa includere La febbre del sabato sera, un disco per i momenti di tristezza immagino non potrà essere qualcosa di caciarone e bordelloso, ma non per questo dev’essere un disco deprimente. Poi, per carità, tutto può essere: ma se qualcuno include Disco Inferno nella sua lista di Dischi Per I Momenti Di Depressione, per me ha più problemi di quanto egli stesso non sia disposto ad ammettere. E se invece vi include un disco deprimente – che ne so, Faith dei Cure – allora è uno stupido, perché crearsi più problemi di quanti già non se ne abbiano, non è propriamente segno di intelligenza. E va bene la teoria del cancello, per cui il dolore viene eliminato da un dolore più grande, ma la somma algebrica dell’operazione giurerei dia qualcosa al di sotto dello zero. Insomma, è come se qualcuno ti chiedesse la morte di cui vuoi morire: e che domanda è? Io voglio vivere!

Ammetto però benissimo che ciascuno curi i suoi privati dolori con la colonna sonora che più gli aggrada; tutto sommato i concetti di “deprimente” o “triste” sono sfuggevoli alquanto, e di sicuro son personali e parecchio.
E poi ci sono dolori e dolori, quantunque, come dicevo, la maggior parte delle pene siano di natura amorosa, o in qualunque modo ad essa riconducibili, e la restante minor parte, di natura non meglio definita e generalmente esistenziale. Ma credo che perdere un congiunto sia un dolore in assoluto non commensurabile ad una sofferenza amorosa, ad esempio; però non si può mai dire. Per certo, dolori di tal natura non c’è disco che li curi, per cui conviene lasciar perdere ogni riflessione che li abbia ad oggetto, se non altro per rispetto.
Bisognerebbe comunque classificare i dolori per tipologia (metodo analitico) o per intensità (metodo fenomenologico); ad esempio una ipotetica scala di sofferenze potrebbe essere, a crescere: 1. malumore, 2. disagio esistenziale, 3. malinconia, 4. struggimento, 5. tubo del gas. L’esperienza mi insegna che superato il livello 3., di ascoltar musica non ti frega una pippa, e questo complica non poco le riflessioni sul tema, perché se il tutto si risolve nel cercar musica per i momenti malinconici o giù di lì, il tutto medesimo è ben poca cosa, se ne vorrà convenire.

Quanto al resto, la musica ha indubbiamente un qualche suo potere lenitivo: persino lo stare ad un concerto di Ligabue ce l’ha; a patto che a fianco tu abbia una bella mora, questo va aggiunto, sennò tre quarti dell’effetto vanno a Patrasso. In mancanza di questo, non resta che chiedere al vate, Rob Fleming: “ok ragazzi, i cinque dischi migliori per i momenti di depressione”. E lui la lista te la sciorina subito. Come faccia non so, ma è un vate per qualcosa dopotutto.
Il fatto è che trovare canzoni per i momenti di depressione non è poi difficile, ma un disco – un disco intero – è tutta un’altra faccenda.
Come dicevo, per quasi unanime consenso, la classifica all-time è vinta a mani basse da Pink Moon di Nick Drake, e per l’appunto non saprei dire perché. Ma se così dev’essere, così sia. Personalmente metterei più su in classifica Solid Air di John Martyn; ma siccome è un omaggio alla memoria di Nick, fatto appena dopo la sua morte, mi sa che siamo lì.
Io però mica ascolto Solid Air con intento terapeutico di nessuna specie, e anche questo ribadisce quanto già dicevo a proposito di Bryter Layter.

Col che, questo post pare perdere ogni suo possibile perché; o almeno, ogni sua possibile conclusione logica. Non è che lo perde: non ce l’ha, semplicemente.
Si vede e si legge, e si incontra molto dolore, in giro; davvero tanto. E basta andar a vedere da vicino, e toccare con mano, per rendersi conto che non di pose si tratta, e il dolore è sempre dolore autentico, sulla pelle viva. E va rispettato.
Ho imparato che osservare - beninteso col massimo rispetto e con lo sguardo sinceramente partecipe, ma senza aver la pretesa di poter lenire alcunché - è la cosa migliore che si possa fare. E avendo io molto sofferto, so che non c’è parola o altro che possa essere realmente d’aiuto.
Va detto anche che nessuno mi ha chiesto altro che essere me stesso, anche solo per quel che appariva essere. Ed è quel che faccio: fin che mi viene chiesto, e nella serena consapevolezza che le persone bisogna lasciarle andare quando veramente vogliono andare. Con rispetto, e senza accampare diritti che non si hanno. Non li si hanno, semplice. Di nessuna specie, per nessuna cosa che si sia fatta o detta. Ciò che si è, che si sa essere, e come lo si sa essere, è ciò che deve bastarci. Né si deve aspettarsi dalle persone altro che ciò che vogliono darci; che poi è quasi sempre anche ciò che possono darci. E queste, nella mia opinione e nella mia esperienza, sono anche buone terapie di prevenzione personale.

Se poi vogliamo usare Solid Air come colonna sonora di tutto ciò, a me va bene. Ma non ho canzoni, né altro da suggerire. Sono fatto di niente, non dimentichiamolo.

 

 
 
 

Nick Drake, "Northern Sky"

Post n°46 pubblicato il 14 Marzo 2009 da fattodiniente

 

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Cello Song

Non ho sinceramente mai capito perché Nick Drake sia universalmente riconosciuto quale poeta della tristezza e della solitudine. Oddio, se tutti sembrano pensarla così, un motivo ci sarà; e non posso certo negare che le sue musiche e i suoi testi siano pervasi da una vena di malinconia, di dolce abbandono, ma di quanti altri artisti si può dire altrettanto? Dopotutto, come dice Nick Hornby, la quasi totalità delle canzoni parla di cuori infranti, e non è che esse costituiscano, e abbiano costituito, la migliore delle educazioni sentimentali possibile. (En passant, si potrebbe poi chiedere dove siano, cosa cantino e cosa ascoltino tutti coloro che questi cuori hanno spezzato: dove siete, stronzi? Forse è la parte di umanità che non ascolta canzoni – ipotesi suggestiva ma di cui dubito fortemente).

Tornando a Nick Drake, non è in ogni caso il mio autore per i momenti di solitudine e tristezza. Gli farei torto, e credo che – ovunque egli si trovi in questo momento – me ne sarebbe grato. Forse si tende un po’ troppo a confondere la sua opera con la sua vita, e questo è di sicuro fargli un torto.

Che poi, stringi stringi, tutte le malinconie, le solitudini, le tristezze, si riferiscono (ovviamente) al mondo dei sentimenti, e quindi dell’Amore (in qualunque declinazione possibile). Amore che non c’è. Perché non c’è più, perché non c’è mai stato, perché non è mai stato all’altezza di quello che dovrebbe essere. E allora, vai di Nick Drake. Che da parte sua canta un mondo apparentemente sottile, etereo, sfuggente forse; un mondo forse anche dolce, ma non necessariamente incantato: anzi, un mondo piuttosto disincantato eccome. Un mondo in realtà spesso duro, pieno di delusioni, rimpianti, rabbie persino.
Ma non per questo, Nick Drake dev’essere il cantore dei cuori solitari e afflitti. Per quanto sta a me, trovo che i suoi dischi (tre, stupendi, più uno di materiale vario e assortito) siano momenti di riflessione buoni per tutti i momenti (che non vuol dire per ogni momento, ma è un discorso diverso).
Poi, va bene, concedo (sono un tipo conciliante e magnanimo) che possa andar bene anche nei momenti più bui, e quelli seguenti alle delusioni amorose sono in generale tra i più bui di tutti.
Dopotutto, per i cuori infranti non ci sono molte consolazioni e rimedi possibili, e i pochi che ci sono hanno la peculiarità di non servire a niente. Questo non è giusto. Non dovrebbe esser permesso a qualcuno di far soffrire qualcun altro per amore suo.
Gli innamorati delusi dovrebbero poter ricorrere al TAR.

 

 
 
 

Abba, "Mamma Mia"

Post n°45 pubblicato il 28 Dicembre 2008 da fattodiniente


(ascolta… e guarda)
(guarda)

Dici “ho acquistato i dischi degli Abba”, e ti guardano con un sorrisetto di comprensivo compatimento. Beh, posso capirlo. L’avessi detto venti o trenta anni fa, sarei stato il primo a non crederci. Non che siano grandi album, questo non lo discuto, ma tra le loro pieghe cose interessanti ce ne sono, belle canzonette a parte: temi popolari (banalizzati), come faceva Mike Oldfield, che infatti negli anni ’80 li ha copiati a piene mani; e poi silly songs in stile techno, come han poi fatto i B-52’s, con altro spessore certo, ma insomma.

Questo però non frega a nessuno, e tutto sommato non frega niente neanche a me, perché gli Abba non sono questo. Per quanto mi riguarda infatti gli Abba sono stati essenzialmente tre cose, in ordine di tempo:


1 (quando ero ragazzino): le gambe delle due ragazze; specialmente quelle di Agnetha, la bionda. Poi con l’età ho imparato ad apprezzare di più Frida, la mora. In ogni caso, due rimarchevoli fanciulle, niente da dire; il fatto che incidentalmente fossero sposate con gli altri due fresconi del gruppo era un motivo in più per sperarci (e in ogni caso sono tornato a preferire la bionda: sic transit gloria mundi);


2 (dai 16 anni in su): il peggio della musica pop;


3 (in età recente): il divertimento di canzoncine travolgenti, come Waterloo, Fernando, Mamma Mia, Gimme Gimme Gimme, SOS, e via discorrendo.


In realtà, la mia (ri)conversione agli Abba ha una data e un riferimento molto precisi: 1995, Priscilla, la regina del deserto. Non si finisce mai di imparare: quella volta capii come un gruppo pop di massimo successo mondiale potesse diventare con le sue stupide canzoncine una icona e una molla di tolleranza e libertà; non a caso, sono la regolare colonna sonora di ogni gay pride. E ovviamente, una bella occasione di autoironia, tanto più profonda e liberatoria, quanto più allegra e caciarona. Altro che disimpegno. E imparai a rispettarli.
Certo, ricordo che quando vidi per la prima volta
Il Signore degli Anelli, vedendo Hugo Weaving tutto serio e compreso nei panni di Elrond, scoppiai in una risata immaginando la faccia dei popoli della Terra di Mezzo se di punto in bianco avesse tirato fuori quelli ben più vistosi e kitsch di Tick, che senz’altro teneva a portata di mano in qualche angolo…
Per cui, se qualcuno ride perché ascolto gli Abba (son nove album, eh, mica bruscolini…), lo lascio ridere. Anzi rido anch’io, tanto per non lasciarlo solo, e perché con gli Abba
è così che si fa. E neanche sto a spiegare cosa si perde: dal suo punto di vista probabilmente niente, ma di sicuro è uno che
Priscilla non l’ha visto, e certe cose allora fa fatica a capirle…

 
 
 

C.S.N.&Y., "Chicago"

Post n°44 pubblicato il 05 Novembre 2008 da fattodiniente



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Ok, mi sono commosso, lo ammetto. Alle 6 di mattina, dopo una notte di attesa, vedere quella famiglia di neri sul palco di fronte ad una folla in tripudio (e ad una miliardata di persone davanti alla tv), mi ha commosso. Certe volte, le cose anche le cose più annunciate riescono a sorprenderti, pure se hai passato la sera (cioè, la notte) a ripeterti come un mantra “va bene, è una competizione politica: contano le idee, e conta la realtà…”
E invece no. Certe immagini hanno una forza dirompente che non c’è discorso che la spieghi, né tantomeno che sappia scaturirla. E non avrei mai pensato di vederle, questo è un fatto: me l’avessero detto anche solo sei mesi fa, non ci avrei creduto. Semplice. Non avrei mai creduto di vedere una folla di gente del terzo mondo sfilare danzando e manifestando una gioia bellissima e naif dietro ad una bandiera americana; a raccontarlo non ci si crede, e magari staremo a cercarne tutti i perché e i distinguo.
E poi, Chicago, il Grant Park: Martin Luther King, e la Convention Democratica del ’68 – il sindaco Daley e tutto il resto. Tout se tien, peut être, compresa la simbologia delle date – 45 e poi 40 anni fa. E fu all’incirca in quell’epoca che presi coscienza per la prima volta della questione razziale; non avevo neanche dieci anni, ma l’assassinio del reverendo King toccò eccome anche noi bambini, che andavamo al doposcuola delle suore. E subito l’ondata della canzoni e dei dischi che hanno raccontato in questi quattro decenni il problema: Think di Aretha Franklin (scritta subito dopo l’omicidio), Graceland di Paul Simon, il Martin Luther King’s Dream degli Strawbs, e poi Bruce Springsteen, Pride degli U2, e Ohio di Neil Young, e Chicago, appunto, di Graham Nash; e innumerevoli altre cose. Musica che raccontava un mondo migliore possibile; ma chissà quando, e chissà dove. E invece… Invece la cosa più improbabile, il plot da commedia amara e grottesca, magari dall’happy ending beffardo, che diventa realtà: eccola lì, non ci credi? Guardala in tv!
E dopo averla vista in tv, alle sei e mezza di mattina, Chicago ha iniziato a girare sul piatto, per dire che sì, poteva, e ha potuto. Da non crederci.
Io non so se sarà un presidente all’altezza delle aspettative, o semplicemente all’altezza della situazione: non m’interessa e non me ne curo, e dopotutto da questo punto di vista abbiamo visto tante di quelle cose incredibili nell’altro senso, che peggio non potrà mai essere, neanche lontanamente. Ma il fatto è che, semplicemente, il punto non è questo. Il punto è che è successo, è successo davvero. E quarant’anni di incertezze, o di amare certezze al contrario, di disincanto, di senso della realtà, assumono un altro senso, ed è un senso persino inquietante, di vago rimprovero per non averci creduto davvero – a questa e a chissà quante altre cose.
Strano anno, questo 2008, in cui succedono cose che speri giorno per giorno con la quasi certezza che non accadranno mai: i Celtics che rivincono l’anello dopo oltre vent’anni, l’Inter che vince tre scudetti di fila, Tremonti che dice che il futuro sta nel ritorno del mercato all’etica (eh sì, Herr Heidegger, il sole forse è tramontato sulle certezze metafisiche dell’Occidente, la Terra della Sera, e forse è l’ora di una nuova alba), il ritorno del maestro unico… e ora, questo, la cosa più incredibile.

Oggi è un giorno speciale, un giorno di festa; un giorno memorabile. E il difficile sarà spiegarlo, magari un giorno, a mio figlio di otto anni virgola cinque (come scrive lui), l’età che avevo io quando uccisero Martin Luther King, e sentii la notizia correre di bocca in bocca all’uscita da scuola. Non è un giorno di rivincita (verso chi o cosa? Ed è stato bello davvero sentire i discorsi dei due contententi, ed erano molto meno retorici di quanto si possa ritenere: se non altro, dimostrano la capacità mostrata dall’America di scegliersi – se vuole, quando lo vuole – leader mediamente molto migliori di chi li vota).
Oggi è un giorno speciale perché, al di là di tutto il simbolismo, qualcuno ha dimostrato che sì, si può. Anche la cosa più bella e apparentemente stravagante. Un giorno a partire da cui, semplicemente, tutti gli uomini sono un po’ più uguali.

 

 
 
 

Rod Stewart, "Farewell"

Post n°43 pubblicato il 16 Ottobre 2008 da fattodiniente


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Ieri sera m’è capitata una cosa davvero singolare, credo irripetibile e certo privilegiata; sono stato invitato alla prova generale dello spettacolo che Marco Paolini mette in scena in questi giorni, Schegge, un collage di nuovi e vecchi brani sulla (sua? nostra?) infanzia.
Eravamo in tutto una dozzina di persone, chiamate a “far pubblico”, per creare un po’ del clima dello spettacolo. Il che dice già molto di cosa sia in realtà il teatro di Paolini: memoria, che si fa affabulazione, e che prende senso proprio dalla sua condivisione, facendosi così memoria e identità collettive. Per un caso ancor più singolare, ieri era anche il mio compleanno, e davvero non ci poteva essere spettacolo più adatto; tra ricordi della carta assorbente e dei quaderni delle regioni, delle signorine della colonia e di improbabili partite di calcio nel campetto dietro alla parrocchia, consideravo quanto di questo blog sia a sua volta una affabulazione sulla memoria di una giovinezza – la mia, ma potrebbe credo esser quella di chiunque – da cui in fondo non mi sono mai staccato. E proprio questi ultimi giorni li ho passati considerando come la musica che ascolto, pressoché nella sua totalità sia musica della mia giovinezza, che non parla d’altro che del mio passato e il cui ascolto non è che tentativo di farlo rivivere, e ritornare, ancora ed ancora.

Il clima della situazione era poi intimo – Paolini che tra una battuta e un racconto, spiegava quanto fosse importante per lui saggiare le nostre reazioni; e poi che concorda con noi l’intervallo per una sigaretta, passato scherzando con lui e il suo musicista; e che alla fine ci ringrazia pure per esser andati – per cui più forte è stato l’effetto del suo raccontare, e del mio riandare lì da dove non mi sono mai mosso…
Che poi è la ragione per cui adoro i primi dischi di Rod Stewart, colmi di allegra malinconia, come questa canzone, non a caso un addio al paesetto natale, che – si capisce benissimo – non verrà veramente lasciato mai.
Ci sono posti da cui non ti staccherai mai, e che vivi più intensamente man mano che il tempo passa. La tua giovinezza, ad esempio. E questo è quanto.

 
 
 

Eagles, 'Take It To The Limit'

Post n°42 pubblicato il 11 Settembre 2008 da fattodiniente

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Io non amo gli Eagles; per essere precisi, non li sopporto quasi per niente. Non mi piace il loro modo di intendere la musica (un milione di volte meglio i Doobie Brothers, per stare al genere), né mi piace il loro modo di fare musica piacione e ruffiano. Insomma, li trovo stucchevoli, fasulli, zuccherosi, e potrei continuare con le contumelie…
La cosa interessante è che non mi si può proprio imputare prevenzione e cattiva volontà nei loro confronti (me ne saranno grati, immagino): ho provato a più riprese a farmeli piacere, a trovare nei loro dischi motivi di godimento, ma non ci sono riuscito. Più li ascolto, più mi innervosisco; e più mi innervosisco, più mi incaponisco a farmeli piacere.
Per carità, qualcosa che riesco ad apprezzare c’è: questa ad esempio è una gran bella canzone (sì, beh, è un clamoroso valzerone, arrangiato nel solito modo stucchevole e cantato col solito insopportabile birignao. Insomma è una gran bella canzone, che con tutto l’impegno che ci han messo non sono riusciti a rovinare), ma da qui ad ascoltare un disco intero… Alla fine son canzoni che mi sembrano scritte e cantate per un raduno di boyscout, con tanto di messa all’aperto.
Ora, ci sono centinaia di artisti da ascoltare (personalmente, possiedo dischi di oltre ottocento artisti diversi, tanto per fare una cifra), e uno si domanderà perché sprecare tempo ed energie nervose per qualcosa che palesemente non funziona: insomma io e gli Eagles non siam fatti gli uni per l’altro. La domanda è ancor più legittima ove si consideri che possiedo l’intera loro discografia, comprensiva delle due raccolte di successi, tanto per avere i brani “migliori” due volte. Già: perché?
Beh, non c’è un perché; o se anche c’è, io lo ignoro nel profondo.
Ma prima di passare ai giudizi, consentite una domanda.
Vi siete mai fissati su una situazione, o ancor più su una persona, per anni, e che per anni vi ha fatto soffrire; cercando di tirare fuori qualcosa di buono, foss’anche solo un premio al vostro impegno, ricavandone solo sofferenze sempre maggiori, ma sempre nella convinzione che qualcosa di buono – di molto buono – ne sarebbe venuto fuori, e che insomma ne valeva la pena a dispetto di ogni evidenza contraria? Non state a spiegare il perché e il percome l’avete fatto, e non cercate di spiegare la particolarità della situazione. Rispondete e basta: l’avete fatto?
Bene, chi è lo strano ora?

 
 
 

The Smiths, 'Ask'

Post n°41 pubblicato il 02 Agosto 2008 da fattodiniente

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Dovessi stendere la colonna sonora dei miei anni ’80, gli Smiths sarebbero presenti con ben più di un brano, e per ragioni le più diverse. Ma, tra tutti, il mio brano preferito è questo, anche se per la più bizzarra e obliqua delle ragioni: per via della copertina del singolo. Ora, gli Smiths avevano la particolarità di mettere in copertina dei loro dischi, attori e celebrità diciamo di seconda mano, o quantomeno di seconda fila, sempre dimenticati, e l’effetto è sempre stato sorprendente, realmente “artistico”, qualunque cosa questo voglia dire. Star ormai declinate della tv, attori di b-movies: perfetti ed esemplari eroi di un’epoca che più di ogni altra anela all’infinito, per cui più di ogni altra ne risulta tragicamente lontana.
Solo che qui la star è Yootha Joyce, l’indimenticabile Mildred Roper della serie tv George e Mildred. E io adoro George e Mildred: satira di costume del british way of life, senza dubbio, ma anche descrizione che si fa universale di quella provincia dell’animo che si estende tra il banale quotidiano e le disperate vertigini dell’esistenza, sospesa tra sogni e incapacità di dar loro forma concreta, senza nient’altro in mezzo che non sia rabbia e frustrazione: hanging on in quiet desperation / is the english way?, come chiedevano i Pink Floyd.
Per quanto sta a me, son pochi i musicisti che negli anni ’80 hanno saputo cantare meglio degli Smiths, crudi sognatori, quello che è ben più di un disagio giovanile: da giovani si scimmiottano esistenze vertiginose e si vagheggiano confini infiniti, per finire da adulti a battibeccare come George e Mildred Roper… Si rideva, con loro, ma era un ridere verde, tra il rabbioso e il malinconico. Una commedia umana che descrive una buona parte di mondo senza muoversi dal tinello di casa.

E poi c’è la storia personale di Yootha Joyce, alcoolista per depressione e morta di epatite, il fedele compagno d’arte Brian Murphy – o era piuttosto proprio George? non so cosa mi piace pensare di più - al suo capezzale sino all’ultimo: e non sai se sia la finzione che si fa realtà, o viceversa; o forse, ancora, la realtà che rovescia la finzione. E non rimane che la malinconia.
Una storia perfetta per una canzone degli Smiths, in ogni caso…

 

 
 
 

Fabrizio De André, 'Il suonatore Jones'

Post n°40 pubblicato il 08 Luglio 2008 da fattodiniente

Una piazza di una città qualunque, un sabato pomeriggio, che ormai si è già risolto a diventare sera.
Nel brusio del passeggio, note e timbriche di una tromba e una fisarmonica, che tracciando frasi in tempi dispari parlano di campi lontani, di nebbie e venti e soli diversi. A spargere quell’allegria zingaresca folle e stordente come quelle scale che mozzano il fiato e danno le vertigini, col loro ritmo sincopato e travolgente. Un po’ balcanico, un po’ klezmer.
E l’aria della città che si fa meno triste e scontata; o forse di più, nel contrasto tra il grigiore del nostro autunno, e gli odori pungenti e i sapori forti che le note evocano e fanno aleggiare per la piazza.

Li cerco, li trovo. Suonano magistralmente, con quella fluidità che solo la costante e gioiosa confidenza con lo strumento ti può dare, quando lo strumento è addirittura più di una parte di te: è la tua voce, i tuoi pensieri, il tuo modo di vedere le cose.
Sono qui a cercar probabilmente un modo meno provvisorio di tirare a campare, e parlano tra loro con quel tono deciso, sempre sopra le righe, che hanno gli uomini dell’est. Rumeni probabilmente, o forse moldavi, a sentire la parlata.
Arrivati qui chissà come, chissà per quanto, che certo un po’ zingari lo sono. Chissà se hanno una moglie da qualche parte, e dei figli: forse no, perché quando sei musico, sei troppo impegnato a raccontare agli altri la loro anima per poterti permettere il lusso di preoccuparti della tua.
Un sorriso, e una moneta dati fugacemente, e un cenno di risposta, a ricambiare. Un cenno prezioso, perché sempre gentile e sincero, e perché venuto da lontano, a raccontar modi d’essere che abbiam perduto, o forse non abbiamo nemmeno mai posseduto. Modi d’essere in cui il fantastico è una struttura del quotidiano, e nei quali uno strumento musicale riempie la vita più delle mille altre cose che non hai e non potrai mai avere.
E finisce che quello strumento diventa la sola ricchezza che puoi spendere, per cercare qualcosa di migliore; che, certo, non troverai qui.

Qui, in un posto dove la ricchezza che doni, pure racchiusa in poche note intrecciate di una tromba e una fisarmonica, vale più di tutti i beni in bella mostra in tutte le vetrine di tutta questa città.
E davvero chiederesti loro, voi che regalate felicità, cosa volete in cambio di migliore?


« E poi se la gente sa,
e la gente lo sa che sai suonare,
suonare ti tocca per tutta la vita
e ti piace lasciarti ascoltare.
Finì con i campi alle ortiche
finì con un flauto spezzato
e un ridere rauco e ricordi tanti
e nemmeno un rimpianto. »

 
 
 

Andy Irvine e Davy Spillane, "Chetvorno Horo"

Post n°39 pubblicato il 01 Luglio 2008 da fattodiniente

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Non sono mai stato in Romania, né tantomeno in Bulgaria. Non conosco né ho conosciuto nemmeno nessun bulgaro, se è per quello.
Romeni sì, ne conosco e ne ho conosciuti diversi, e con molti di loro ho avuto rapporti anche piuttosto stretti, dalla famiglia cui ho venduto la mia casa precedente, alla bravissima alunna che ho avuto a scuola quest’anno, passando a vario titolo per diverse altre persone. Tutte gran brave persone; eccezionali, in certi casi.
Ma non è per questo che mi piace la musica balcanica. Semplicemente, credo che la musica balcanica (nella accezione più ampia del termine, comprendendo cioè la musica bulgara, romena, macedone) sia la musica più bella che esista. Tecnicamente consiste in un tempo dispari, solitamente in sedicesimi (5/16, 7/16, 9/16, 11/16…), cioè quel caratteristico ritmo sincopato, vertiginoso, stimolante e mozzafiato, e che prende il nome, di volta in volta di kopanitsa, horo, paidushka
Me ne innamorai suppergiù un quarto di secolo fa, quando trovai in molti dischi di musica irlandese (!) dei brani per l’appunto balcanici; era una invenzione di Andy Irvine, che in gioventù aveva girato quei paesi come un hobo, raccogliendone umori e suggestioni, per farli diventare linguaggio universale.
In quel periodo lavoravo durante l’estate ai caselli autostradali della Venezia-Trieste, la porta dell’Italia verso l’est. Ricordo certe notti, in cui all’improvviso spuntavano da ovest auto e auto e furgoni e piccoli bus, dalla targa svizzera o tedesca, stipati di uomini stravolti dal sonno e dal viaggio: erano emigranti serbi, romeni, moldavi, che tornavano a casa per le vacanze. Dai finestrini aperti, talvolta uscivano melodie esotiche: era il richiamo di casa, o il richiamo di posti lontani e suggestivi, a seconda del lato del finestrino in cui stava l’ascoltatore. Forse svegliati dal vociare, dall’aria del finestrino aperto, o dal semplice rallentare della corsa, qualcuno di quegli uomini si destava, gli occhi sbarrati a cercar di capire in quale angolo di mondo si trovasse in quel momento, e quanto questo distasse ancora da casa. Occhi e sguardi tristi, eppur vivi e penetranti, come solo gli occhi degli uomini dell’est sanno essere.
E come la musica che accompagnava il loro viaggio e li attendeva al loro arrivo.

(Mominsko Horo)

 
 
 

Pink Floyd, "Shine On You Crazy Diamond, pt.1"

Post n°38 pubblicato il 10 Maggio 2008 da fattodiniente

(eccola)

Ho ascoltato questo brano, e questo disco, sin dal giorno in cui uscì per decine di volte. Diciamo tranquillamente che fa parte della colonna sonora della mia vita, con tutta la stratificazione di significati, ricordi, considerazioni che richiama e si porta appresso.
Eppure, quel peculiare attacco d’organo mi riporta solo ad un film; anzi, al finale di un film: Buongiorno, notte di Bellocchio. La sola cosa che posso dire è che si tratta di un finale così pacatamente sconvolgente nella sua onirica semplicità (condita da una messa in scena quasi povera), da sovrapporsi sino a cancellare ogni altro possibile significato e connotazione del brano.
Ora, per capire appieno il meccanismo del film e della colonna sonora, occorre sapere per bene la storia del disco (chi era Syd Barrett e cosa rappresentarono lui e la sua vicenda per i Floyd, il momento cruciale per il gruppo in cui il disco uscì: l’eredità di Dark Side e tutto il resto…); certamente, nella scelta del brano da parte di Bellocchio gioca il rimando al titolo dell’album, Vorrei tu fossi qui, con un gioco di rimandi raffinato e quasi subliminale tra storia del gruppo e senso del film. Straordinario, davvero straordinario è in questo senso l’uso di una ouverture (tale è l’intro del brano) come conclusione di una storia: una conclusione che – e qui sta il genio – diventa un nuovo inizio, una nuova ouverture di una storia diversa, di un percorso alternativo. Una cosa che Borges avrebbe apprezzato di sicuro.

Poi, c’è l’emozione. Un pathos diverso ma ugualmente intenso e struggente che accomuna la vicenda di Barrett e dei Floyd, e di Aldo Moro e dell’Italia, noi insomma.
Son passati trent’anni. Cosa sarebbe successo se Aldo Moro fosse stato liberato? Se l’immaginazione di una donna avesse avuto (e potesse avere…) corso politico legale? Dopotutto, la politica è l’arte delle soluzioni possibili, ma non per questo non può essere anche capacità immaginativa, fantasia, ed è questo che mi piace della politica…
Che poi, è stato il senso di tutta l’azione di Aldo Moro: la ragione per cui fu rapito e ucciso, e sinceramente credo che a tutt’oggi non la si sia capita fino in fondo; o almeno, la si sia capita fin dove si è voluto o faceva comodo capirla. Dopotutto, l’esperienza e il fallimento de L’Unione prima e dell’Ulivo poi stanno lì a dimostrarlo. Con buona pace di Aldo Moro, il cui insegnamento  si potrebbe finalmente dire che è stato superato dai fatti. Se non fosse che…
Se non fosse che la politica è fatta di persone, prima che di ideali (e confesso: non riesco a non immaginare Volonté al posto del pur stupendo Herlitzka…); ma la realtà la spiega proprio Anna Laura Braghetti, ne Il prigioniero: “Perché rimasi? Me lo sono chiesta tante volte, e mai ho trovato la risposta. O, forse, oggi non mi basta la risposta che mi diedi quella notte. Semplicemente, ci credevo. La fede rivoluzionaria, unita all’autodisciplina e alla necessità di mettere le mie emozioni al secondo posto erano più forti di qualunque altra cosa.” Già. Chi crede è nel giusto.
Io continuo a pensare che sia nel giusto chi riesce ad immaginare un uomo anziano, che cammina solo e libero in una fresca mattina di maggio. C’è più luminosa verità in un sogno: in un sogno e una canzone. Shine on, appunto.

 
 
 

Area, "Luglio Agosto Settembre (Nero)"

Post n°37 pubblicato il 22 Aprile 2008 da fattodiniente

(ascoltala)

Val sempre la pena di riascoltare cose di trenta e passa anni fa: ci si rende conto di un mucchio di cose, e nove volte su dieci si (ri)ascolta dell’ottima musica.
Arbeit Macht Frei
è ad esempio uno straordinario disco, di pirotecnico, spettacolare, intensissimo e coinvolgente jazzrock, suonato dal resto da un manipolo di straordinari musicisti. Potrebbe avere tre mesi, e non ci sarebbe niente da dire; che è un modo come un altro per dire che la quasi totalità della musica prodotta oggidì ha le sue salde radici, ma spesso anche i rami e le foglie, negli anni settanta. E poi c’è Demetrio Stratos al suo meglio – vuoi mettere? –, con Francesco Di Giacomo del Banco di gran lunga il cantante più innovativo, espressivo e dotato della musica italiana.
Ma ovviamente c’è molto di più. Come Luglio Agosto Settembre (Nero), lucidissimo e raggelante, e più che mai attuale, direi anzi profetico, a trentacinque anni di distanza. Parla (ovviamente) della nascita del terrorismo palestinese, e islamico in generale; fatta la tara del ribellismo rivoluzionario del periodo (cosa di cui non si sente francamente la mancanza, e che ha mostrato abbondantemente tutte le sue storture, i suoi limiti e la sua pericolosità: gli Area da questo punto di vista non si fecero mancare niente), resta un atto di illuminante consapevolezza su una condizione che ha portato a quegli esiti e quel conflitto “di civiltà” (ma che scontro di civiltà in realtà non è), che conosciamo così bene: del cosa accade quando un popolo viene umiliato ed offeso, e privato della sua dignità. Basta un verso, “Forse così sapremo quello che vuol dire affogar nel sangue tutta l’umanità”, per mostrare come già alla sua origine tutto fosse chiaro, a chi voleva vedere e voleva capire.
Un brano stupendo che è un documento storico; in forma di canzone, sicuro, ma proprio per questo più diretto, chiaro, inequivocabile.
Sì, vale sempre la pena di riascoltare cose di trenta e passa anni fa; quasi sempre si riascolta dell’ottima musica, e talvolta ci si rende conto di un mucchio di cose, che forse all’epoca non si sono capite, o non si son volute capire, sino in fondo.

 
 
 

Dire Straits, 'Down to the Waterline'

Post n°36 pubblicato il 31 Marzo 2008 da fattodiniente

(ascoltala) 

Ho ricevuto un plico dal signor Piotr Aleksandrović di San Pietroburgo. Non è una esperienza di tutti i giorni, ammettiamolo: mi sembra di stare in un racconto di Čechov o Gogol’… Fare acquisti in rete (di dischi, chi l’avrebbe detto eh?…) permette le esperienze più sorprendenti e originali, ma questa è in assoluto la migliore che mi sia capitata, e che io possa immaginare.
Nella mia intensa attività di acquirente e venditore di dischi, ho incrociato le piste con gente letteralmente ai quattro angoli del mondo: Scandinavia, India, Brasile, Giappone, Stati Uniti, Spagna e Portogallo, Australia e Nuova Zelanda, Germania, Canada, Ungheria, Messico, Cina e Hong Kong, Russia, Estonia e Lettonia, e molto altro ancora. E le esperienze più stravaganti abbondano. Una volta, stavo vendendo un raro cofanetto antologico di Brian Eno; mi scrive un tale dall’Australia, spiegandomi che lui possiede il cofanetto, ma che purtroppo (per lui) il primo cd si è sputtanato, per cui mi chiede se posso fargli una copia del cd medesimo. Ora, se qualcun altro ha mai mandato per pura simpatia un cd masterizzato in Australia ad un tizio ovviamente sconosciuto, il mondo è un posto meno strano di quanto io supponessi.
Poi, si imparano un sacco di cose su come vanno le cose oggidì. Un’altra volta feci notare ad un venditore americano l’ironia insita nel fatto che un ascoltatore italiano (me medesimo) acquistasse in California un disco di rock italiano prodotto in Giappone, introvabile in Italia. Immagino la delusione di un acquirente americano che trovandosi in Italia cercasse cose analoghe, pensando di essere al posto giusto. E poi c’è gente che straparla di localizzazione degli acquisti… En passant, l’americano, del tutto privo di sansofiumor come mediamente sono tutti i suoi compatrioti, non colse il paradosso, che Dio gli voglia più bene di quanto non gli ha voluto sinora.
Del resto, la prima volta che andai in Bretagna, quasi un quarto di secolo fa, cercai quante più cose potei di musica bretone… che in realtà trovai soltanto a Parigi. Così come in Galles trovai meno cose di musica gallese di quante ne trovassi abitualmente a Venezia. La sola cosa di rilievo che trovai in Bretagna fu un nuovo lp degli irlandesi Chieftains, registrato da vivo in Cina con musicisti locali. Le vie del Signore restano misteriose, a meno che non si diverta semplicemente a giocare ai quattro cantoni col mondo.
Che poi, mi resta il dubbio del perché un indiano (dell’India) acquisti da un italiano un disco di folk inglese (John Renbourn Group) prodotto in Giappone. Certamente c'entrerà il colonialismo inglese, e il fatto che nel disco suoni anche un suonatore indiano di tabla (!), ma insomma…
Certe volte le cose hanno un po’ più di senso: non tanto, ma un pochino sì. Il rock italiano degli anni ’70 è amatissimo nel paese del Sol Levante, tanto che la PFM sei anni fa ci andò apposta a registrare un disco dal vivo. Un paio d’anni dopo, la stessa PFM realizzò un bel cd+dvd registrati in Piazza del Campo a Siena. Prodotto ovviamente (?) riservato al mercato interno. Così, mangiata la foglia, ne acquistai alcune copie che pronto vendetti in Giappone. Anzi, un tale dopo averne acquistata una, mi scrisse se gliene potevo procurare un altro paio per due suoi amici. E poi dice che il mercato discografico italiano è asfittico e in crisi… ci credo: hanno una miniera d’oro in mano, e non se ne rendono conto, ma torniamo al discorso che ho fatto un paio di post fa parlando della NCCP…
La cosa bella di tutto questo, al di là dei dischi, è proprio incontrare, o forse è più corretto dire aver a che fare, con persone di tutte le latitudini e longitudini che condividono una comune passione, e il piacere di ricevere mail dai signori Ray Mizutani di Kyoto e Shuuji Sasaki e Eiki Nagasaki di Fukuoka, che mi salutano davvero con “Hi, Giuseppe-san” come nella più ovvia letteratura, è un piacere che non ha uguali nel suo genere. Persone che con ogni probabilità non vedrò mai, anche se il giorno che andassi in Giappone non mancherò una visita ai loro negozi, per provare ciò che Helen Banff provò il giorno che mise piede nel negozio – ormai chiuso – del suo amico di penna e molto altro Frank Doel, che vendeva libri antiquari all’84 Charing Cross Road di Londra.

A proposito, il signor Piotr Aleksandrović di San Pietroburgo è uscito dalle pagine di Gogol’ per vendermi una copia giapponese del primo album degli inglesi Dire Straits.

 
 
 

Bob Dylan, "If You See Her, Say Hello"

Post n°35 pubblicato il 15 Marzo 2008 da fattodiniente

(ascoltala) 

Non c’è nessun dubbio che la letteratura provveda alla nostra educazione sentimentale – è di questo che si tratta dopotutto: casomai bisogna vedere cosa uno legge, e in cosa si ritrova. Io, ad esempio, dovrei citare due libri, che corrispondono anche ai due periodi fondamentali della mia vita. Dai venti ai quarant’anni, il mio faro è stato La coscienza di Zeno, e dai quaranta in poi, Alta fedeltà di Nick Hornby. Il che suppongo possa venir letto come una specie di regressione similinfantile o quel che è, ma non è affatto così. Semplicemente, Alta fedeltà è stato pubblicato in Italia nel ’98; e quanto al resto, trovo nei due romanzi più analogie stilistiche e nei personaggi di quante possano essere le differenze. Poi, è vero che in un libro, o in un personaggio, uno trova di sé quel che crede e che vuole trovare (e tanto peggio per chi inorridisce per l’accostamento: questa è la mia vita, e sarò libero di scegliere per essa la colonna sonora e i commenti fuori campo che credo, giusto?).
Ma a parte questo, c’è una serie di aspetti che trovo interessanti in questo discorso. Innanzitutto, il fatto che alla mia educazione sentimentale hanno provveduto anche svariati film, e una certa quantità di poesie, ma indiscutibilmente nessuna canzone (ergo anche nessun disco). Personalmente ritengo che chi scrive strazianti e stupende canzoni d’amore – che ovviamente sono nella loro quasi totalità canzoni sulle sofferenze d’amore – menta spudoratamente, oppure abbia un cuore di pietra. Beh, magari non sarà una regola universale, ma quando uno soffre per amore, non ha voglia di stare a sentire niente, figuriamoci trovare la voglia di cantarci su. Almeno, per me è così che funziona. Diciamo le cose come stanno: nelle pene d’amore, si sta di merda, altro che versi alati ed elegiache canzonette. Oppure bisogna essere dei gran paraculi come Pedro Salinas. Figuriamoci, io non riesco a risentire neanche a distanza di anni qualcosa che abbia ascoltato in periodi di crisi affettiva, perché mi riporta a persone e situazioni con cui non voglio aver più niente a che fare neanche dipinte.
Il che spiega a sufficienza perché trovi del tutto inadatta una canzone come strumento di educazione sentimentale. E specularmente, molte delle canzoni che adoro parleranno anche d’amore e della bellezza o della tristezza, a seconda dei casi, dell’essere innamorati; ma io so che da innamorati si sta da schifo, che non c’è niente di propriamente bello in questo, per cui lasciamo perdere.

E poi c’è il fatto di dover provvedere alla propria educazione sentimentale anche passata la boa dei quarant’anni. Va bene che non si finisce mai imparare, ma insomma ci vorranno anche poi del tempo e delle occasioni per mettere in pratica quanto appreso, e la cosa sembra avere la stessa utilità di un corso di educazione sessuale all’università della terza età. Comunque, se uno certe cose non le ha imparate quand’era il momento, forse è il caso che le lasci perdere, tanto è evidente che non le imparerà mai.

Che poi, la questione è propriamente di cosa consista questa benedetta educazione sentimentale. Un giusto modo di agire (recta ratio factibilium) in vista di uno scopo? Che tristezza. Il bello dell’esser innamorati è precisamente che uno è giustificato nel fare le più immonde vaccate, e nel dare il peggior spettacolo di sé. O forse, consiste nell’apprender l’arte del non piangersi poi addosso per questo; ma somiglia tremendamente ad una autoassoluzione, e in questo, ammettiamolo, siamo bravi tutti a prescindere. E in effetti, considerando che uno sceglie le proprie forme di educazione sentimentale in primis sulla base dell’identificazione tra il proprio sé – meglio: dell’immagine che egli ne ha, e la vicenda o il personaggio rappresentato, tutta la cosa suona come pericolosamente autocelebrativa. Il che, quantomeno, vale in toto per me. Lo ammetto, mi son sempre beato delle stranezze di Zeno Cosini e delle amene scempiaggini di Rob Fleming, e il tutto si è sempre risolto in una sinfonia di “eh come lo capisco”, “oh, è proprio così che mi sento”, “accidenti come mi descrive bene” e “proprio come ho fatto/farei io”. Il che non è granché come insegnamento, e dice a sufficienza il perché continui a comportarmi sempre allo stesso modo.
Per carità, qualcosa di me ho capito, ma se pure ho saputo trarre buoni propositi e interessanti indicazioni, ho regolarmente fallato al momento della messa in opera, il che può essere spiegato con l’assoluta inettitudine dei due personaggi (probabile), o mia (sicuro). Promosso con buoni voti in teoria, per la pratica si ripresenti prego.

Siccome però voglio essere positivo, ecco un elenco essenziale delle regole che ho appreso, e raramente saputo mettere in pratica:

1.   Niente amarezza, fa provinciale. E palloso. In pratica, il sistema più sicuro per non recuperare situazioni perdute. Molto utile quando si vuol chiudere per davvero.

2.   Niente acidità. L’acidità denota la scadenza del prodotto. Se si diventa acidi, vuol dire che si è la causa del problema. Resta da spiegare il piacere selvaggio che l’acidità dona. Rob Fleming, ad esempio, non sa spiegarla affatto, mentre Zeno non è mai acido neanche per sbaglio. Mi sono scelto due guide spirituali da poco, da questo punto di vista.

3.   Niente recriminazioni. Le fregature che prendi alla fine pareggiano quelle che dai. Tutta la gente piange le fregature che ha preso, e mi domando dove siano quelli che le danno. I Beatles cantarono questo concetto così “E alla fine, l’amore che prendi è uguale all’amore che dai”. Ma loro erano i Beatles, e io sono uno della Riviera.

4.   Niente è per sempre, e tutto passa. Poi, che arrivi qualcosa di peggio è pure un fatto, ma la vita è fatta così, per cui ciucciati quest’osso e non stare tanto a rompere le balle. In forma poetica, il concetto viene così espresso da Igor: “Se la sorte ti è contraria, e mancato ti è il successo, non far più castelli in aria, e va’ a piangere sul…”. Questa in effetti è una massima che non son riuscito a mettere in pratica MAI.

5.   Essere generosi alla fine di una storia, per quanto si può e per quanto è giusto. Riconoscere le ragioni dell’altro è anche riconoscere che egli ha rinunciato, almeno in parte, almeno per un po’, a qualcosa di suo per noi. Dopo questo atto di generosità, lo si può strozzare col cuore più leggero. Questo è il punto che mi riesce meglio, per intero e sistematicamente.

6.   Le storie chiuse, quando sono chiuse,  sono chiuse. Rimpiangerle, o peggio cercare di farle rivivere è più meno come mettersi i calzoni corti e credere di essere tornati in quinta elementare. Ma talvolta succede, solo che non saprei dire quando e perché, per cui è una regola del menga.

7.   L’esperienza non ti insegna niente; niente di essenziale, intendo dire. O detto altrimenti, il tempo che hai passato con qualcuno non te lo restituisce niente e nessuno, in nessun modo. O accetti ‘sto fatto, o è meglio lasciar perdere. Io non ho mai lasciato perdere.

Ah, la canzone. Blood on the Tracks è la cosa più simile ad una educazione sentimentale che conosca in campo musicale. Sulla sua sincerità, contrariamente a quanto ho affermato in precedenza, non si discute. Niente di alato, una semplicità onesta e scorticante, e alcuni passaggi francamente da brividi. Non l’ho mai ascoltato in momenti di crisi, mi mette già in difficoltà in condizioni normali. E… ok, lo ammetto, c’è da imparare, ad ascoltarlo

 
 
 

Nuova Compagnia di Canto Popolare, "Madonna tu mi fai"

Post n°34 pubblicato il 09 Marzo 2008 da fattodiniente

(ascoltala, senza ridere del video ridicolo: oh, non son capace di fare video flv, va bene?) 

Non c’è stata mai tanta disponibilità di musica quanta ce n’è oggi, non è mai stato tanto facile e accessibile ascoltare qualcosa. E tuttavia questo non significa che si riesca a sentire tutto. Anzi, certi artisti, come ad esempio la Nuova Compagnia di Canto Popolare sono una sfida alla ricerca. Questa situazione mi ricorda una delle trasmissioni radiofoniche che amavo da ragazzetto, “Non tutto ma di tutto”. Trovare i loro dischi è praticamente impossibile, giacché la loro discografia non è mai stata stampata a dovere in cd, e la sola possibilità di averla è ricorrere al (costoso e incerto) mercato del collezionismo, con tutti gli accidenti del caso.
Il che non sarebbe un male in sé: non abbiamo mai sentito tanta musica, solo che non ha mai suonato tanto male. Gli mp3 suonano molto peggio dei cd, che a sua volta suonano molto peggio dei dischi in vinile: è un semplice fatto fisico; il suono è un fatto meccanico, trasmissione di onde sonore: nella codificazione digitale si perdono tutte le armoniche e le infinite sfumature del suono “naturale”, per cui si tratta di una scelta di campionatura. Alla nascita del digitale, quasi tre decenni fa, l’industria scelse la forma del cd, con la codifica a 44100 hz, per una ragione economica: una campionatura più complessa – quella che per capirci viene oggi usata per i superaudio cd, e che garantisce una fedeltà circa 40 volte superiore – sarebbe stata estremamente costosa e avrebbe ucciso il mercato dei cd sul nascere, così il cd e le sue limitazioni divennero lo standard. Così, quel che si crede essere la “pulizia” del digitale, è in realtà la semplice scarnificazione del suono: si tagliano forzatamente delle frequenze e delle risonanze, e buonanotte alla pienezza dell’originale. Poi, questa è una cosa di cui pochi si rendono conto, e meno ancora sono quelli cui sembra importare. Ma che sia una forma di diseducazione, non ci piove. Del resto, il mondo è pieno di gente che si mette in casa stampe di quadri famosi, e poco si preoccupa di vedere almeno una volta gli originali.
Nel caso della NCCP, il peccato è doppio: l’operazione che portò avanti era straordinariamente importante per la cultura del nostro paese, ma non è strano che sia andata perduta quasi del tutto nell’Italia attuale, sicché abbiamo perso una parte di noi stessi per la seconda volta. E i risultati si vedono. Ma anche qui, la cosa non pare interessare poi molto, generalmente parlando. Di fatto, di loro si riesce a trovare, e con fatica, solo qualche antologia, quasi tutte neanche molto ben fatte. Il che è un motivo in più per piangere l’epoca del vinile.
L’epoca, già. Gino Castaldo ed Ernesto Assante parlano proprio di “fine di un’epoca”, perché in quegli anni la forma del supporto – il vinile – coincideva con l’intenzionalità dell’opera, e le opere che vennero prodotte in molti casi avevano tutti i crismi dell’artisticità, e molto contribuirono alla crescita ed alla consapevolezza culturale di una generazione.
Per carità, ho già detto altre volte che il laudatis temporis actibus non è un abito mentale che mi appartenga, né che condivida, ma questo non vuol dire che le critiche alla cultura dell’ipod e degli mp3 scaricati non siano più che legittime. Ora ascoltiamo di tutto – non tutto, appunto – ma neanche siamo consapevoli di come ascoltiamo, e questo ci rende più poveri nell’apparenza di esser più ricchi.
Poi, resta questione di gusti. Ma gioielli come questa Madonna tu mi fai non ne vengono prodotti più. Ed è un mondo un po’ meno bello da vivere.

 

 
 
 

Tears for Fears, 'Sowing the Seeds of Love'

Post n°33 pubblicato il 22 Febbraio 2008 da fattodiniente

(ascoltala, casomai ce ne fosse bisogno…) 

Ed eccomi infine giunto alla trentunesima canzone; non pensavo proprio che sarei arrivato a questo numero, di solito mi annoio prima, e credo che tra i miei innumerevoli blogs (è plurale) non ce ne sia uno che abbia superato i sei mesi di vita attiva. Questo dipende dal fatto che non ho mai fatto di un blog la mia vita, né il suo specchio fedele. Peraltro, questo è in assoluto uno dei due che preferisco, e che mi son divertito di più a scrivere. Curiosamente, questi due sono anche i due meno letti. Beh, peccato, ormai dovrò farmene una ragione…
Del resto, la popolarità dei blog è una faccenda abbastanza opinabile, e funziona più o meno come la popolarità televisiva: più ti fai vedere in giro, e più dici cose che chi ti ascolta vuol sentire, più sei popolare. Dopo di che, più sei popolare, più ti guardano (o leggono), perché è evidente che se uno è popolare, una ragione ci sarà. So di cosa parlo, essendo io stato in passato popolare di questa popolarità – uno dei miei blog ad esempio fu uno dei primissimi blog del giorno –, e so anche che sono tutte cazzate. “Gloria da stronzi”, come la chiamò Guccini.
Intendiamoci, non c’è niente di male a piacere, e nello scrivere cose che interessano. Dopotutto i blog sono scrittura pubblica. Poi, si tratta di vedere cosa si è disposti a fare, e a scrivere, per piacere. Io, ad esempio, molto poco. E già risulto poco amabile di mio, figuriamoci. Dal mio punto di vista, è una faccenda di pigrizia: ho sempre, da anni e anni, scritto; una forma terapeutica, diciamo così. Ma se non ho il pungolo, l’impegno della forma-blog, lascio perdere tutto assai prima dei sei mesi canonici. Per cui apro e chiudo blog a seconda dell’ispirazione e del momento, della voglia e della curiosità, e mi curo meno del minimo sindacale per ‘promuoverli’. Scrivo qualcosa sinché mi diverto, e poi non scrivo più: cambio stile, forma, argomento, e se vogliamo anche questo è un modo di tenere un diario della quotidianità; i blog come metalinguaggio, possiamo dire. Se qualcuno legge, e apprezza, mi fa piacere (ovvio), ma pazienza se il resto dell’umanità si perde le mie perle di saggezza e i miei capolavori letterari in miniatura: come dicevo, ho superato questa fase, ed essendovi sopravvissuto, da questo punto di vista sono un postero e non un poster di me stesso.

Tornando al quid, il trentunesimo post, c’era il problema della canzone di cui parlare per sottolineare l’evento. Inizialmente avevo pensato a Pissing in a River di Patti Smith. Intanto è una bellissima canzone, ma c’è il fatto che in questo momento Patti Smith sta nei primi tre posti della mia hit parade di ascolti (un altro è occupato dall’Incredible String Band, di cui ho già detto, mentre del terzo dirò tra poco), e soprattutto è la trentunesima canzone – quindi l’ultima - di cui parla Nick Hornby nel suo libro, e la coincidenza dei due fatti mi sembrava molto significativa.

Poi però è prevalsa la voglia di parlare dei Tears for Fears, cosa che non avevo ancora fatto, e che mi sono sempre ripromesso di fare. Che cosa ci sia da dire su di loro, in particolare, non saprei: sono un gran gruppo (un duo, va bene), molto al di là dell’etichetta “gruppo anni ‘80” con cui li si identifica di solito. Fanno gran musica: belle canzoni, eccellenti album, splendidi arrangiamenti, vibranti esecuzioni e tutto il resto. In effetti, se la Vodafone ha scelto Sowing the Seeds of Love come jingle, vent’anni dopo la sua pubblicazione, un perché ci sarà. Anche se di canzoni loro da ripescare ce ne sarebbero un paio di decine, e non esagero affatto. Poi, per stare alla faccenda della scrittura personale, i Tears for Fears sono appunto il terzo mancante nella mia top list attuale.
E questo è quanto. Sipario. Applausi.

 
 
 

Amazing Blondel, 'Swifts, Swains and Leafy Lanes'

Post n°32 pubblicato il 15 Febbraio 2008 da fattodiniente

(ascoltala)

Gli Amazing Blondel sono, per quanto sta a me, Il Più Conosciuto Gruppo Misconosciuto della storia del rock (e non facevano nemmeno rock, come si può ben sentire). Dove con questo si dimostra una bella sfilza di bizzarrie, a partire dal concetto stesso di rock, che comprende praticamente qualunque cosa sia stata messa su disco (ma anche no) negli ultimi quarant’anni – musica classica e lirica a parte. Per stare al gruppo, non lo conosce praticamente nessuno (una volta chiesi ad una conoscente se ne avesse sentito parlare, mostrandole una loro foto, e la risposta fu “e chi sono? Due rabbini e un gesùcristo?”; risposta che denota al tempo stesso il sansofiumor della conoscente medesima, e la sua notevole attitudine al sincretismo religioso).
Eppure, nei gloriosi anni settanta, in Italia li conoscevano in parecchi, e i loro dischi – non molti a dir la verità, ogni tanto occhieggiano ancor oggi negli scaffali dei cd di alcuni negozi. E chi si interessava di musica in quel tempo quantomeno di nome li conosce di sicuro. Da qui, il titolo onorifico di cui li ho testé gratificati. Musica elisabettiana, interpretata con strumenti dell’epoca e una sensibilità tutta contemporanea e una venatura religiosa molto spiccata, del tutto prossima al folk rock tanto di moda trenta e passa anni fa. Una cosa molto particolare (ok, stucchevole alle orecchie dei più, non discuto), assai caratterizzata e quantomeno singolare.
Neanche a dire che personalmente li ho sempre amati, come tutte le bizzarrie che mi capita d’aver conosciuto, ma anche per ragioni diciamo così affettive, visto che England, uno dei loro due dischi più famosi, è stato uno dei primi dischi che mi son acquistato da ragazzetto. La loro carriera si concluse abbastanza rapidamente, dopo di che nulla si seppe di loro per oltre un ventennio. A quanto sapevo, il loro leader, John David Gladwin, intendeva dedicarsi alla religione, forse facendosi canonico nella cattedrale di Lincoln, la sua città natale, ma poteva anche essere una bufala, o che ne so. Di fatto, abbandonò la musica. L’umanità è andata avanti lo stesso, questo è un fatto, e non si può dire che abbia risentito della loro dipartenza, ma almeno un fesso che li ha serbati in un angolo del suo cuore (in un recesso piuttosto remoto comunque, va detto) c’è stato. E quello sono io (l’avevate indovinato, suppongo).
Una decina d’anni dopo, era il 1987, mi capitò una esperienza un po’ singolare che li riguardava, e di cui fui del tutto l’artefice. A zonzo per l’Inghilterra, capitai per l’appunto a Lincoln. Visitando la meravigliosa cattedrale, non resistetti, e abbordai un religioso, chiedendo con il mio accento oxfordiano se potevo porgli una strana domanda. La risposta cortese e divertita fu “certo, le darò una strana risposta” – dove si vede che lo humor inglese esiste, e che un rock fan arriva a fare le cose più strambe. O forse era soltanto l’esempio di mia nonna e poi di mia madre, due note sfrontate attaccabottoni. Com’è e come non è, gli chiesi se conoscesse Gladwin: doveva conoscerlo, per la mia mentalità provincialotta: dopotutto non solo era una gloria locale (!), ma a quanto sapevo doveva aver fatto parte del corpo religioso del luogo; ed in ogni caso, era un fatto che nella cattedrale gli Amazing Blondel ci avevano suonato e ci avevano fatto le copertine dei loro dischi, con tanto di ringraziamenti al Capitolo. E invece non l’aveva neanche mai sentito nominare. Con una solerzia degna di miglior causa, cercò anche il Maestro del Coro, che nel caso qualche informazione in più doveva averla, ma fu un altro buco nell’acqua. E gli Amazing Blondel finirono anche per me definitivamente nell’ombra.
Una decina d’anni ancora, e i Blondel tornarono inaspettatamente alla luce della memoria: si riformarono, pubblicando un disco che, diffidente, non mi son preso neanche la briga di comperare: sic transit gloria mundi. Ma per l’occasione, venne pubblicata anche una raccolta di incisioni dal vivo d’antan (’72 e dintorni), e quella sì me l’acquistai. E giuro, alla prima strofa della prima canzone, all’attacco del cantato insomma, mi commossi: la voce così familiare del solista, John David Gladwin, riemergeva dalle nebbie del tempo, come avesse atteso due decenni per farsi riascoltare, e cancellando in un attimo tutti gli anni, e tutto quanto successo nel frattempo. Allora erano esistiti davvero, si erano davvero esibiti davanti ad un pubblico… E fu persino una sorpresa, perché dal vivo risultarono essere trascinanti, appassionanti e incredibilmente divertenti, tra gag e battute degne del miglior Ian Anderson degli anni d’oro.
Ed ora, c’è YouTube. Ed eccoli qui, a suonare – guarda un po’ – nella Cattedrale di Lincoln: mi verrebbe voglia di cercare quel canonico e mostrargli il video, se non altro per togliermi l’etichetta di pazzo visionario che da allora, non c’è dubbio, mi porto appresso nella sua considerazione. Ci ho perso il sonno tante notti per questo, in questi vent’anni e passa. Strambo io, strambi loro, strambo il mondo. Ma per favore, suonate anche qualcosa di loro al mio funerale.

 
 
 

Kate Bush, 'Lily'

Post n°31 pubblicato il 02 Febbraio 2008 da fattodiniente

(ascoltala)

È abbastanza noto il fatto che il rock è un universo prevalentemente, o quantomeno largamente maschile. La gran parte degli artisti rock sono uomini, a dispetto del fatto che – soprattutto negli ultimi anni – gli appassionati del genere si dividono abbastanza equamente nei due sessi.
Non ho mai trovato una spiegazione soddisfacente di questo fatto, e di sicuro non ce l’ho io, però è così. Il che è strano, visto che per sua natura il linguaggio del pop è per definizione coniugabile con ogni altra forma musicale, e quindi più si presta ad ogni forma di declinazione e sperimentazione. Ma le donne nel rock restano una minoranza discretamente sparuta.
Ok, questo vale ancora praticamente per ogni aspetto della vita pubblica, sociale e lavorativa, e non sono il più qualificato a stabilire quanto e come le cose siano cambiate negli ultimi anni, e quanto ancora stiano cambiando. Quel che so, è che la metafisica del lavoro, che è poi il mondo della Tecnica, ruota attorno al modello tradizionale con una precisa e rigida suddivisione dei ruoli, e non è un caso che i fautori del liberismo classico siano anche strenui e convinti difensori della famiglia tradizionale, considerata come “naturale”. E questo modello penalizza la libertà individuale e la possibilità di scelte – individuali, sociali, politiche, economiche – diverse. Non credo sia una spiegazione diretta della penuria di artisti donne nel rock, ma certo anche nel rock si parla di “carriera”, da costruire, perseguire, difendere: e il rock, come ogni altra attività, è anche, almeno per il 50%, una faccenda economica. Del resto, la percentuale di artisti che sacrificano la carriera alle scelte familiari è inversamente proporzionale alla suddivisione assoluta uomini/donne; dove evidentemente non è sbagliata la scelta, quanto il fatto che sia necessario farla. E ovviamente è così in qualunque campo, solo che in quello artistico (e magari sportivo) la cosa semplicemente si nota.
Kate Bush è una che questa scelta l’ha fatta. E prima di fermarsi, nel 1992, ha pubblicato questo album, che è probabilmente il suo capolavoro – o almeno lo è per me, che la seguo dagli inizi e possiedo la sua intera discografia. E va detto che vedere un artista nel pieno della sua maturità espressiva fermarsi, qualche interrogativo lo pone. Tantopiù se lo si ritrova poi tredici anni dopo, con un altro album (Aerial) altrettanto straordinario. Cosa ci siamo persi?
E cosa ci perdiamo, quotidianamente, se la metà secca delle nostre migliori intelligenze sono in qualche costrette, o anche solo portate, alla stessa scelta? Si dice che le donne che sacrificano la vita familiare alla carriera finisco per ragionare e somigliare ad un uomo. Può essere. Ma non piacciono queste classificazioni, che mi sembrano tanto generalizzazioni, che come tutte le banalità nascondono un impensato che diventa così difficile assai da raggiungere. Magari bisognerebbe chiedere invece se la mentalità del mondo della Tecnica non sia figlia della mentalità maschile, o se quella che chiamiamo mentalità maschile non sia semplicemente l’epifania del mondo della Tecnica; probabilmente sono vere le due cose, che poi è un modo diverso di dire la cosa di prima: la mentalità occidentale (di questo si tratta alla fine) ha una genesi storica, e cristallizza un modello culturale antico e tradizionale.
Io davvero non lo so se un modello sociale ed econonico diverso sia possibile: certo occorrerebbe uno sforzo culturale epocale, e questi non sembrano tempi. A quanto preferiamo occuparci di sciocchezze filosofiche (non è ironico) come la biodiversità o il riscaldamento globale, che non portano da nessuna parte e fanno perdere completamente di vista il senso profondo del problema (e del malessere) occidentale.
Già, l’Occidente, la Terra della Sera… La Terra in cui metà del potenziale umano è sacrificato ad una metafisica che lo rende schiavo, e non sa rendersene conto. Anche per questo è probabilmente destinata a tramontare.

 
 
 

Riccardo Tesi, 'Maggio'

Post n°30 pubblicato il 26 Gennaio 2008 da fattodiniente

(ascoltala)

Mi sono innamorato di questo brano, e di questo disco, letteralmente in tre secondi, il tempo di realizzare il senso della frase musicale. Era un sabato pomeriggio di sette o otto anni fa, a dischi con gli amici, in un negozio di Vicenza. Dieci secondi dopo ero al banco per chiedere informazioni, ed acquistarlo: era già venduto. Un paio d’ore dopo, a Padova, lo stringevo in mano: sarei diventato matto se non l’avessi avuto subito, io son fatto così.
Un disco del Manifesto, seimila lire dell’epoca. Che canta un’Italia che non c’è più, o forse c’è ancora, o forse può esserci di nuovo. L’organetto di Tesi, che racconta tutti gli stati d’animo possibili, fiati bandistici e la voce antica di Maurizio Geri, che canta nello stile dello stornello toscano brani demodé e attualissimi, che parlano di pastori, di Garibaldi e Anita, di re e contadini, di campagne e paesi; e un senso solare, allegro - ma di una allegria a volte da naufraghi - dell’esistenza, colma di sapori veraci, menta e rosmarino, come direbbe quel tale.
Da allora non ho perso nessuna uscita del Maestro – su tutte, lo strepitoso Acqua Foco e Vento, da avere, assolutamente. Mai una delusione, con la magia dell’organetto che evoca piazze di paese, una socialità spontanea, sincera e partecipata; che sa essere travolgente o riflessiva, triste a volte, come ha da essere, ma sempre felicemente triste, e mai tristemente felice.
Musica della gente. Musica per sognare ad occhi aperti. Musica per i momenti bui, e di smarrimento; musica come bussola, per capire chi siamo, da dove veniamo, e dove sarebbe sempre possibile fare rotta. Il nostro futuro antico.
Sei euro di gioia autentica, e non c’è cifra che la ripaghi.

 
 
 

Queen, 'Somebody to Love'

Post n°29 pubblicato il 20 Gennaio 2008 da fattodiniente

(ascoltala)

L’idea di parlar di canzoni per parlar anche d’altro non è una idea mia; non è neanche questa idea poi così originale, se vogliamo, ma in ogni caso non è mia. Nella fattispecie, l’ho presa da una bella (e abbastanza famosa) raccolta di articoli di Nick Hornby, 31 canzoni: se l’ha fatto lui, mi son detto, perché non farlo anche io? “Beh… perché lui è per l’appunto Nick Hornby, e io non sono un cazzo” poteva essere una buona risposta, ma al momento non m’è venuta in mente. Scarseggio di buone idee ultimamente, pare… Ad ogni buon conto il debito pensavo d’averlo pagato col sottotitolo, cui ho prudentemente aggiunto un “più qualcuna” nella stravagante ipotesi che fossi mai riuscito a raggiungere quella soglia. Essendo arrivato contro ogni aspettativa alla ventisettesima canzone, ho il dubbio che i debiti che questo blog ha, debbano essere onorati.
E allora devo anche dire che nemmeno Gloriosa spazzatura è una definizione mia, e anche questo pensavo (beata ingenuità) fosse noto ai più (i meno evidentemente non contano mai un cazzo), ma pure in questo credo d’esser stato smentito. I meno sono i più, e a questo punto non se spiacermi per i più, o per i meno, o se considerare sia i più che i meno più o meno dei boccaloni. Per farla breve, “gloriosa spazzatura” è la definizione che Gino Castaldo diede – or sono parecchi anni – della musica dei Queen. Splendida e calzante definizione. Non che io abbia niente contro i Queen: tra l’altro possiedo la loro discografia quasi per intero (in edizione speciale ecc ecc). Oddio, questo magari non è un fatto dirimente, vista la quantità discutibile di discutibili dischi che riempiono i miei scaffali. Ci sono molte cose dei Queen che mi piacciono… molte: diverse, ecco. Qualcuna, ad esser precisi.
Beh, tanto il punto comunque non è questo. Non è un blog sui Queen, e s’era capito, né ispirato in alcun modo a qualcosa dei Queen. Mi affascina la cosa della spazzatura, e trovo semplicemente che la definizione sia appropriata per la musica pop nel suo insieme. Dopotutto, abbiamo scoperto che la spazzatura è un bene, produce ricchezza ed è ricchezza in sé. E per il resto, il pop è indiscutibilmente una musica gloriosa: nella sua accezione peggiore arriva ad essere pomposa; in quella migliore, è gloriosa in un modo che Somebody to Love (toh, dei Queen, guarda un po’…) illustra benissimo.
Ora, la caratteristica della spazzatura è di essere composita, e per quanto possiamo ingegnarci a differenziarla, una scatoletta di tonno, una lametta e del fil di ferro arrugginito stanno insieme esattamente come gli animali dell’enciclopedia cinese di Borges, che fece tanto ridere e tanto fu utile a Michel Foucault, che da essa prese spunto per Le parole e le cose (giusto per far capire che l’ascoltatore del pop non è necessariamente un imbecille incolto). La musica pop è esattamente questo: cascàmi. Prendi un genere, uno stile, un periodo musicale; spoglialo del suo riferimento e del suo significato, del suo valore cioè, raccogli gli scarti che ne restano, mettili insieme con altri, ed ecco fatta una canzonetta pop. Di spazzatura trattasi, neanche tanto riciclata – semilavorata diciamo, ma ricca di storia e che brilla di gloria, un po’ propria e un po’ riflessa.
Poi, è solo questione di dichiarazioni, esattamente come i barattoli e i quotidiani di Warhol stanno agli scaffali di supermercato e alle croste da mercatino delle pulci. Frank Zappa, ad esempio, dichiara esplicitamente le sue fonti, le magnifica per dir così, e dimostra che si può far arte anche con la monnezza, come del resto i décollages di Mimmo Rotella, il Marzbau di Schwitters o i rottami di John Chamberlain dimostrano in modo inequivocabile.
Certo, non tutto il pattume è arte: a nessuno verrebbe in mente di considerare le strade di Napoli un’opera d’arte, tanto per dire. Per cui nemmeno tutto il pop lo è: lo diventa nel momento in cui si guarda ai detriti riutilizzati con occhi e prospettive diverse. Il resto è colore locale, folklore industriale, cui gli antropologi del futuro guarderano per capire meglio un’epoca, esattamente come gli archeologi considerano un tesoro un buco di cesso dell’Antica Roma, e guardando gli stronzi fossili capiscono un milione di cose sull’alimentazione, sull’origine dei cibi, i loro spostamenti e le dinamiche degli scambi economici e commerciali, e chissà che altro, di duemila anni fa.
Ma questo è un aspetto della faccenda che non mi interessa: già mi frega poco cosa pensa di me il mio vicino di casa, quando guarda la mia collezione di cd (‘soldi ben buttati via’), figuriamoci se m’interessa quello dei suoi pronipoti. Preferisco i poster ai posteri.
Ah, in ogni caso Somebody to Love è un coro gospel.

 
 
 

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